martedì 25 luglio 2017

Ventiseiesima tappa. Di nuovo in Russia! Isilkul, lago incantato, e la Siberia di periferia





Ebbene sì, sono di nuovo in Russia. Precisamente ad Isilkul’, capoluogo dell’omonimo rajon, nell’oblast di Omsk, Siberia sudoccidentale.
Non senza un po’ di rammarico e precoce nostalgiaho lasciato stamattina il Kazakistan per tornare nella Federazioni; ho così usato il mio secondo ingresso pre-visto dal visto. Ora non uscirò più dalla terra dei figli di Putin se non per lasciarmela alle spalle definitivamente. Sarà il 30 agosto e avrò davanti a me la Mongolia.

Questa mattina mi sarei volentieri alzata “tarda e lenta” poiché la tappa prevedeva solo 63km; certo con la frontiera in mezzo… Ma poco da pedalare comunque.
Mi sarei mossa con calma intorno alle 10, non fosse che alle 8 precise il padrone di casa ha deciso fosse ora di alzarmi; è entrato proprio in camera, bussando solo dopo aver fatto irruzione con la grazia di un facocero in preda al panico. Fortunatamente ero già mezza sveglia e sono balzata in piedi sull’attenti, fingendo di esserlo già da gran tempo. Buongiorno! Buongiorno un cazzo, ma che sono queste maniere da ungulato? Vieni che facciamo il tè e il caffè. Ah, a che ora vai via?
Questa domanda me l’ha ripetuta, credo, una trentina di volte nella seguente mezzora. Che ansia. Ma che fretta aveva? Come se ci fossero state le orde mongole a bussare alla porta della sua gostinitsa.
Però il brav’uomo si è fatto perdonare sedendosi al tavolo della sua trattoria a far colazione con me. Questo è il locale,



mentre quel cantuccio a sinistra è il “supermercato”.



Finalmente è arrivato il caffè con panone (che la ragazza al banco, figlia del paron, voleva farcirmi… Indovinate con cosa? Pescetti. Già), lui tè e curiosità. 




Che lavoro fai? Hai figli? Sei sposata? Quanti anni hai?
Il terzo grado alle 8 del mattino, in russzako, è qualcosa di psicologicamente difficile da sostenere. Poi mi ha detto di avvisarlo quando fossi stata pronta, che mi avrebbe aiutata a portar giù dalle scale assassine la bici. Ovviamente quando è stato il momento, il brav’uomo era bell’e sparito; è tornato proprio mentre salivo in sella.
Un po’ di tempo, comunque, me lo son preso, dopo colazione, saccheggiando le zollette di zucchero russo che ho trovato nella dispensa. 



Questo il panorama dalla camera, con cavalli e puledrini che andavano e venivano liberamente, per conto proprio, come una banda di amici in gita.





Questa accanto, invece, è una scuola me ne sono accorta solo stamattina. 



C’è anche il cartello: formano cuochi, sarti, parrucchieri, giardinieri. Mi piace l’arnese che sta all’ingresso. 



Queste credo siano due proffe.



Fattasi una certa, ho chiuso baracca e burattini e portato giù tutto, Signora compresa, sentendo la lama del tristo mietitore ad ogni passo (non ho sceso, dandoti il braccio, il famoso milione di scale, ma sì, era ugualmente il vuoto ad ogni gradino). Poi ho oliato la catena e questo ha, senza motivo, attirato l’attenzione di uno, poi due, tre, cinque, una decina di contadini e meccanici che ronzavano lì intorno all’officina. Si è creato un vero e proprio capannello di uomini un po’ onti e sudici fin dall’alba ma bonariamente interessati. A quel punto è tornato il paron, che, prima di augurarmi buon viaggio, ha sputato il rospo, osando, con il sostegno di sguardi silenziosi di tutti gli astanti, fare LA domanda. Ma quelle cicatrici sulle braccia come te le sei fatte? Cadendo dalla bici naturalmente! E tutti hanno fatto cenni di maschia e virile comprensione.
Bon, saluti, baci no grazie e via nel vento.



Mi aspettavano circa 40km ancora in Kazakistan e poi gli ultimi 20 in Russia; la terra degli erranti non si è affatto smentita nella sua bellezza grandiosa e pacifica, nel suo assoluto presente di istanti eterni, vecchi come la roccia e rinnovati continuamente ad ogni nuova gemma, ad ogni nuovo sole.





