lunedì 10 luglio 2017

Undicesima tappa. La rasputiza e i mari dolci. Da Katmysh a Nabereznye Chelny



Rasputiza.
E' la condizione delle strade al disgelo, in primavera, o durante le pioggie autunnali.
E' fango spesso, denso, in cui si affonda e si rimane invischiati.
La terra è argillosa e trattiene tutta l'acqua, che stagna e diventa colla marrone.
E' l'arma che ha permesso ai russi di sconfiggere Napoleone e Hitler. I soldati, i cavalli, i cannoni, i carri e tutti i mezzi si impantanavano e non si poteva più andare nè avanti nè indietro, bloccati in mezzo al nulla, nella piana infinita, mangiati dal fango, dalla terra stessa. Vi immaginate cosa poteva voler dire affrontare la rasputiza con le divise di cartoncino colorato della Grande armata, o con gli stivaletti lucidi dei nazisti?




Ecco, oggi le strade sono per lo più asfaltate, ma nei villaggi rurali, o nelle corsie per volpi in bici, la situazione, in realtà, non è molto diversa.
Non si può capire la letteratura russa, non si possono capire l'ortodossia e la rivluzione e la storia di questo paese se non si è fatta esperienza del fango.
"E' una delle estati più piovose degli ultimi 50 anni" dice la signora del bar, al Malina, vedendomi uscire in bici sotto all'ennesimo acquazzone. Eh sì, la rasputiza.

In realtà la tappa di oggi è stata molto bella e nemmeno troppo faticosa, nonostante i 120km abbondanti e i quasi 900m di dislivello positivo, tra collinette e collinone.
Le prime tre ore di pedalata sono state fraciche di pioggia, in un continuo e tortuoso saliscendi di strappetti sfiancanti. Per fortuna il fondo della strada era decente, nonostante i lavori in corso, e il vento era un po' meno teso di ieri (per chi viaggia in direzione ostinata e contraria,/ col suo marchio speciale di speciale disperazione/ e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità).
Per fortuna avevo fatto una bella colazione a base di cesar (zar) salad alla russa, insalata solita (sto iniziando a digerire le cipollazze crude enormi e i cetrioloni pure al mattino, sto diventando una betoniera bolscevica), caffè, pane nero e smetana.



Per altro, alla partenza, l'orso del Malina era uscito dal suo stato di catalessi depressa e faceva cose strane. La tentazione di aprire la porta della gabbia è stata grandissima.



Pian pianino, mentre mi lasciavo alle spalle i primi 60km tra fulmini lunghissimi e frane celesti di nubi crollate, il cielo si è fatto meno cattivo e ho iniziato a intravedere alcuno strappi cobalto tra nuvola e nuvola. Grande soddisfazione anche nel raggiungere il cartello dei 1000km di M7, che ho percorso tutti senza saltarne nemmeno un metro, e segnano il passaggio ai numeri a 4 cifre. Da qui sono solo altri 5000!







A questo punto ho deciso di lasciare l'autostrada per una provincialina che mi avrebbe portato alla fangosissima Elabuga, o Alabuga per dirla alla tartara, sulla Kama. E perchè mai deviare per questo luogo abbandonato da dio e dagli uomini? Innanzitutto perchè è stata ribettazzata Chertovo, "Città del diavolo". Vuoi non andare a buttarci l'occhio?
Il nome deriva, a quanto pare, da alcuni residui di torri e mura risalenti a prima del 1000, edifici dei fondatori, i Bulgari del Volga, che hanno inaugurato la tradizione mercantile della città. Qui, nel 985, il Khan Ibrahim fece costruire una roccaforte di confine, il cosiddetto castello di Alamir-Sultan, chiamato in tal modo perchè, stando alla leggenda, sorgeva proprio sulla tomba del nostro Alamir-Sultan. E sapete chi è questo Alamir-Sultan? Alessandro Magno, il macedone. Sepolto qui? Così si credeva.
In seguito il castello fu abbandonato e cadde in rovina, tanto da guadagnarsi l'appellativo di Saytan qalasi, castello di Satana. A metà del '500, però, la posizione favorevole per i commerci portò alcune famiglie russe a rifondare qui un villaggio, che sarebbe presto diventato un improtante snodo commerciale di ricchi mercanti, che avevano miniere d'oro in Siberia e giacimenti di gas e petrolio in queste regioni.
Nel 1850, al colmo della sua fortuna, la città fu mangiata viva da un incendio; gli abitanti si misero subito a ricostruire tutti gli edifici in legno e pietra che erano andati distrutti. La città ha ancora, per lo più, l'aspetto che aveva nei primi anni del XX secolo: Stalin vietò infatti la costruzione di nuovi edifici perchè gli abitanti avevano parteggiato per le forze bianche anti-comuniste.
Ma di Elabuga sono interessanti anche i personaggi.
Qui è nato Ivan Shiskin, famoso pittore di paesaggi, vissuto nel pieno Ottocento, cattedratico, pluripremiato e membro del Circolo degli itineranti (Peredvizhniki). La sua sensibilità per la natura, ritratta in tutte le stagioni, non lascia insensibili. Gran parte delle sue opere è oggi alla galleria Tretjakov di Mosca, per chi fosse interessato.




