mercoledì 19 luglio 2017

Ventesima tappa. I cammelli sulla via della seta. Da Miass a Chelyabinsk.



Siccome, finalmente, il governo russo ha deciso che blogspot non rappresenta un'arma di distruzione di massa nè costituisce grave pericolo per la sicurezza della Federazione, posso tornare a scrivere qui. Le due tappe precedenti le trovate sulla pagina Facebook www.facebook.com/volpeapedali. Nel caso in cui dovesse ricapitare, tenete sempre d'occhio il social, che è più immediato da aggiornare. 
Ciancio alle bande.

Ma quanto è bella Chelyabinsk?








La capitale dell’oblast in cui mi trovo da qualche giorno si è rivelata un’altra bellissima sorpresa, inaspettata e gratuita (o quantomeno pagata solo con la fatica di arrivarci). E’ questo il bello dei viaggi in bici: non ci si perde un metro delle terre che si attraversano e si scoprono angoli di mondo che mai uno andrebbe a visitare appositamente.
E invece eccomi qua in una città meravigliosa che non compare in alcun tour della Russia che potete comprare in agenzia.









Arrivarci è stato facile.
Sono partita questa mattina da Miass, dopo l’ormai consueta sindone di lavash che è una droga e no, non riesco a smettere quando voglio.




Tutta la prima metà della tappa mi ha portata a percorrere una strada secondaria, alternativa alla M5, lungo il lago Ilmenskoye e l’omonimo parco naturale, costellato di laghetti e lagoni e coperto di un tappeto dolcissimo di bosco giovane, verde fresco smeraldo e muschio, rugiada e foglioline. 







Ho anche incontrato, nascosti tra rami e tronchi, alcuni paesini seminascosti, quasi mimetizzati, o mangiati, nella vegetazione; Chebarkul ne è un esempio. Pensate che questo è il supermercato.




Poi sono passata accanto ad un’immensa area blindata, ad uso militare, con filo spinato e casermoni, soldatini in mimetica a fumare a bordo strada e simboli di pace e fratellanza tra i popoli. Direi a naso che sono una divisione di carristi.



Mano a mano gli ultimi rilievi hanno ceduto il passo alle colline basse e poi sono tornata in una pianura soltanto lievemente ondulata, tutta a campi coltivati e pratoni, in un mosaico verde e giallo di colza frammentato tra i tronchi candidi delle betulle, vetrata di una cattedrale senza porte né muri. Non è mancato, per tutti il tragitto, un odore pungente di letame, che fa felice la terra, internazionale e tipico di ogni paesaggio di campagna che si rispetti. Come si suol dire, la merda non ha nazionalità e questo un po’ ci consola.





In breve sono stata catapultata dalla strada di nuovo sulla M5, che, per i restanti 50km, è stata bella, larga, poco trafficata. Una vera e propria autostrada con corsia per volpi a pedali belle fresche e spinte da un venticello amico.




La Siberia meridionale, d’estate, ha proprio un aspetto mite e bonario, che mai farebbe immaginare quelle tombe di neve che si estendono per spazi infiniti e bianchi e gelidi come il nulla eterno, come i confini iperborei al bordo dell’inesistenza.
Invece qui ci sono fiori e arbusti e tanta vita che sboccia e mette gemme e radici.





Pedala pedala sono arrivata finalmente alla meta, Chelyabinsk. Ad accogliermi il cartello con lo stemma della città, un cammello.



Non è mica un caso. Questa era una delle soste per i mercanti che viaggiavano sulla celeberrima via della seta; qui passavano cinesi, europei, slavi, indiani e nomadi dagli occhi bistrati, tutti carichi di merci, spezie e tessuti, gioielli e denaro; passavano tra voci diverse e accenti stranieri, andavano con i carri e con i cavalli, con i muli, con i servi e soprattutto con i cammelli, bestia da soma per eccellenza. Ecco da dove viene il simbolo di Chelyabinsk. Siamo sulla via della seta. Siamo sulla strada giusta.



Benchè questo fosse uno snodo commerciale di primaria importanza fin dal Medioevo, anche per la sua vicinanza al fiume Miass (sì, si chiama come la città in cui mi sono fermata ieri), la città vera e propria è stata fondata sono nel 1736 dal colonnello Tevkelev per proteggere le rotte mercantili dagli attacchi dei briganti baschiri, etnia che popolava questa zona già da secoli.


il kilometro zero, il cuore della città





Durante la rivolta di Pugachev la fortezza di Chelyabinsk fu attaccata, posta sotto assedio e addirittura conquistata dai ribelli baschiri per alcuni mesi, nel 1775. Come al solito anche qui la rivolta fu presto sedata nel sangue e tutto tornò come prima. La città, forte delle sue ingiustizie, crebbe sull’oro dei mercanti e sulle schiene piegate dei servi e divenne città nel 1787.