Quanta meraviglia in questa striscia di mondo che ho attraversato da parte a parte, ricucendone due lembi come una passata d’ago. Il mio andare è un filo rosso sottilissimo ma che non si può spezzare e tiene insieme tutto, è il gomitolo steso da Arianna per sfuggire al labirinto delle strade, che districa viaggiando, e ai minotauri delle ansie e delle paure, del timore dell’altro, dell’horror vacui.







Ed eccomi alla frontiera.
Da questa parte, a uscire dal Kazakistan, è, contrariamente alle aspettative, tutto molto più easy, tranquillo e anche un po’ arraffazzonato. Avrei detto l’opposto.
Prima sbarra, con fila di chiodi di 10cm a terra. L’ufficiale che pare cinese tanto ha l’aspetto orientale mi controlla il passaporto e mi caccia in mano un foglietto. Su la sbarra, giù i chiodi e si va al secondo check. Vengo spedita in un baracchino fatiscente dove un altro cinesiforme in divisa mi ricontrolla il passaporto, tira via il foglietto e ne caccia dentro altri due. Chissà se funziona come la collezione delle figurine Panini (non il grammatico indiano). Nel frattempo entrano tre gruppi chiassosi, uno di russi, uno di kazaki e uno di gente che potrebbe venir dalla Mongolia ma chi sa, qui è tutto un crogiolo di volti. Tutti mi fanno domande, ma sei un maschio? No, e viaggi sola? Da dove, per dove? E via dicendo. Io fatico a rispondere perché sono tesa: l’agente non ha ancora timbrato il passaporto. Che qualcosa manchi? Invece stava solo ascoltando anche lui domande e risposte. Bim sull’inchiostro, bam sul passaporto e sono idonea a uscire dal Kazakistan. Fuori dal bugigattolo mi attende un altro poliziotto. E’ anziano, scavato in volto, ha l’espressione impenetrabile. Sembra fatto di terracotta. Non è che è una delle statue del famoso e misterioso esrcito tornata in vita? Mi perquisisce le borse in maniera del tutto sommaria e superficiale, proprio per finta. Una borsa non me la fa nemmeno aprire. Hai armi? No! Mi ritira un foglietto e proseguo all’ultima sbarra. Lì resto in coda per un bel po’, visto che l’unico agente addetto è impegnato a perquisire un pullman in ingresso. La gente si infastidisce, suonano il clacson. Se lo fai a certe frontiere ti fan passare la voglia di aver fretta. Qui no. E’ tutto un po’ a buffo, alla volemose bene ma fatece passa’. Torna l’agente, mi controlla il passaporto, ritira l’ultimo foglietto e mi fa passare (solo me. Chissà quanti accidenti mi han tirato quelli in coda). Il sollievo di aver concluso il primo dei due passaggi viene sigillato dal cartello che indica che sono di nuovo in territorio russo.
Presto la gioia si trasforma in nuova ansia: non vedo davanti a me alcun posto di blocco e controllo russo. Solo strada aperta, alberi, campi. La Siberia in tutta la sua estensione. Nessuna sbarra. Nessun check point. Direte voi: meglio, no?
Eh no, meglio una cippa. Già fatta la cavolata l’anno scorso, ora ho imparato. In breve: quando si entra in Russia, se tutti i documenti (il visto, il passaporto, la polizza assicurativa ecc) sono in ordine, vi viene data la cosiddetta migration card o carta d’immigrazione. E’ un pezzettino sottilissimo di carta da culo con riportati i dati del passaporto e del visto; non contiente informazioni aggiuntive rispetto a quelle che già si hanno; però serve a dimostrare che siete entrati in una dogana ufficiale, avete passato i controlli e non avete sgamato, non avete scavalcato il filo spinato di notte e non siete passati in terra di nessuno attraverso i bricchi per non essere visti. Il problema, infatti, si pone non tanto entrando, ma uscendo dalla Russia. La migration card vi viene controllata e ritirata. Ora, come faccio io a sapere tutto ciò? Perché l’anno scorso ho rischiato una multa invereconda e pure la detenzione. Non avevo la maledetta cartina da culo. Non mi è stata data e non sapevo di doverla espressamente richiedere; lo scorso viaggio, infatti, sono entrata nella Federazione dalla Bielorussia, che è un paese alleato, amico, fratello e compagno di merende della Russia; alla frontiera non fanno veri e propri controlli, non guardano né il visto né il passaporto. Nel caso mio l’interazione con gli agenti si era limitata ai commenti un po’ unti di un poliziotto anziano, grasso e alticcio che mi aveva toccato le gambe dicendo che ero molto forte. Poi, però, in aeroporto, ho vissuto un quarto d’ora di terrore assoluto perché, dopo il controllo documenti, c’è uno step di restituzione migration card. Senza non si passa. Me l’ero cavata con molto sudore e grandi sorrisi disperati e mi è andata bene perché ho trovato una signora molto molto buona che finirò mai di ringraziare.
Ergo.
Oggi quando ho visto che non c’erano controlli russi mi è salita l’ansia. E mo dove la recupero la migration card? Devo andare al commissariato di Isilkul, prima città che si incontra? E se poi mi fanno rogne? Che palle la burocrazia!
Intanto pedalavo piano, pensando tra me e me a come far fronte al problema.
Con estremo sollievo, dopo circa due kilometri, ho scorto dei baracchini e delle sbarre. Ah, allora era uno scherzo! Allora li fate i controlli, allora mo lo sganciate il pezzo di carta da culo!
Primo blocco, mi metto in coda ma vedo che la gente passa facendosi alzare la sbarra con un cenno della mano. Uno dei tizi che mi avevano fatto domande prima mi chiama “Italianski! Italianski! Migration card!” e indica un microscopico casotto in legno in cui si intravede il riflesso di un paio di occhiali da vista, unico segno di presenza umana. Spasiba uomo molesto dalle troppe domande, questa sì che è una dritta utile.
Mi avvicino chiedo la carta e finalmente me la vedo allungare. Devo compilarla io perché gli occhiali lì dentro non hanno voglia. Dopo gran frugare nelle mie borse e borselli recupero una biro e, lentissimamente per non sbagliare (è tutto in russo), compilo entrambe le metà. Una resterà a me, una a loro.
Ma che bene! Adesso possono anche perquisirmi il buco del culo. Il visto è a posto, il passaporto pure, la polizza anche, mo che sono fieramente in possesso della migration card sono antiproiettile, antisismica e pirofila. Tie’.
Un controllo, due controlli, una perquisa sempre fintissima, qualche domanda e, nel giro di mezzora, sono fuori. Libera e bella e con i documenti così in ordine da non sembrare miei, pettinatissimi e perfetti. Non possono fermarmi in alcun modo per questioni burocratiche, e questo mi rassicura tanto (perché è un mio tallone d’Achille).
Riparto leggera nel sole, con la meta ormai vicina, e la Siberia mi riaccoglie così, con tutta questa meraviglia “così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza,/ con la tua nuvola di dubbi e di bellezza”.






