martedì 25 luglio 2017

Venticinquesima tappa. I pastori cosacchi a cavallo e il tempo sospeso su una zolla di Kazakistan. Da Petropavl a Bulaevo





Quella di oggi (24/07, ieri rispetto al giorno di pubblicazione) è stata una tappa da incorniciare. Non bella, di più.
Faticosa il giusto e non troppo, con paesaggi pieni di grazia, presenza umana ridotta al minimo sindacale, sole, strada clemente che come un fiume dolce mi ha condotta alla meta e nessuna brutta sorpresa all’arrivo. Oggi, infatti, non sapevo se, nella città cui puntavo, l’ultima prima del confine russo, ci sarebbe stata una gostinitsa, una cuccia per volpi, un letto per naufraghi. Google, così ignorante in questi luoghi, diceva di no. E, visti i primi 90km di assoluto nulla fuorchè boschi e prati, ero già pronta a pedalare ancora qualche ora per raggiungere la meta di domani, di nuovo in Russia. E invece non è stato necessario, tutto è andato bene con una facilità gratuita che quasi mi commuove, così preziosa in questi viaggi allo sbaraglio, alla mercè della scheggia impazzita del caos. Perché si può preparare ogni cosa con cura e ci si può muovere con l’astuzia e l’accortezza di un Ulisse, ma basta un nulla per causare una catena infinita di problemi. E invece no, invece no. Sono felice, stasera.

Dunque, la mattinata è iniziata con la prima bella notizia, il sole alto e già caldissimo, dopo i temporali e il fango di ieri.
Poi ho affrontato una decisione nient’affatto sofferta, come testimonia questa foto che intitoleremo “Ercole al bivio”. 



Certo che è un modo efficace per farti sentire in colpa, se sei lì, che so, per lavoro o per un weekend alla spa.
La scelta è stata questa.



Sono stata la prima a sedermi e l’ultima ad alzarmi. Perché una volpe a pedali è una volpe trafitta da fame cronica. E una volpe a pedali in presenza di un buffet diventa una volpottera azzurra, che non si sa mai domani, o in futuro, se ci sarà modo di mangiare a modino. Meglio far scorta. E con questo pensiero puramente ferino ho fatto onore al cuoco, con gran dignità e calma.

Il tempo di iniziare a digerire al modo delle anaconde sazie e via on the road again (dimenticandomi di attivare subito la registrazione del gps, vedrete sui dati una manciata di km in meno).
Uscire da Petropavlosk è stato facile e rapido: c’era pochissimo traffico e le strade, essendosi asciugate le pozze olimpioniche nelle buche, erano più che affrontabili. Ciao città bella, sei stata un inatteso piacere in questo assaggio di Kazakistan.



Da lì è iniziata la meraviglia più pura.
Ho attraversato per tutta la tappa un parco agricolo e boschivo completamente disabitato, privo di traffico e con una natura semplice, antropizzata, sì, ma così maestosa e dolce in ogni sua vibrante fibra da lasciar senza fiato.
Immensi campi giallissimi (siamo in Kolzakistan!) ridevano al solletico del vento, imitando i fremiti delle spighe e dell’erba intorno. Silenzio. Cicale, foglie che cantano e sono sacre, sono la voce del dio degli oracoli, la voce in esametri d’argento dei sacerdoti scalzi di Dodona.








Sulla terra piatta e fertile si ergono anche sparuti boschetti d’ombra umida, nel cui fitto vivono i cignali peluti, le volpi, i bambi e persino le alci, stando a quanto dicono i cartelli che invitano a rispettare i fratelli con la coda.





Ho visto tantissimi piccoli rapaci e alcune maestose aquile, quelle sì. Non è un caso che siano il simbolo della nazione e stiano pure sulla bandiera. Volano basse in cerchi lenti, perlustrando i cespugli e i rami con i loro occhi cui nulla sfugge. Ogni tanto un volo a picco, un precipizio di vento e la preda è già tra gli artigli.

Anche qui è una costellazione ininterrotta di paludi, stagni, fiumicelli e laghi. La terra è umida e l’acqua fa di tutto un brodo pieno di vita. Guardate questo lago. 




