domenica 23 luglio 2017

Ventiquattresima tappa. Kazakistan, la terra degli erranti. E il lama della coscienza


Ragazzi, non ci si crede: sono veramente in Kazakistan.
La più grande nazione al mondo senza sbocchi al mare, l'ultima delle repubbliche a sganciarsi dall'Urss, nel 1991, la più falsa delle democrazie (il presidenteNabarzayev, che detiene praticamente tutti i poteri e ne abusa ampiamente, è in carica proprio dal '91... Solo 26 anni!).

Sapete da dove trae origine il nome di questo stato? Dalla parola turcica "qaz", che significa vagare ("to wander"), in riferimento alla natura nomade dei popoli che hanno vissuto qui per millenni; dalla stessa parola deriva anche "cosacco", aggettivo che indica proprio gli abitanti di questa terra. -stan è il solito suffisso persiano che vuol dire "terra di". Quindi il Kazakistan è la terra dei nomadi, dei vagabondi, dei viaggiatori, degli erranti. Mi sento a casa.

Passare la frontiera è stato piuttosto agevole, ma andiamo con ordine.
Avete presente tutte quelle belle cose dette ieri in merito al sole, al clima più arido, alle steppe? Ecco, fate come se non avessi proferito verbo. Stamattina mi sono svegliata alle 7 per i tuoni assordanti e il rumore della pioggia tesa, violenta, cattivissima, che aveva già trasformato l'intera periferia di Petuchovo in una fangaia atroce. Pensate alle paludi della tristezza in cui Atreiu perde il suo cavallo, Artax? Ecco, così immaginavo già me e la Signora.
Non si vedevano nuvole e qui e sereno là, all'orizzonte. Era tutta una coltre uniforme di grigio cupo.
Siccome ormai sono pienamente nello spirito del viaggio, e ho superato le ansie per gli orari, i tempi e le forche caudine delle lancette, ho deciso di tornare a dormire e riprovare più tardi. Saggia idea. Alle 8 ho riaperto gli occhi e stava spiovendo. Il tempo di preparare il caffè e un timido sole già faceva capolino.


Certo, il cielo era ancora tormentato di nuvoloni per ogni dove, e le previsioni davano temporali ad ogni ora del giorno, ma almeno non sarei partita con la pioggia. In merito, in effetti, mi è andata bene. A parte qualche rovescio di pioggia fine, escluse pisciatine di nuvole ben più minacciose, mi sono infadiciata più per le pozzanghere che altro.
I 25km che separano Petuchovo dal confine sono già considerati terra di nessuno, ci sono cartelli che invitano a tornare indietro se non si hanno i documenti in regola e non ci sono nè paesi nè benzinai o altre attività. Il paesaggio risulta piuttosto uniforme e cupo, chiuso in una caparbia assenza di colori.