Per un secolo Chelyabinsk restò una prosperosa città di provincia, ma alla fine dell’Ottocento fu collegata a Mosca, a Ekaterineburg, alla Russia europea e alla Siberia grazie alla ferrovia. Qui, allora, lo zar dispose che venissero deportati contadini per coltivare la terra. Per 15 anni passò da questo luogo il 10% dell’intera popolazione russa (15 milioni di persone); alcuni andavano oltre, più a est, altri si fermavano. La città crebbe vertiginosamente. Inoltre fu qui creato una sorta di “duty free”, una zona franca, per il commercio di grano e the e il transito di queste merci da est a ovest. Nacquero numerose fabbriche di lavorazione e imballaggio di questi beni, mercati e aziende legate al commercio. Per la rapida crescita, l’aumento di popolazione tra Otto e Novecento e per la fisionomia di città industriale, venne chiamata la Chicago oltre Urali, pensate un po’.
Negli anni ’30, con i piani quinquennali, si investì qui nell’industria e furono costruiti interi microcosmi di fabbriche enorme, metallurgiche, di produzione di trattori e macchinari. Per di più, nel ’41, Stalin decise di trasferire qui, dove le infrastrutture già c’erano, numerose industrie che si trovavano sul fronte, quando l’Europa vomitava ad oriente fiumane di nazifascisti; nuove fabbriche, nuove braccia arrivarono in città. La produzione si specializzò in carri armati, soprattutto i famosi T-34, di cui vennero costruiti 18.000 esemplari e 48.500 motori, Katyushe e proiettili di ogni tipo (17 milioni di pezzi). Chelyabinsk assunse il nome, nei media, di Tankograd.









il poderoso monumento al carrista






L’industrializzazione continuò indefessa e si andò avanti a produrre e produrre, almeno fino al 1957, quando ci fu quello che è considerato il più grave incidente nucleare della storia, il disastro di Majak; per anni questa zona è stata considerata la più inquinata del globo per la presenza di scorie radioattive ovunque, nella terra, nell’aria e nell’acqua. Tuttora sono adottate misure di sicurezza e la gente è sottoposta a visite mediche ogni due anni, perché chi c’era quando si è verificato l’incidente è stato esposto a una quantità di radiazioni pari a chi si è beccato in testa l’atomica ad Hiroshima e Nagasaki. Aborti, malformazioni e malattie non si contano nemmeno. Fino al ’92 tutto il rajon è stato chiuso e nessuno che non fosse residente poteva entrare qui Veh. Chissà che cosa c’era nell’insalata che ho mangiato stasera… Adesso sarò fosforescente e visibile al buio?

Un’ultima cosa interessante va detta della città, che oggi conta più di un milione di abitanti ed è sede di scuole, università, teatri, musei, stadi e attività commerciali di ogni genere; nel 2013 si è schiantato qui un meteorite che ha causato danni a ospedali, scuole e case e ha provocato oltre un milione di feriti… Non colpiti dai frammenti di roccia, ma dagli oltre 200.000 metri quadri di vetri di finestre esplosi per l’onda d’urto dello schianto.
Questo è un link a un video di youtube che raccoglie alcuni filmati dell’evento. Pare un film di fantascienza, di quelli catastrofici.

https://www.youtube.com/watch?v=dpmXyJrs7iU

Disastri a parte, si tratta di una bella città, tranquilla e piacevolissima da passeggiare. Ottimo anche il kvass!
C'è una bellezza discreta, silenziosa, misurata e piena di umanità che viene da lontano; la si respira per le strade e nel vento, che ora soffia verso nord e porta l'eco della luce enorme e arida delle steppe. Là sto andando, verso il Kazakistan, prima di rientrare in Russia per la seconda metà di questa lunga pedalata.
Siamo in Asia, ci sono turbanti sul capo delle statue e strani cappelli di perline calcati su occhi a mezzaluna e barbe finissime. Siamo in Asia e sembra di essere in Europa, con i campi da basket, i musei, i giochi e la statua di Prokofiev. Siamo sul limine e tutto si mescola e vive nella differenza che però, guardandosi in occhi diversi, sa riconoscersi come umana, semplicemente umana (troppo umana?).






































1 commento:

  1. Incredibile la varietà e la quantità delle sculture! Sembrano viventi, ricche di riferimenti ad una "umanità che viene da lontano". Il colore degli edifici nelle sfumature del giallo dà un tocco di luce particolare, piacevole per gli occhi e per il cuore. Sila

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