Poi, sempre a Elabuga, ha vissuto Nadezdha Durova, vissuta a cavallo (anche in senso stretto) tra Settecento e Ottocento, personaggione che merita due parole.



Figlia di un maggiore dell'esercito russo, nacque in un accampamento a Kiev. La madre tentò di liberarsene gettandola dal finestrino di una carrozza, perciò il padre la affidò ai suoi soldati; giocava con sciabole e pistole scariche, andava a cavallo e, dopo aver tentato di fare la moglie e la mamma, lasciò la famiglia prima per seguire ilsuo amante cosacco, poi per militare, travestita da uomo e sotto il nome di Alexander Durov, nella cavalleria leggera polacca, tra gli Ulani. Per patriottismo, coraggio e per aver salvato alcuni commilitoni, si distinse nella campagna di Prussia, nel 1806-7 e venne anche premiata dallo zar Alessandro I con la croce di San Giorgio e promossa al grado di luogotenente in un manipolo di Ussari. Purtroppo non le crescevano i baffi e veniva presa in giro perchè pareva un ragazzino di 16 anni; quindi fu costretta ad allontanarsi dagli alti gradi dell'esercito, ma partecipò alla prima guerra patriottica (contro Napoleone), sia nella battaglia di Smolensk sia ai campi di Borodino (dove fu ferita da una palla di cannone). Alcuni anni dopo incontrò pure Pushkin, che la convinse a pubblicare i suoi diari tenuti durante le campagne. Nel 1836 uscì quindi "La vergine a cavallo".
Che donna!

Da ultimo bisogna citare Marina Tsvetaeva, che qui, il 31 agosto 1941, si è suicidata dopo una vita di povertà, fame e perdita di marito e figlie, una per fame, in un orfanotrofio moscovita, nel 1919, l'altra, insieme al marito, nel 1941, perchè accusati di essere oppositori del regime. La poetessa ha vissuto schiacciata tra il sempre più oppressivo regime dell'Unione sovietica, in esilio in Europa (berlino, Praga e Parigi) e il nazifascismo che si stava allargando come un'ombra nera su tutto il vecchio continente, diventato sempre meno sicuro fino allo scoppio della Seconda Guerra. Tornata in Urss e in affitto da due pensionati a Elabuga, la Tsvetaeva si appende per il collo. "La vita è una stazione, presto me ne andrò, dove - non lo so dire".

Ma chi se ne importa! Siate pecore! Andate in branchi, in stuoli senza un sogno, senza un pensiero proprio dietro Hitler o Stalin:
mostrate dai corpi fatti a pezzi la stella o le croci celtiche.
(23 giugno 1934)
Io a  Elabuga ho trovato principalmente molta campagna bellissima e molto fango.
Diciamo che se fossi triste e avessi perso tutti i miei cari al fronte o in gulag non andrei a vivere proprio qui, perchè, in effetti, l'idea di farla finita può anche venirti.










Uscita con non pochi smadonnamenti dalla melma, mi sono ributtata sulla M7, in direzione Nabereznye Chelny, seconda città del Tatarstan dopo Kazan. Per arrivarci si attraversa la Kama, un affluente del Volga, che noi quasi non conosciamo e invece è grande come un mare.