Non avete idea del silenzio, della pace assoluta che aleggiano in vapore sottile sulla superficie di questo azzurro infinito abisso di calma. Tutto è fermo. Tutto è vivo e culmina in quest’attimo di luce piena. La morte, la fuga temporis, il pensiero stesso di un futuro qui non esistono. Tutto è adesso, qui. Il filo d’erba si srotola e stende, la radice si sgranchisce nel buio. La libellula si posa e resta in un equilibrio magico che sospende il tempo. Il mondo intero si cristallizza in questo istante. 




Ecco l’universale che sta nel relativo, il tutto che si compone e ricompone in un caleidoscopio di minuscoli granelli di esistenza. Io entro nel gioco dell’hic et nunc e potrei fermarmi qui e non andare mai più via. Mettere radici, diventare di corteccia e luce.
Invece proseguo. 



Torno sposa del vento. Bramo l’immobilismo del sorriso arcaico scolpito nella pietra e indelebile, ma mi terrorizza. Non è il mio, purtroppo.
Incrocio qualcosa che sa di umano e non mi riconosco già più.




Poi di nuovo campi, acque ferme, linfa e steli glassati di una luce color caramello e spettinati dal vento, che ridono e ridono l’antica risata vegetale di prima che l’uomo fosse.










Ascolto l’eco di questa voce e già sono arrivata.
Bulaevo.
Sulla strada non ho incontrato nulla, e mancavano persino le indicazioni per questo paese. E dire che è l’unico insediamento abitato da Petropavl alla frontiera. Vedo due benzinai, un caffè. Male, male: di solito in posti del genere se qualcosa c’è, sta sulla strada principale.
Mi sa che mi tocca tirar dritta fino alla dogana e poi alla prima città russa, penso scoraggiata. Però un giretto in paese tanto vale farlo. Bulaevo, mi fido delle tue strade e del tuo cielo di luce obliqua; in nome del fango e del vento, fammi la grazia.
E la grazia è stata fatta, contro ogni logica aspettativa. Dopo aver lasciato la strada principale, nel giro di qualche centinaio di metri, vedo una strana struttura, un’officina di fatto, con uomini stesi a terra a frugar la pancia di auto e camion. 





Ma c’è un cartello, che oltre ad officina snocciola i servizi: ristorante, supermarket, gostinitsa (hotel). Ah, la parola magica. Gostinitsa.



Inchiodo, scendo e mi rivolgo a quello che, occhio e croce, è il paron del complesso. Sessant’anni o giù di lì portati male, in ciabatte nel fango, con il nero dei secoli morti sotto alle unghie dei piedi, a braccia incrociate osserva gli altri lavorare. Sì, è il padrone. Dalla canottiera tutta bucherellata, sopra alla pancia alcolica, emerge un peloso capezzolo, visione di tettina mai fu più triste.
Mi scusi, ha una stanza? Certo! Aspetta qui.



Dopo una breve attesa tra i meccanici che fingevano noncuranza ma morivano dalla curiosità e sfruttavano ogni occasione per dare una sbirciatina (sono la prima cosa diversa che passa di qui da quando è crollata l’Urss), compare una ragazza con una pila di lenzuola tra le braccia e intuisco che stia andando a farmi il letto.
L’operazione di preparazione della stanza dura circa un’ora e mezza.
Non per colpa della celere fanciulla, ma per il puntiglio del paron di metter giù i tappeti a coprire il pavimento in plastica finto legno. E voi direte: “Ma quanto ci vuole a metter giù tre tappeti?”. Poco. Ma se i tappeti sono ancora solo l’idea platonica di essi stessi, contenuti indivisi in un grande rotolo di moquette che va tagliato secondo le misure ancora da prendere, be’… Un’ora è anche poco. Con i forbicioni il nostro taglia, suda, misura e toglie i fili al bordo che si scuciono e gli danno molto fastidio. Sbaglia le misure, taglia ancora, piega l’ultimo pezzo su se stesso perché ha misurato male e di tagliare non ha più voglia et voilà, ora sì che posso avere la stanza.