Un'aquila mi vola accanto. Non sono riuscita a fotografarla se non da lontano, quando ha deciso di posarsi poi in cima ad un palo della luce. Ciao aquila, ciao Kazakistan. Arrivederci.



In un attimo sono arrivata alla meta. Isilkul’, in piena steppa del fiume Ishim. Qui il clima è terribile. Sta sui -40°C d’inverno mentre d’estate può salire anche a +40°C; è una piana esposta ai venti gelidi e bollenti, un’enorme distesa che si sbriciola e riempie di crepe e cicatrici ora per il troppo freddo, ora per il troppo caldo.



Il nome, che pare tolkeniano, pare derivi dalle lingue dell’Asia centrale e potrebbe significare “lago incantato”. La città, che è tale solo dal 1945, ha storia brevissima: è stata fondata nel 1895 come centro di costruzione prima e lavoro poi della ferrovia. Qui passa la Transiberiana. Dall’albergo, attaccato alla stazione, si sentono i treni passare, sbuffare e sferragliare a stento nella lunghissima marcia. Sono nell’unica struttura ricettiva presente, il prestigioso Ostanovis Hostel; se leggete su internet ci sono solo commenti negativi. Invece è un posto davvero ben degno: la camera è enorme, ha il bagno privato, la doccia e persino l’acqua calda. Ha il bollitore, il minifrigo e alla reception la signora è di poche parole ma così brava e buona e bella da avermi permesso di portare la Signora in camera, senza strani giri di garage, magazzini e stanzette.