Enorme almeno quanto il convoglio con tre locomotive e decine e decine di cisterne che è passato sulla linea ferroviaria. Un millepiedi a rotaie.



Qui tutto è immenso e ci si sente piccoli piccoli, su questi spazi che rimettono l'uomo al proprio posto e lo costringono a sforzi titanici per minuscoli risultati, come portare se stessi da qui a là.
La meta di oggi, Naberezhnye Chelny, è un formicaio di cemento e ferro. Fa proprio schifo, è brutta quasi quanto Elektrogorsk. 
 
E' un'altro centro nevralgico del degrado post sovietico e dell'industria pesante che inquina e soffoca. Dall'82 all'88 si è chiamata Breznev in onore del folle segretario del Pcus, poi, per fortuna, ha assunto nuovamente il nome antico di fondazione, che risale all'XI secolo. Le due cose di maggior attrazione sono i residuati post bellici degli ebrei udmurti, che parlano l'Yddish udmurti, e le fabbriche di auto e camion, le grandiose Kamaz e Zma, ecomostri che sfornano altri ecomostri in una spirale di fumi tossici. Le strade di Russia sono annerite dalle emissioni di questi camioni arancioni grandoni.
Per fortuna l'hotel è molto bello e anche deserto. Si chiama Hostel Arbat. Il difetto è che sta al quinto piano e non ha ascensore, ma io ho sempre questa fortuna qui, quando devo portar su a viva forza la Signora e le borse e intere lunghissime corone di rosario.





La vista dalla finestra è questa



Mentre questa che pare abbronzatura da ciclista è principalmente sporco, il crotto della strada raccolto nella tappa. La sorpresa è stata non potersi lavare compiutamente per mancanza di acqua e problemi alle tubature. Ma c'è gente che paga per fare i fanghi, di cosa dovrei lamentarmi?


Una nota a margine. Stasera niente self service da motel sull'autostrada, quindi spesa e cena completa.
Il supermercato ha queste perle, oltre ai soliti pescetti e tranci di carne inquietanti: il venditore di miele a spatlate grosse, che ha voluto a tutti i costi farmi assaggiare ogni varietà e, che dire, ottimo aperitivo!



I caricatori di biscotti secchi che servono a fare la pavimentazione del bagno, salvo poi diventar mollicci quando si esce dalla doccia coi piedi bagnati, o adatti a sopravvivvere a un conflitto nucleare. Ma lungo eh.



Le farine dai colori buffi. Sembrano sapone. Sanno di sapone. Ma se ci si lava con queste si fa la fine della fettina panata. Di elefante rosa.


 La cena invece consiste in: vasca di purè con carne liofilizzato. Ottimo per sopravivvere al fronte.



Zuppa che riscalda. Amundsen ne cantò le lodi, salvo poi morirne per la presenza di piombo e altri metalli pesanti



E poi pomodori giganti à la Chernobyl, latta di funghi e latta di mais, pane nero e mele indigene.


Peccati di gola, per rinfrancar lo spirito: Nescafè buo-nis-si-mo al caramello, per il quale darei tutto l'espresso italiano del mondo, e cicche (cingomme) alla soviet-menta, che sono veramente ottime.


Domani lascerò il Tatarstan per entrare in Baschiria. Lì il fuso cambia e si salta avanti di due ore per cui, praticamente, è già tardissimo!




3 commenti:

  1. da ignorantone pensavo che rasputitsa avesse a che fare con rasputin.. invece significa "stagione senza strade".. ma perché colorano la farina??

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  2. Io ci riprovo, a scrivere qui. Bellissimi racconti di viaggio, le mie mattine ormai iniziano leggendo i tuoi aggiornamenti. Una domanda: vedo che porti sempre la bici in stanza; devi chiedere il permesso oppure è una cosa normale per un ciclista? Io sinceramente non ci avevo mai pensato...

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  3. ho letto ancora oggi il tuo racconto che ha alcune note poetiche, nonostante l'ambiente naturale, che invece mi ha fatto sentire smarrimento e perplessità... Sila

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