L’operazione si ripete anche per la camera vuota dove sta la Signora e per la cucina. Intanto io speravo ci fosse un bagno, almeno, per poter far pipì senza mostrar le chiare terga a tutto il paese.
Chiedo, mi mostra orgoglioso la toilette, facendomi notare che posso usare sia la carta igienica sia lo spazzolino marrone della carie altrui che sta sul lavandino. Poi mi dice che ahimè manca l’acqua calda. Ma manca pure la doccia, quindi nema problema, sono vezzi borghesucci.




Anche la cucina, con zampirone bruciato, unto in cui si possono fare ricerche archeologiche stratigrafiche e lattina di birra abbandonata merita attenzione.




Queste invece sono le scale su per le quali ho trascinato la Signora. 

 

La sicurezza prima di tutto! Ad ogni gradino pensavo: no, dai, farmi male qui, già arrivata alla meta, in modo così stupido, non è cosa, sarebbe una vergogna. Mi immagino sul giornale: “Volpe a pedali si fracassa l’osso del collo su per le scale, mentre tenta di portare la bici in camera; è successo in Kazakistan oggi alle 17…”.
Compiuta l’ardua impresa senza danni, tocca pure accettare il sigarettone che il paron mi offre. Ma non fumo! No no prendi, lo fumi dopo. Ok.



Dopo aver fatto un micro bucato di mutande (stese sulla meravigliosa antenna tv) 



ed essermi lavata in qualche modo al lavandino, almeno per scrostare il fango (minima moralia. Ora davvero capisco l’utilità dello strigile, e ne vorrei uno in bronzo), decido di fare un giro in paese.
Ho avuto così modo di saggiare anche una zolla di Kazakistan rurale, oltre alla città e al parco agricolo. Infatti Bulaevo è un paesino di allevatori e contadini, tagliato in due da una ferrovia enorme (ex transiberiana) che si può attraversare in un solo punto, a meno di non tentare la sorte sulle rotaie. 






E’ uno dei villaggi più tranquilli e di pace dei sensi che io abbia mai visto. Le strade asfaltate sono solo le due principali che attraversano a croce il paese, il resto è fango. Le casette di legno si affacciano ordinatamente via per via, con le loro staccionate e i contadini seduti in veranda, probabilmente dopo aver già cenato, perché il sole ormai sta scendendo oltre l’orizzonte. 



 (quella cosina piccola che si intravede a terra tra auto e furgone è un furgoncino giocattolo, identico a quello vero sulla destra. Ogni cosa parcheggiata come si deve)





Gli animali sono i veri padroni del villaggio: girano liberi e stanno in ogni via, cortile, prato disponibile tra casa e casa. Ci sono cavalli, galline, oche, mucche. Maiali no, perché qui i pochi che credono in qualcosa oltre alla terra bassa, sono musulmani. 


 (canestro e vitello)


 (dal primo piano allo sfondo: gaine, vitello stanco, treno merci con carbone. Il Kazakistan in una foto)





 (la chioccia cura i pulcini dall'alto del copertone)



Dopo un primo passaggio a livello alla Darwin, 



riesco ad arrivare alle enormi scale che permettono di attraversare i binari. Ci sono due treni merci, colmi di carbone, credo, fermi. 



Questa è la stazione.





Poi la statua del “Batir Baian”, cioè “re eroe”, che è sempre il nostro Ablai Khan,  e una farmacia dal nome eloquente






e altri potenti mezzi locali, sentieri di luce buona e angoli di pace in terra.








I bambini giocano sui sentieri e si rincorrono, vociando e ridendo, senza timore di essere investiti o di fare brutti incontri; qui si conoscono tutti, si va a scuola insieme, si lavora insieme, insieme si gioca, si beve e si portano le mandrie al pascolo. Si vive insieme. Probabilmente anche quando si muore si è stretti nel calore di tutta la comunità che dà l’ultimo saluto.
E poi c’è tutto. Ci sono le case, calde d’inverno nei vapori bianchi della stufa e fresche d’estate in un sollevarsi di tendine ricamate al vento; ci sono il pane, le uova, il latte, la carne, il formaggio, i pomodori e le mele. Ci sono il lavoro nei campi e nelle stalle, nelle officine, nei negozietti. Ci sono la luce e l’acqua, gli amici con cui fare tardi nelle sere d’estate e i figli, che hanno tutta la vita davanti e magari faranno grandi cose e diventeranno famosi come il Batir Khan. Che manca? Davvero, cosa manca a questo posto perché non possa esser coltivata qui la felicità? Non ci sono falsi bisogni, e di conseguenza non ci sono desideri inappagati; è un gran bel posto, questo.