Dopo un po’ di riposo mi sono lanciata all’esplorazione del centro cittadino. Aveva piovicchiato e, in due ore, tutto era diventato fango scivoloso e colloso, mannaggia.
Se avete intenzione di visitare questo luogo, di pura polvere quando asciutto e di pura melma quando umido, calcolate una ventina di minuti in totale.
Offre infatti: il parco giochi più triste del mondo, che pare quasi un piazzale per le torture e le esecuzioni





vie più o meno fangose






il monumento ai caduti della Grande guerra patriottica, che sono tanti e solo nomi muti, ormai








la chiesa






alcuni edifici che un tempo dovevano avere qualche funzione pubblica ed ora sono negozietti e supermercatini





gli ippopotami atletici e il centro sportivo




la carta moschicida al centro commerciale



le lunghe attese all’orlo del non, del nulla che rischia di spalancarsi sotto ai piedi ad ogni passo ed inghiottirci tutti, come ne La storia infinita.



Calcolate che questa è una delle regioni della Siberia in cui venivano deportati i prigionieri e gli oppositori. Ne parleremo più diffusamente domani e dopo, in riferimento ad Omsk, che è il centro amministrativo della regione ed è nato come fortezza e prigione. Pure Dostoyevsky è stato qui 4 anni in carcere, dal 1850.
Due cose di quest’oblast sono interessanti. La prima è che sol l’85% della popolazione è russa; gli altri sono kazaki, ovviamente, e ucraini e tedeschi. Questi sono i discendenti dei tedeschi del Volga, in parte deportati qui come contadini forzati, in parte migrati per cercar fortuna nel commercio di oro, legname e pellicce siberiane. Ci sono cittadine dove la percentuale di tedeschi è altissima. Assurdo.
La seconda cosa interessante riguarda la religione. Di musulmani qui non ce n’è praticamente più. Il 35% sono cristiani ortodossi. Il 40% si dice non ateo ma nemmeno appartenente ad alcuna chiesa o confessione; il 13% è ateo mentre quasi il 2% della popolazione (il doppio dei cattolici, per dire) è della religione rodnoveria. Io scopro ora di cosa si tratta, davvero non si finisce mai di imparare. E’ una moderna e posticcia continuazione della fede nativa slava, quella religione indigena e ancestrale che si praticava prima dell’adozione, da parte delle classi dirigenti, del cristianesimo. I suoi seguaci sostengono che il popolo abbia sempre avuto una doppia religione: quella cristiana, ufficiale, e quella pagana, nel privato delle formule giurate al sangue, alla terra e al fuoco. C’è anche un detto: “La Russia è stata battezzata ma non cristianizzata”. La rodnoveria, neopaganesimo in maschera, è emersa intorno agli anni Trenta del ‘900, ma si è diffusa in Russia solo a partire dagli anni Novanta, dopo la dissoluzione dell’Urss. Ha colmato molti vuoti lasciati dall’ateismo di stato. Inutile dire che si lega inscindibilmente a tendenze di estrema destra, ultranazionalistiche, conservatrici, antisemite e altre belle cose così.
Insomma, qui tra polvere e rasputiza cresce anche l’erba cattiva. Speriamo non attecchisca, che già ci sono gli ultraortodossi a far caciara.

Concludo in bellezza con l’alta cucina. Tenetevi forte perché qui si va sul pesante. Per la rubrica “Volpi gourmet” vi propongo la ricetta definitiva del Big Lunch.
La confezione si presenta così



e contiene una mattonella di noodles secchi, due bustine con aromi e l’equivalente del dado (l’alea iacta) e una grande con dentro un tocco di carne di brontocefalo con tanto di sughino che è così saporito che vien voglia di mangiarlo così. Ah, e la forchettina.



Aprite tutto e versate sopra agli spaghetti alla magna porco.



Intanto mettete l’acqua nel bollitore elettrico; mi raccomando, questo elettrodomestico non deve essere a norma, deve perdere acqua sulle prese e fare molte scintille.
Quando l’acqua bolle, versatene un tot abbondante sul mischione e lasciate che Gesù soffi la sua grazia sul composto.



Gli spaghetti si gonfieranno a dismisura e, nel giro di qualche ora, il brodo si sarà raffreddato abbastanza da permettervi di mangiare senza finire al reparto gravi ustioni.
Attenzione, Il piatto va consumato sul letto, preferibilmente sporcando un po’ in giro, macchiando i vestiti e facendo rumori da tubo ingorgato.
Enjoy!



Domani mi attende Omsk periferia, in zona aeroporto; così potrò entrare in città dopodomani, facendo quasi una sosta: ho solo 11km, a dispetto dei 136 che mi aspettano tra poche ore. Vi saluto così. Traslittero la scritta in alto:

LOMBARD / SALIUTI (e baciui!)







 


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