DA LYSKOVO A SHOBASHKARKASY
Ah, la Ciuvascia.
Che bel minestrone brodoso.
Ma com’è questa repubblica?
Un po’ umidina. Tutto è verde e
rigoglioso e ti spuntano pure le piante addosso. Le muffe, le erboline.
Mado’ quant’acqua oggi.
Questa mattina nella ridente
Lyskovo splendeva pure il sole. Guardando fuori dalla finestra, sulle sponde
frondose del Volga, mi son detta “Addirittura il sole! E se poi se ne pente?”
–e la domanda, ovviamente, è rivolta al cielo, per essere animisti, o a un dio
antropomorfo con cui tengo un continuo dialogo che è meglio non riportare in
questa sede.
Infatti poi se ne è pentito e son
state bestemmie. Ho lasciato il lussuoso Parus, che vuol dire “Vela” (e infatti
è acchittato a simil nave), dopo una bella colazione ad abbuffet. Il fatto che
la reception avesse una prua di nave al posto del bancone avrebbe dovuto farmi
riflettere. Credevo fosse per la vicinanza al grande fiume, invece è perché sta
nel mezzo di una terra fradicia e funestata da un tempo di merda. Pure alla
Signora è spuntata una prua rostrata, nel corso della giornata.
Comunque, fatta colazione, mi
sono messa in strada con la speranza che il fondo fosse migliore di quello di
ieri, e magari ci fossero pure meno salite, visto che avevo davanti più di
130km.
Il tempo di un giro di pedale
sono iniziate a scendere le prime gocce. Per qualche ora non mi sono nemmeno
messa l’antipioggia né altro, perché era una pioggia rada. Il problema è stato,
fin dall’inizio, il vento. Teso, freddo e contrario. Quando ha iniziato a
piovere più forte, mi buttava le gocce di pioggia negli occhi, sicchè da oggi
ufficialmente son dotata, alla bisogna, di plica semilunare, cioè la ciccetta
che dà agli occhi la forma stretta e lunga, “a mandorla” degli orientali.
D’altronde a loro deriva proprio dalle popolazioni siberiane, che, con
l’occhietto stretto, si riparavano dal vento e del riverbero della luce sulla
neve. Quindi, da volpe a mandorla, sto proprio entrando nel vivo del viaggio.
Insomma, i primi 50km sono filati
via senza grossi problemi se non qualche tratto di strada scassato e fangoso, e
la fatica del pedalare contro vento.
Sul ciglio i soliti mercatini di
cose varie. Ma siccome siamo sul Volga, la merce più venduta è il pesce. Il
pesce così, secco o affumicato. Sui tavolacci, sotto alla pioggia. Idem per i
salami scuri (?) appesi. Che con la pioggia si lavano, no? (Nei sacchetti
colorati di varie fogge ci sono invece delle cosine buonissime fatte con il
mais soffiato. Avete presente le Dixi? Ecco, uguali ma dolci. Ottime).
Mano a mano i boschi di pini e
betulle, finora incontrati sempre a bordo strada, han ceduto il passo ai campi
coltivati e ai prati per il pascolo. Ci sono più colline, ma dolci, e tutto è
verdissimo. Certo. E’ tutto fracico. Vedrai.
La pioggia si è fatta sempre più
intensa fino a costringermi a soste per aggiungere strati impermeabili, non per
non bagnarmi (ormai ero completamente inzuppata) ma per non prendere freddo. Ho
passato il ponte del fiume Sura e da lì in poi tutto è diventato acqua.
Acqua
nell’aria, nebulizzata in nuvole di vapore dai camion, acqua nel cielo, nuvle
bassissime, acqua nella terra sciolta in fango liquido, acqua fin oltre le mie
mutande, acqua nelle buche della strada, acqua a scolo in torrenti sulle
salite, acqua negli occhi, nel naso, nelle scarpe. Acqua.
Intanto il vento non
voleva saperne di calare, costringendomi ad un passo lento che ha esteso
all’inverosimile la durata di questa tappa fracica. Per intenderci: era meno
faticoso scalare le rampe delle colline, pur con il morto attaccato al culo della
Signora, ma riparati dal vento dalla collina stessa, piuttosto che pedalare in
piano con il vento addosso.
Ogni tanto, ai lati della strada,
si vedono signore intabarrate che attraversano, praticamente a nuoto, immensi
prati di erba altissima, nel mezzo del niente, dirette non si sa dove, visto
che per kilometri e kilometri non c’è che mare di verde e fango. Secondo me in
questo paese tanti anziani escono di casa ed evaporano in una nuvoletta di
linfa, e di loro restano poi solo gli stivali e la mantella.
