venerdì 28 luglio 2017

Ventinovesima tappa. I campi della Siberia e il dio della linfa. Da Omsk a Kalachinsk



“È la realtà!
Sono in Siberia... Rivedrò questa smisurata terra con i suoi segreti, le sue bellezze, le sue ricchezze, questa terra, la cui storia oggi ancora è inesplorata come le incommensurabili regioni entro i suoi confini, come i fiabeschi tesori che il suo suolo nasconde.
Dalle ignote steppe e foreste di questa terra, un potente e irresistibile fiume di popoli nuovi e di nuove forze si è riversato nel corso dei secoli sulla Russia e su tutta l'Europa”.

Ed io, che percorro questo fiume al contrario, controvento e controcorrente, sento l’eco di tutti i passi e le voci e le grida, il canto dei nomadi e degli ufficiali ubriachi, coperti entrambi dal nero di una notte di stelle lontane, sento il frastuono degli zoccoli di cavalli al galoppo, che arrivano arrivano e portano fiamme, e di rotaie fumanti che vanno e vanno carichi d’anime negli spazi infiniti.
Tutto questo si sente nel silenzio immenso dei campi, nel suono di bordone che fa il vento che soffia cieli nuovi.
La breve lunga storia di questi luoghi non è scritta nei libri, ma nella terra, nell’acqua e nella corteccia. Bisogna imparare a leggere questo muto alfabeto primordiale. Sapevamo farlo tutti noi, ma lo abbiamo dimenticato con l’inganno della parola e dell’inchiostro. Bisogna apprendere di nuovo. I sentieri, le piste, le cicatrici e le linee del palmo della mano sono i segni della strada che porta lontano. Avanti, avanti dice la luce che filtra a stento tra le nuvole, avanti verso l’alba, avanti verso l’orizzonte. Avanti, avanti, prima che faccia buio, prima che sia troppo tardi.

E avanti andiamo io e la Signora, in questa Siberia che oggi ci è stata amica.
Dopo una colazione con profumatissimo pane ai semi di papavero e cerealizi (laterizi di cereali),



ho salutato Omsk che stamattina splendeva raggiante in un sorriso di sole caldo e bello come dovrebbe sempre essere.
La biblioteca di Pushkin



La torre dei pompieri da cui si avvistavano gli incendi, così drammatici nelle città di puro legno e stufe a viva fiamma



Un bel globo



E la moschea dove risiede l’imam di Siberia. 



Che meraviglia. Sono abituata ad associare l’islam al medioriente, al sole d’oro opaco e alle terre calde e bruciate dal sole; qui invece la mezzaluna si erge nel candore delle nevi altissime e ribalta le immagini stereotipate in cui si incastra il pensiero fin troppo spesso.

Appena fuori Omsk mi si è parato di fronte un muro di nuvole nere come l’apocalisse, un armageddon temporalesco di spiriti maligni delle bufere. Il vento era teso e laterale. I nuvoloni si avvicinavano in fretta alla strada su cui mi trovavo e l’impatto sarebbe stato inevitabile. 



E va bene, anche oggi si nuota. La pelle già stava diventando di grigia pietra porosa, come quella delle statue del Buddha con il loto in grembo, e già era sorta la luna crescente del sorriso dell’atarassia stoica. Mi stavano crescendo i baffi lunghi da gamberetto che zampetta nelle correnti. 




E invece. Invece il vento era talmente forte da far correre via i nuvoloni in tutta fretta, una slavina nera di tuoni a precipizio. Le strade erano fradice ma io, io no. Il temporale mi è passato davanti e sopra senza rovesciarmisi addosso. Ma che grandioso regalo, Siberia, che gesto d’amore!