Ero inquieta. Non amo le frontiere, la burocrazia e le facce compunte di chi crede in essa come in una divinità giusta e cieca. Non amo i bordi, le linee che dividono, non amo i cappelli grandi sotto cui si nascondono gli sguardi dei cani da guardia del perimetro del giardino mio, tuo e degli altri. Non amo le divise, non amo le code, i documenti e i timbri. E sempre temo che un cappello e due mostrine mi impediscano il passaggio, senza nemmeno sapermi dire perchè.
Ero inquieta.
Il cielo non prometteva nulla di buono, il vento si era alzato con rabbia e mi sputava addosso tutta la sia stizza, tanto da dover metter il cambietto come in salita.
Per di più, a duecento metri dalla partenza, per motivi ancora ignoti, la ruota posteriore è uscita dalla sua sede, sputtanando non solo l'assetto del cambio ma anche del portapacchi, che è un Tubus di quelli che si appoggiano allo sgancio rapido. Ho rimesso tutto a posto in dieci minuti, ma ciò mi ha costretta a imbrattarmi da capo a piedi di fango (ero nelle Paludi della tristezza, come dicevo) e a partire con l'ansia di possibili problemi tecnici.
Ero inquieta, insomma.
Sono arrivata alla frontiera di uscita dalla Russia e lì sono iniziate le danze.
Una donna in divisa mi ha aperto la prima sbarra, dopo aver chiesto chi fossi, da dove venissi, dove andassi (un fiorino!). Qualche metro più avanti un soldatino in mimetica mi ha preso la bici in custodia e mi ha detto di entrare nell'ufficio per il controllo passaporti. Dentro c'era un delirio di gente di ogni forma e colore, turchi, cinesi, russi, un mosaico di mondo senza senso, ammassato in un prefabbricato sull'orlo di un nulla qualsiasi.
Aspetta e aspetta, aspetta dell'altro e stai ancora in coda, è giunto il mio turno, dopo che un uomo enorme identico a nonno Kuzja di Educazione Siberiana (ma vi giuro, uguale preciso) mi ha fatta passare davanti a lui strizzandomi l'azzurrissimo occhio.
L'ufficiale di frontiera ha sfgliato con dovizia ogni singola pagina del passaporto, leggendo quelle in bianco con la stessa attenzione e intelligenza con cui ha letto quelle scritte. Chi sei, cosa fai, da dove vieni, dove vai (un fiorino!). Bam, timbro e via andare.
Sono tornata fuori a recuperare la bici  ed ero già pronta alla perquisa, perchè le auto vengono letteralmente smontate (per pezzi di motore) e i pullman sventrati. Mentre attendevo al freddo (fa sempre freddo alle frontiere) il mio turno, nonno Kuzja mi ha raggiunta in macchina, poi è sceso e, in russglish, mi ha chiesto chi fossi, da dove venissi, dove andassi (un fiorino!). Era tutto preso bene, mi ha detto che lui aveva la casa in Kazakistan e mi poteva dare un passaggio perchè l'auto era grande (in effetti era più un furgone) e vuota e lui viaggiava solo. Era proprio preso benissimo, mi ha pure invitata a casa, ma con gentilezza, bonariamente, forse davvero senza secondi fini. Al mio declinare l'offerta, infatti, mi ha proposto di darmi uno strappo slo fino a Petropavl, la mia meta di oggi. Diavolo tentatore occhiazzurri tatuaggi da carcere sorriso da buono, quasi quasi... No, via, è il mio viaggio a pedali. E ho rifiutato. Se ne è andato strombazzando e agitando la manona fuori dal finestrino. Ciao nonno Kuzja.
Intato la guardia russa ha deciso che non aveva voglia di perquisirmi le borse e mi ha fatta passare così, liscissima. Ultimo soldatino russo, che avrà avuto sedici anni, e ultima sbarra alzata dopo il consueto chi sei, da dove vieni, dove vai (un fiorino!), sei matta.
Primo sospiro di sollievo.
Qualche decina di metri e ho trovato il cartello di ingresso in Kazakistan, quello della foto in apertura. Scatto al volo (che sarebbe vietato, in teoria) e via per la seconda  tranche di controlli.
Due uomini pelosissimi a bordo di una Lada presovietica mi han fatto segno di passar davanti a tutti quelli che, in auto e sui camion, aspettavano in fila a motore spento. In effetti a piedi si poteva passare da un ingresso laterale. Militari kazaki. Viso che, fuori contesto, avrei sicuramente preso per cinese. Pance da poliziotto mangiaciambelle, cappello enorme. Chi sei, da dove vieni, dove vai (un fiorino!). Ma sei matta. E via con un primo fogliettino infilato nel passaporto. Secondo step: lascio la bici fuori da un edificio in mattoni lego e sputo ed entro per il controllo documenti. Do il passaporto alla guardia. Chi sei, da dove vieni, dove vai (un fiorino!), non guardare me guarda la telecamera. Eh sì perchè qui ti scannerizzano il cragno o sa dio che altro, si viene filamti e fotografati. Hai la migration card? E sticazzi no, me la devi fare tu, soldatino. Ah già. e via con un secondo foglietto nel passaporto.
Fuori mi tocca, stavolta sì, la perquisa. Ogni agente ha un cane (pastore tedesco), fa tirar fuori tutto e fa annusare. Non è un caso. Questa è una delle frontiere più battutte per il traffico di droga da paesi come l'Afghanistan verso Russia ed Europa. Invero, arrivato a metà del sacchettame puzzolente che ho nelle borse, il militare si è convinto che fossi a posto e ha tagliato corto con un: "Hai armi? Hai droga, doping?". No, no, no. Ma chi sei, da dove vieni, dove vai (un fiorino!), sei matta.
Mentre richiudevo le borse ho avuto la cattiva idea di fare le coccole ad uno dei cani legati alla catena. Questo, poco avvezzo, evidentemente, è impazzito e continuava a leccarmi e a darmi la zampa e a piangere. Inutile dire che la cosa ha destato qualche sospetti negli agenti, ma poi han capito e, dopo un'ultima, estenuante, sbarra alzata, sono riuscita a tornar libera sulla strada.
Mentre dalla Russia al Kazakistan non c'erano molti mezzi in fila, dalla parte opposta ho trovato una coda lunga almeno tre kilometri. Il che mi preoccupa un po' per dopodomani, quando dovrò rientrare in Russia.
Dopo aver cambiato un po' di rubli in Kazzetti sono ripartita sotto una pioggina fina fina. La strada che porta al confine, esclusi i mezzi fermi sulla corsia opposta, era deserta. Che godimento.
Il paesaggio era identico a quello lasciato alle spalle, di là dal filo spinato. Il vento ugualmente contrario, il cielo in tumulto allo stesso modo. Che belle pretese hanno gli uomini, che idea scema quella di tagliare la terra a fette e spartirsela come bambini prepotenti. Quanto ridicoli e piccoli siamo tutti, chiusi in perimetri immaginari che nella realtà non esistono, eppure ci fermano, ci impediscono di essere liberi davvero.
Ho percorso qualche centinaio di metri accompagnata da un'aquila in volo proprio davanti a me, che strideva nella sua lingua; ovviamente ho risposto a ogni richiamo. E così eccomi in Kazakistan.





