domenica 30 luglio 2017

Trentunesima tappa. La steppa dei Baraba, tartari camaleonte. Il Khanato di Sibir, l'invasione russa e altri incendi celesti



Vi presento le steppe di Baraba, o Barabinsk (città in cui mi fermerò domani).




Sono vaste (120.000km quadrati) e si estendono dall’Irtysh all’Ob.
Sono proprio enormi.




Sono una distesa di prati e boschi su terra piatta, immutabile e nera.
La nera terra è anche così fertile da aver attirato, da millenni, insediamenti umani che hanno preso la folle decisione di mettere i campi a coltura e vivere di grano e pane; qui, dove il clima e gli inverni non hanno pietà. Qui, dove la vita ogni anno viene travolta dal ghiaccio e dalla neve e tutto muore sotto un drappo candido come un’anestesia.




Vi presento le steppe di Baraba, che mi accompagneranno anche per i prossimi giorni di viaggio, almeno fino a Novosibirsk.
Ma perché Baraba?
Perché così si chiama l’etnia di tartari siberiani che abita queste terre; si sono da sempre opposti con fierezza all’invasione russa ed hanno resistito, pure se con fatica e sacrifici immensi, alle incursioni di Kyrgyzi, Calmucchi e altri nomadi. Tuttora parlano una lingua propria, il dialetto tataro siberiano Baraba e vivono di agricoltura in villaggi spesso separati da quelli in cui si sono stabiliti i russi. Sono musulmani sunniti o ancora dediti alla tradizionale religione sciamanica, che ha resistito ai secoli e alle invasioni.
I Baraba si sono sempre mimetizzati, utilizzando la tattica del camaleonte, per sopravvivere. Quando il Khanato degli Zungari pretendeva che pagassero la yasaq (tassa in pelli di zibellino e altri animali) si convertirono in massa all’ortodossia cristiana e si mescolarono ai russi per trovare protezione e terre franche. Da quando, sotto l’impero zarista, i Bukharlyk, ovvero quei tartari siberiani che venivano dall’antico Khanato di Bukhara, iniziarono a godere di privilegi economici e sociali, i Baraba si finsero di quell’etnia. Tanto i russi non sapevano distinguere i diversi gruppo di tartari, e per i Baraba fu sempre facile nascondere la propria identità e mascherarsi da ciò che più aggradava al potere del momento. Dei furbissimi camaleonti.




D’altra parte vivere da queste parti è sempre stato difficile. Fin dal neolitico ci sono tracce di presenza umana, ma sporadiche e rare. Per secoli si sono alternati come onde dalla veloce risacca popolazioni nomadi provenienti da oriente e da occidente, che qui trovavano pellicce e legname e terre libere. Poi, all’inizio del 1200, vennero i Mongoli con le loro orde e presero tutto, bruciarono, saccheggiarono, divorarono e bevvero. Ma pure l’Orda d’oro esplose in minuscoli frammenti e si dissolse in una nuvola di sangue e argento, lasciando singoli principi e signori dei cavalli e dei venti a governare sparsi qua e là e spesso in guerra fra loro. In questa zona nacque, e siamo nel Quattrocento, il Khanato di Sibir, o Siberia, governato da un’etnia turco-mongola direttamente discendente da Gengis Khan; vi si raccoglievano stirpi diverse di nomadi delle steppe, cacciatori e mercanti degli Urali, contadini di origine turca, cacciatori, banditi, grandi filosofi e teologi musulmani, esploratori e finissimi letterati. Ma un secolo e mezzo dopo, con l’aiuto delle incursioni della cavalleria cosacca, Ivan il Terribile riuscì a minare il potere del khanato e ad annetterlo, tramite sottomissione, vassallaggio e imposizione di yasak (tributi in pellicce, dicevamo). Da qui inizia la conquista della Siberia da parte della Russia, che non è affatto diversa da quella delle Americhe fatta dagli europei. Anche qui furono costruite fortezze da cui far partire raid dell’esercito per conquistare i villaggi delle popolazioni indigene, inferiori in numero e tecnologia e armamenti e falciati da malattie come il vaiolo. Anche qui gli invasori furono invasati dalla febbre dell’oro e delle ricchezze minerarie, sterminarono gli animali, oltre che gli uomini, e abbatterono gli alberi. Anche qui la ricerca di ricchezze portò morte e distruzione.
Per fortuna questi luoghi sanno difendersi da soli con il clima e gli spazi enormi. Qui tutta la natura è disumana e non si piega mai del tutto al giogo nostro che ci illudiamo sempre di controllare e dirigere gli eventi del mondo.




Sono questi i pensieri che mi hanno accompagnata per tutta la breve e svelta tappa di oggi.
Dopo una notte di diluvi universali, con fulmini da film e tuoni spaventosi, la mattinata si è presto aperta in un sorriso d’azzurro a strappi. Che fortuna ho, in questi giorni, nell’evitare i temporali! Infatti le previsioni e l’aspetto del cielo non facevano ben sperare, alla partenza; invece me la sono cavata senza nemmeno una gocciolina di pioggia. Non ci sono né calcoli né oracolari vaticini. Solo culo.
Dalle viuzze di Tatarsk mi sono rituffata sull’autostrada e, dopo qualche pedalata, ho incrociato questo cartello. 