In preda alle endorfine da cieli azzurri, in strappi sempre più estesi tra le nubi, mi sono lanciata a percorrere i quasi 90km di tappa odierna.
Non ho preso la solita autostrada ma una parallela, meno battuta e più deserta, che mi ha permesso un’immersione totale nelle campagne della zona. Che pace, che assoluta tranquillità in questa natura grandiosa fatta di piccolissime cose. In questo perpetuarsi millenario del rito della radice e del seme, della morte e della rinascita. Credo che se mai si debba venerare qualcosa, su questo mondo di contingenza e rapide giostre di luce ed ombra eterna, queste siano le piante. Sono ciò che più sa avvicinarsi all’eterno. Non nel singolo elemento ma nel loro insieme. L’universale nel contingente, l’eterno nel transitorio. L’assoluto, un dio di linfa in un tempio di rami, in ciò che pare meno importante. 









Ho attraversato così gli oceani di verde enorme e di terra fertile. L’unica presenza umana per i primi 50km è stata questo kafè, che mi ricorda le stazioni di posta del far west (e del far east, qui, a quanto pare), con immancabili venditori di funghi, che, a furia di stare a contatto con la loro merce, hanno appreso l’arte dello spuntar dalla terra così, senza motivo, dopo un acquazzone.




Poi sono passata per Kormilovka, che sorge sull’Om, fiume che ho seguito per tutta la tappa. 




Fa ridere che non si sappia bene come sia nato e perché, questo villaggio. Qualcuno, con il riferimento al cibo contenuto nel nome, pensa fosse un luogo di sosta, con magari una locanda o una taverna, per i mercanti e i soldati in transito da Omsk a Novosibirsk. Altri sostengono che il nome derivi dal generale delle armate bianche Kornilov, che qui avrebbe radunato numerose forze. Io propendo più per la prima ipotesi.
In ogni caso la data di fondazione della città si fa coincidere con l’apertura della locale stazione della Transiberiana: 1896 .




Proprio l’arrivo della ferrovia attirò qui contadini dall’Ucraina e dall’Asia centrale, che cercavano in Siberia una terra più libera e non gravata dalle pesantissime tasse cui erano sottoposti. Sorsero una costellazione di insediamenti rurali, che tutt’oggi si incontrano per via.
L’importante snodo ferroviario e la volontà di investire sull’agricoltura, con i piani quinquennali, fecero crescere in fretta la città; nel 1930 comparvero i primi allevamenti di stato e le aziende agricole collettive. Poi le industrie, legate soprattutto al settore alimentare. Durante la Seconda guerra mondiale, tuttavia, questi villaggi furono letteralmente svuotati: tutti gli uomini, esclusi solo bambini e anziani, furono spediti al fronte. Non tornò quasi nessuno.




La zona è stata poi forzatamente ripopolata nel dopoguerra, spedendo contadini dalla Russia occidentale a lavorare le terre abbandonate
Sullo stemma svetta il simbolo della città, un panificio, per decenni uno dei più grandi della nazione; ancora oggi grossa parte della popolazione è impegnata nel lavoro dei campi e nelle industrie alimentari: panifici, macellerie, caseifici… Anche i dintorni confermano questa vocazione di spighe e farina, di semi  e solchi che il territorio mantiene da secoli.







Ancora qualche colpo di pedale, con il vento laterale sempre più teso e secco, ancora qualche mar di verde e villaggio contadino, 





e sono arrivata alla meta di oggi. Kalachinsk, sull’Om.