Certo, me lo immaginavo più arido e magari più soleggiato, ma va bene anche così.
L'urgenza di una sosta pipì mi ha poi fatto capire che certe idee è meglio non farsele venire. Tutto il bordo strada, che pare prato, bosco o radura, è invece un immenso, marcio acquitrino in cui si affonda ben oltre la caviglia. Inutile dire che, tra erbe urticanti, rovi, insettazzi da portaerei e zanzare, una semplice pipì diventa peggio dello sbarco in Normandia.
Pedala pedala sono arrivata alla strada principale, che seguirò nei prossimi giorni. Va' che bella fangazza!



Nel frattempo ha pure iniziato a piovere; mi sono rifugiata in questo locale chic e, nel tempo di un soviet-gelato, ha smesso.


In questa repubblica è tutto più naive che in Russia. La condizione delle strade, i mezzi, la guida, le buche talmente grandi che per uscirne bisogna mettere il cambio rampeghino. Essendo appena passato il temporale, tutta la strada era un'immenso susseguirsi di piscine più o meno grandi, dalla vasca olimpionica al bidet con acqua sporca. Del fango con cui ho stuccato me stessa e la Signora nemmeno vi dico.








Ora qui vi sottopongo il cruccio che tuttora mi divora. Stavo pedalando tra una palude e l'altra quando alzo lo sguardo e vedo questo


Sulle prime ho pensato fosse la statua di un cammello o una pietra zoomorfa.
Poi, però, ha girato la testolina verso di me, quindi no, non è una statua e nemmeno un sasso.


Ma quindi, che è? Perchè mi guarda così male? Questo aggeggio peloso ormai popola i miei incubi.
Forse è la mia coscienza. Ho sempre sospettato avesse più la forma di un lama grasso che di un grillo parlante.


Sentendomi i suoi occhi giudicanti addosso, ho percorso l'ultimo tratto di strada, tra cavallini liberi fuori dalle cascine e molti, moltissimi laghetti.







Ancora qualche colpo di pedale (ero molto stanca, ormai) e ho finalmente incrociato il grandissimo monumento d'ingresso alla città, Petropavl in kazako e Petropavlosk in russo (che cambia assai, eh).


Per raggiungere il centro si deve passare il ponte sull'Ishim, sulle sponde del quale si apre poi la grande pianura del nord del Kazakistan.


Poi, a dio piacendo, sono arrivata all'hotel di oggi, il prestigioso (ma stavolta davvero) Complex Skif.
Sì, lo so, il nome non fa ben sperare.
Ma Skif sta per Sciti, gli antichi abitanti di queste terre.
Erano una popolazione nomade di radice iranica, nata, secondo il mito, dall'unione tra Eracle ed Echidna, la vipera, con la quale era stato costretto ad andare per riavere indietro i suoi cavalli. Degli Sciti parla Erodoto, dei loro cavalli e degli archi, delle coppe cesellate in elettro e del loro disinteresse fiero e ferino a qualunque forma organizzata e razionale di gestione del potere. Non riuscirono i Persiano di Dario nè i Greci nè Mitridate re del Ponto e nemmeno i romani a sottometterli una volta e per tutte. Furono i Sarmati e Goti, nel II secolo d.C. a spazzare via questo popolo feroce, ormai sfaldatosi al suo interno e tecnologicamente arretrato.
Guardate che bello l'hotel Skif, con le decorazioni scizie posticce.