Procurarsi la cena, escluso il gelatone d’antipasto, è stata per me un’impresa. Non ci sono supermercati, ovviamente, ma solo negozietti con quattro mele e caramelle sfuse.



Il paron mi aveva detto di andare a cena nella sua trattoria al pian terreno della stanza, ma, quando sono arrivata, aveva già chiuso. Allora mi è toccato far la spesa a caso, scegliendo scatolame senza vedere cosa contenesse. Mais ok, funghi ok, piselli, ahimè, erano una varietà ancora da cuocere, ma commestibili e, inganno malvagio, quel che credevo tonno eran pescetti intieri immersi in una salsa amara. Non commestibili. Per di più, quel che cedevo fosse semplice pane era una brioscione con la marmellata, una Luisona kazaka potentissima. Che cena sbagliata. Per fortuna frutta e verdura son sempre buone. 



Beffa al danno, il paron fa irruzione e mi chiede, con aria davvero offesa, per quale motivo non sia andata a cenare da lui. Ma è chiuso! Ribadisco, pensando che, oltre ad aver trovato la porta chiusa a chiave, ho pure letto il cartello con l’orario d’apertura che recita 9-19 e son le 22. Non è chiuso, è apertissimo! Si ostina a dire lui. E mi sfiora la pancia dicendo che i pescetti in salsa scatenano vere e proprie guerre intestine. Ok, avevo già deciso di darli al gatto, grazie comunque.
 
Mentre lamentavo la cattiva sorte in merito alla cena, sento muggiti e fischi; mi affaccio alla porta e vedo che i pastori a cavallo stanno rientrando con le mandrie, invadendo ogni strada e circondando del tutto l’edificio dell’ostello. E’ il crepuscolo. Che spettacolo impagabile, altro che i 6 euro spesi per la stanza.





A proposito di denaro: ecco che aspetto hanno i tenghe. 



Domani me ne libererò o spendendoli in barrette e cibaria o, se proprio non riesco, al cambio, in frontiera. E’ infatti già ora di tornare in Russia. Domani mi attendono di nuovo tutte le formalità burocratiche del confine, ma, se tutto va come ieri, non c’è nulla di cui preoccuparsi.
La meta è Isilkul’, città dal nome tolkeniano: Isildur, Isengard… A noi tocca il l’Isil-kul, ma tant’è.
Devo dire che questa brevissima parentesi kazaka mi ha lasciato un’ottima impressione e un semino di desiderio di tornare si è conficcato tra le costole all’altezza del cuore. Chissà quando, chissà come, ma è un paese da scoprire. Non sono molti i residui lasciati dall’unione sovietica, neppure in questa parte settentrionale, così russificata. Forse le strade e la divisione amministrativa. Forse l’ateismo e il poco interesse a ciò che sta oltre il cielo. Ma poco altro. In fondo stiamo parlando di uno dei paesi dell’Asia centrale con l’economia più sviluppata, grazie, soprattutto, alle inestimabili ricchezze che si estraggono dal sottosuolo: petrolio, gas, minerali di ogni genere, metalli. E’ una nazione dalla cultura ben delineata, affilata come gli occhi a mandorla di chi ci vive e brunita al sole come la loro pelle, come argento esposto ai secoli. Il Kazakistan, terra di nomadi a cavallo, è stato così grande da farsi rispettare dall’imperatore cinese e dallo zar. E’ stato autonomo, poi sottomesso e di nuovo libero come l’aquila che vola nell’azzurro della bandiera. Deve ancora perfezionare, diciamo così, il concetto di democrazia. Ma con il tempo si arriverà anche a questo, ne sono certa. 




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