E’ un’altra stazione della Transiberiana, di cui ho seguito le rotaie per tutto l’ultimo tratto di strada.
Il primo insediamento qui risale alla metà del Settecento, quando si acquartierò un drappello di soldati mandati ad esplorare la Siberia, alla ricerca di oro e giacimenti. La data ufficiale di fondazione è il 1794, quando una manciata di famiglie si stabilirono sulla sponda dell’Om per coltivare le terre vergini. Il villaggio rimase un minuscolo alveare di case in legno per anni: qui non arrivarono il latifondo e le grandi aziende; un minimo di sviluppo si ebbe nella seconda metà dell’Ottocento, con l’abolizione della servitù della gleba, ma la vera spinta fu data, anche qui, dalla costruzione della stazione ferroviaria della Transiberiana. Aprirono negozi e fucine, frantoi e magazzini; la popolazione crebbe in fretta.
Dopo la rivoluzione non mancarono i disordini nemmeno in questo fazzoletto di terra così lontano dai centri del potere e del denaro. Un gruppo di contadini, allevatori e commercianti insorse, con idee controrivoluzionarie, e accolsero le truppe del bianco Kolchak in ritirata, unendosi a loro. Della tragica marcia nel ghiaccio siberiano e dei cadaveri che rimasero congelati sul Bajakal fino al disgelo, quando le profondità del lago li inghiottirono, parleremo a tempo debito.
Per ora basti dire che nel ’19 i bolscevichi presero la città e fucilarono tutti i controrivoluzionari al muro della stazione.
Inizia un nuovo periodo buio di regressione; il paese si spopola e l’economia langue. Prima del ’43 compaiono solo pochi e maldestri tentativi di avviare attività industriali (mattoni, trattori), ma con la Seconda guerra mondiale vengono portate anche qui alcune industrie, viene aperto un ospedale militare e si avvia una scuola per tiratori scelti, oltre ad un orfanotrofio che accoglie 500 bambini in fuga da Leningrado. Kalachinsk perde al fronte quasi 6000 uomini, più della metà di quanti eran partiti. Molti sono gli eroi di guerra, ricordati nel monumento a loro dedicato.
Dopo la guerra sono sorte nuove industrie, ed ora si tratta di un tranquillo paesino di campagna, con i suoi negozi, i palazzoni, le vie polverose





Il museo del folklore locale




La chiesa (pare siano molti gli ultraortodossi, qui. E ci sta: siamo in campagna. Con il vuoto lasciato dall’ateismo di stato la chiesa ha riattecchito con vigore)



il monumento ai caduti




vie belle nonostante la pioggia





E la gostinitsa Voshkod Inn, dove sono ora. 





E’ un edificio che ospita uffici per due piani, un’azienda di grafica pubblicitaria (con una volpe come simbolo)



e ha delle stanze all’ultimo piano. La vecchia della reception si incazza molto con coloro che non parlano bene il russo come la sottoscritta, e tiene brusche, brevi e infastidite lezioncine della sua bella lingua, sillabando e scrivendo con rabbia alcune parole in una grafia traballante. Maledetta vecchiaccia, ma lo sai che l’Urss è crollata, nel bene e nel male, e la lingua internazionale è l’inglese? Santiddio che fastidio. Mi manca già la ragazza dell’ostello di Omsk, che mi ha fatto un panegirico sulla genialità dei braghetti da ciclista con il fondello imbottito: non li aveva mai visti ed è rimasta meravigliata. Poi mi ha chiesto che lavoro io faccia. Quando ho risposto “l’insegnante e la giornalista” ha ribattuto che lo sospettava. Ma in che senso? Certo qui son due categorie viste mica troppo di buon occhio. Infatti sono le uniche due professioni per le quali non viene rilasciato il visto business…
La megera di stasera, invece, pensa che io abbia dei cromosomi di troppo solo perché il mio russo zoppica. E ogni volta che transito con un vestito diverso (prima da bici, poi civile, poi civile con k-way perché dopo il mio arrivo è calato il diluvio universale) non mi riconosce, mi blocca sull’uscio e tenta di non farmi passare. Poi mi guarda bene bene con attenzione e oplà, sun sempar mi.
Questa è una volpe russificata che celebra l'arrivo rosicchiando cetrioli crudi in poltrona



Dopo la super cena di oggi (ma se una volpe di meno di 50kg mangia 1kg di carote, significa che poi è composta al 2% di detto ortaggio? E sopravvive, anche?) 



mi preparo alla prossima tappa.
Lascerò l’oblast di Omsk per addentrarmi in quella di Novosibirsk. La meta è Tatarsk. La distanza, lo spazio, si mangeranno ancora un’ora di tempo, e sarò a +5 dall’Italia, che si fa via via più piccola nella lontananza. 





1 commento:

  1. "Le piante...Un dio di linfa in un tempio di rami" Che immagine stupenda! Sila

    RispondiElimina