 In realtà è un albergo di gran lusso, con tanto di portieri in marsina e security, ristorante stellato e, cosa molto apprezzata, spa, sauna seria, piscine e palestre (sì, al plurale).
Immaginatevi la scena. Arrivo io, coperta di fango, con la Signora che stride e si lamenta. Sgnik, sgnik, sgnik. Entro nella hall tirata a lucido lasciando una scia di melma tipo lumaca con la diarrea.
Ho prenotato su Booking, Sossi (come mi chiamano già dalla Russia).
Mi fanno pagare subito e, cavato lo scontrino, iniziano i sorrisi e le parole più distese. Ovviamente sto all'ultimo piano senza ascensore (qui manca pure nei posti da signori). In due giri porto su tutto l'ambaradan. Torno alla reception per farmi dare informazioni sulla colazione inclusa nei miei ricchi 20 euro spesi e la tipa, con grande animo, inizia a parlarmi della piscina e della palestra, dei corsi di aquagym, dei macchinari per sollevamento pesi, del percorso fitness.
Ciccia, stellina, bambina cara.
Ma sei seria?
Le mie due più grandi aspirazioni sono: lavarmi, stravaccarmi sul letto e scofanarmi tutte le schifezze che ci sono nel minibar in camera. Chè già sto facendo un "percorso fitness" di 6000km su una bici che pesa come un morto grasso, su strade impestate e sotto cieli ingrati. Mangio come un assassino e tendo comunque all'inesistenza. Manca solo che io, ora, qui, adesso, vada in palestra!
Chiarita la questione ho soddisfatto i desideri di cui sopra e sono uscita a fare un giro per la bella Pteropavl.
E' il capoluogo del Kazakistan settentrionale e, ad oggi, conta più di 200.000 abitanti (anche se ad attraversa sembra piccola piccola), è collagata via treno a Mosca e Astana e ha un aeroporto.
E' stata fondata dai russi nel 1752 come città fortificata proprio nel periodo in cui gli zar allungavano le mani adunche anche su queste regioni, all'epoca abitate da popoli nomadi, i kazaki appunto.
A ribadire l'origine russa sta proprio il nome della città, Petropavl, che si rifà ai due santi cristiani. Diventa città vera e propria nel 1807 e, fino alla rivoluzione d'ottobre, si arrichisce come centro dei commerci della seta e dei tappeti. Ora ci sono industrie a manetta, raffinerie, macchine industriali e via dicendo.
Come in tutto il Kazakistan, anche qui vivono principalmente kazaki ma pure molti russi; la religione più diffusa (70%) è quella musulmana, seguita dal cristianesimo ortodosso. C'è pure la più antica chiesa cattolica (polacca) del paese. Ora che lo sappiamo, siamo tutti più sereni.





Arrivando mi sono imbattuta nella statua di Ablai Khan, signore di una delle tre divisioni antiche del Kazakistan, la juz centrale, e relativa "orda", visuto in pieno Settecento e considerato eroe (batyr) nazionale. E perchè? Perchè si impegnò vittoriasamente in numerose guerre contro i temibili Zungari, pastori nomadi della Mongolia che seminavano il panico e creavano regni di vento tra Cina e Russia.
Oltre a ciò, il nostro Ablai Khan (il cui nome completo è più lungo di quello di Picasso) tentò di accentrare le forze kazake e di costituire un unico regno, tanto che fu eletto khan di tutte e tre le juz. Era supportato dalla dinastia del celeste impero e dovette fronteggiare le mire espansionistiche di Caterina II; la vecchiaccia inviò proprio a Petropavl una lettera, indirizzata al khan, che doveva ricevere qui il suo titolo di signore, in cui sosteneva che, perchè tale titolo fosse valido, doveva esser riconosciuto e approvato dallo zar. Ablai se ne uscì con una sonora pernacchia. Intanto altri signori, kazaki e persiani, che miravano al potere, leccavano le polverose terga di Caterina. Ma Ablai seppe dimostrarsi un abilissimo signore e comandante, sconfisse tutti i nomadi dagli occhi di mezzaluna, sbaragliò le forze dei khanati rivali, entrò in Kyrgizistan e prese Tashkent. La sua autorità divenne tale da dover essere ufficialmente riconosciuta sia dalla Cina sia dalla Russia: Ablai Khan del Kazakistan.
Questa è la sua statua equestre, mentre dietro c'è il suo palazzo, quello da cui spernacchiò Caterina la grande.
Davanti, simboli da nulla dell'orgoglio locale: le gher, l'aquila, i cavalli.