1000km anche qui. In effetti in questi giorni cade la metà esatta del viaggio; sono partita poco più di un mese fa e ho, davanti a me, ancora poco più di un mese on the road. Siamo intorno ai 3000km alle spalle e altrettanti all’orizzonte.
Da qui inizia, per me, l’ignoto. Non sono mai stata via, tantomeno in bici, tantomeno da sola, più di un mese e briciole. Mi spaventava, prima della partenza, questo salto nel vuoto. Non sapevo se avrei retto bene ad un periodo così lungo rispetto al solito. Lo scorso anno, ad esempio, all’arrivo a Mosca mi sentivo stanchissima ed ero contenta di essere finalmente arrivata. Ora, che siamo ad un simile giro di boa (un mese, 3000km) non sono affatto provata, non mi sento “a fine corsa” né mi spaventa l’idea di avere davanti a me ancora così tanta strada. Ciò dimostra che la testa fa tutto. Quando si è in dirittura d’arrivo la stanchezza emerge perché si molla un po’ il freno e ci si concede il pensiero di potersi fermare. Capita anche nelle singole tappe. Gli ultimi 20km sono sempre i più sofferti, soprattutto psicologicamente, perché già ci si immagina alla meta, spaparanzati sulle piume a mangiare e bere, e invece si è ancora in sella.
Idem sul viaggio in generale. Per ora tengo tutto, reggo, mi sento in forze e allenata e pronta. Gli ultimi giorni lascerò che la fatica emerga e a spingermi sarà, a quel punto, l’euforia della meta ormai vicina.
Insomma, altri 1000km sono andati.
Steppe, boschi, strada bella, sole sempre più caldo e qualche cantiere con operai diversamente belli sono stati i compagni di viaggio, in un silenzio rotto solo dal grido acuto di qualche rapace a caccia.








I cartelli che, ogni kilometro, compaiono a contarmi i respiri, sono stati comodi per trovare l’albergo di oggi. Infatti è talmente in mezzo al nulla, lontano da ogni paese o riferimento da chiamarsi, semplicemente, Gostinitsa kafè 1071, come il kilometro di autostrada presso cui sorge. E’ più o meno la solita ancora per naufraghi della strada, dove si mangia, si beve e si può dormire; c’è il parcheggio di fango immancabile per camion, c’è il benzinaio, c’è l’officina. C’è tutto.




Purtroppo intorno non c’è nulla, se non boschi di betulle, tafani e fango. Per questo motivo domani tenterò di fermarmi in città, e non nel corrispondente motel sulla strada, pur dovendo pedalare qualche kilometro in più. Oggi ne ho approfittato per riposare.
Le stanze sono belle e pulite. 





Lo stesso ahimè non si può dire per la doccia, che sta in un bugigattolo in cortile, che si raggiunge passando per questo giardino all’italiana.





La struttura è presidiata da una anziana, un grosso batrace, che mangia ininterrottamente semi di girasole, sputando in terra la buccia nera. Intorno nuguli di mosche. 150 rubli e si accede a questo stupendo cubicolo, regno di ruggine e micosi; nemmeno a dirlo, l’acqua sa di ulcere velenose e carogna frullata e frollata. Però è calda.




Per chi se lo stesse chiedendo: le docce sono in cortile perché spesso i camionisti, cioè il 99% degli avventori (io sono l’1% rimanente) si fermano, si lavano, cenano e poi ripartono o dormono sul camion, parcheggiati qui fuori.
La cena, se non altro, è stata buona: pane (o pene, la forma era ambigua), insalatina russa di gamberi, maionese e sadiocosa, insalata cetriodori e cipolle, carne di bruttosauro allo spiedo, sempre con cipolle e salsina agrodolce. Tutto approvato. 




Poi, in mancanza di gelati o simili, ho optato per uno di quei caffettini freddi confezionati che si trovano spesso anche da noi. Peccato che quello in cui stava non fosse un frigo ma un fornetto e la bevanda non fosse fredda ma bollente. E fa caldissimo. Che inganno malefico.



Ho rimediato con questo succo di agave e melograno veramente buono. I russi sanno il fatto loro in materia di schifezze da bere… Anche analcoliche.



Domani, dunque, mi attende un’altra tappa di steppa, ovvero una stappa. Che è anche un invito a brindare alla bellezza dei luoghi.
Barabinsk, capitale dei tatari camaleonte, mi aspetta. Dovrebbe anche esserci il sole, con una temperatura record di 26 gradi. E io sono curiosa e non vedo l’ora di esplorare la strada e le terre che ancora mi aspettano.

Vi saluto con questo incendio celeste. Perchè anche in Siberia, in questo oriente d'azzurre distanze, i tramonti sanno riaccendere l'"antica fiamma" di cui riconosco i segni, tanto per citare Didone.







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