Tra un palazzone e una izba in legno




Sono arrivata al principale parco cittadino, che è pure l'area verde attrezzata più grande della regione settentrionale del paese. E' stata una piacevolissima sorpresa. Caffè, bar, musica dal vivo (identica a quella turca), giostre, giochi, tantissima gente sulle panchine e a passeggio. Davvero tutto bellissimo e super rilassante. Chi lo avrebbe mai detto? In questo andirivieni di volti, ora biondissimi e slavi, ora con gli occhi a mandorla, ora con tratti indiani e mediorentali, in questa nazione che dei diritti umani si pulisce il culo e taglia la lingua alle opposizioni, in questo crocevia degli oppiacei, tra una zolla di fango e una palude, si sta bene. Ci sono lembi di grazia e di pace.















Poi, a cercar bene, pure qui saltano fuori cicatrici più o meno recenti e l'eco muta dei morti, sacrificati nemmeno per la propria terra ma per il potere di altri.
Il Kazakistan, in quanto repubblica socialista sovietica, ha pagato con il sangue dei suoi figli la guerra patriottica... E tutto il resto.





Poi, per fortuna, le ferite si rimarginano. Certo, è davvero meglio oggi? In fondo il paese vive ancora sotto un regime che, di fatto, è tutto men che democratico.
Però i parchi son curati e la gente dirà che i treni arrivano in orario (anche se non è vero).















(Abai, poeta kazako, insieme a Pushkin)


(immaginatevi sulla panchina. Profumo di carne alla griglia e musica turca)





Altro lembo di meraviglia in questa città semisconosciuta è la via pedonale che si chiama letteralemente, "Via della costituzione kazaka" (eh, la classica excusatio non petita). Ci sono il museo di storia nazionale, le fontane, le macchinine Peg-Perego che avrei sempre voluto e adesso mi vien voglia di appagare il desiderio mai soddisfatto di guidarne una, le statue con i graffiti sciti.















Queste ultime due sculture rappresentano la dombra, strumento simbolo del Kazakistan. E' simile a un liuto, ha due corde e porbabilmente è arrivato qui dalla mongolia. Sta pure su alcune banconote. Domani, quando parleremo più diffusamente di questa nazione, in generale, vi farò vedere.

Dopo la solita cena sontuosa con tanto di gourmet dalla gastronomia del supermercato qui accanto, dove tutto costa pazzescamente poco (ancor meno che in Russia) e una lettura rilassante del quotidiano locale,




è ora di riposare.Qui sono quasi le 2 di notte. Domani mi attende una tappa interamente cosacca. La destinazione dovrebbe essere Bulaevo. Dico "dovrebbe" perchè, per quanto si possa vedere da internet, non ci sono strutture per dormire da qui fino alla prima città russa, Isilkul', dove però vorrei fermarmi dopodomani (altrimenti mi tocca fare 160km).
Si vedrà, confido nella strada del paese degli erranti.

"All that is gold does not glitter,
Not all those who wander are lost;
The old that is strong does not wither,
Deep roots are not reached by the frost.
From the ashes a fire shall be woken,
A light from the shadows shall spring;
Renewed shall be blade that was broken,
The crownless again shall be king."

"Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,
Le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona".

E uno legge Tolkien, vede la parola "lama" e subito...


ZAN ZAN ZAN! Il lama della coscienza. Nessuno dormirà sonni tranquilli.





2 commenti:

  1. buona pedalata per domani


    ..... io però avrei mangiato la carne alla griglia

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  2. Eh sì, leggendo la poesia, alla parola "lama" il pensiero è andato subito a quello della foto! "Il lama della coscienza"... Ciao. Sila

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