Comunque è stato ben faticoso,
oggi. Però di quella fatica tutta fisica e non mentale, perché le strade erano
piuttosto sicure e solo in un paio di occasioni ho cristato contro i camionisti
che mi sono passati così a filo da far giù la fetta di prosciutto. Vento,
pioggia e salite si affrontano, pedalando piano piano e senza pretendere di
arrivare in fretta. Bisogna fondersi con questo ambiente liquido e scivolare
senza attriti attraverso le cose. Tanto la natura è più forte, lo scontro porta
a soccombere inevitabilmente. Due signori vecchissimi, riparati sotto alla
tettoria di una fermata del bus, sono usciti sulla strada per vedermi passare,
hanno sorriso e salutato con il pugno chiuso; è la seconda volta che mi capita,
da quando sono partita. Si vede che ricordo loro i bei tempi in cui l’Unione
sovietica mandava la gente, conciata come me, con macchine poco più che a
pedali, al fronte o sulla luna. E i russi andavano matti per questi atti di
eroismo patriottico, per le imprese di persone che han dato la vita in cambio
di una medaglia con una stella rossa. Ah, ma la gloria… Il popolo, le masse, si
nutrono del sacrificio dei pochi, per sentirsi tutte immediatamente sollevate
ad un più alto grado della gerarchia umana, solo per il fatto di condividere
con l’eroe del momento il luogo di nascita o poco altro, spesso del tutto
fortuito.
Comunque.
Tra una cosa e l’altra sono
arrivata al motel Burtas, dove avevo deciso di fermarmi. E’ un grande edificio
a due piani.
Sotto, un ristorante self service dove ho cenato.
Scodella di
pomodori e cetrioli da cui ho scrostato almeno una decina di moscerini
impiciccati. Scodella con cavoli crudi (di cui vanto un’indigestione in terra
bulgara, quando stavo pedalando verso Istanbul). Piatto con purè bolscevico e
polpetta così morbida che senza dubbio è fatta con carne di bambino. La gentile
signora che si occupa dell’intera struttura voleva darmi la maionese o la panna
acida per guarnire tutto, ma ho visto i bacilli di salmonella farmi ciao ciao
da dietro il bancone, quindi no grazie, mi sento già abbastanza in pericolo
così. Poi tre fette di pane nero di consistenza cementizia, come sempre da
queste parti, che mi ricorda un po’ Auschwitz e un po’ questa poesia stupenda
di Celan. Fuga di morte (Todesfuge).
“Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
Lo beviamo al mezzogiorno e al mattino,
lo beviamo alla notte, beviamo e beviamo,
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti.
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
Che scrive all’imbrunire in Germania
I tuoi capelli d’oro Margarete
Lo scrive ed esce dinnanzi alla casa e brillano
Le stelle e fischia ai suoi mastini
Fischi ai suoi ebrei fa scavare una tomba
Nella terra
Ci comanda ora suonate alla danza.
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
Ti beviamo al mattino e a mezzogiorno
Ti beviamo la sera
Beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti,
che scrive, che scrive all’imbrunire in Germania
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
scaviamo
una tomba nell’aria là non si giace stretti.
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi
E voi cantate e suonate
Impugna il ferro alla cintura lo brandisce
I tuoi suoi occhi sono azzurri
Spingete più a fondo le vanghe e voi
Continuate a suonare alla danza.
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
Ti beviamo al mezzogiorno e al mattino
Ti beviamo la sera
Beviamo e beviamo.
Nella casa abita un uomo
I tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith
Lui gioca con i serpenti.
Lui grida suonate più dolce la morte
La morte
È un maestro tedesco.
Lui grida suonate più cupo i violini e salirete
Come fumo nell’aria
E avrete una tomba nelle nubi
Là non si giace stretti.
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
Ti beviamo a mezzogiorno
La morte
È un maestro tedesco.
Ti beviamo la sera e la mattina
Beviamo e beviamo
La morte è un maestro tedesco
Il suo occhio è azzurro
Ti colpisce con palla di piombo, ti colpisce preciso
Nella casa abita un uomo
I tuoi capelli d’oro Margarete
Aizza i suoi mastini contro di noi, ci regala
Una tomba nell’aria
Gioca con i serpenti e sogna la morte
È un maestro tedesco
I tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith.”
E l’immancabile gelato Potemkin,
ovvero fatto di cartapesta come i famosi villaggi finti costruiti dal politico per
dimostrare all’imperatrice che la Crimea era stata colonizzata e popolata. Che
non è una “cagata pazzesca” come potrebbe sembrare, ma è buono.
Una nota a margine. I russi
pasteggiano di norma con alcolici (spesso vodka) o con il thè bollente. Io che
voglio della semplice acqua ho sempre di fronte il bivio di Eracle: quale
comprare? Quella del rubinetto non si può bere e ha un odore dolciastro
inquietante. Quindi bisogna darsi a quella confezionata. E ben qui parte la
roulette russa: ce ne sono di due tipi, quelle normali e quelle salate. Quelle
salate sono proprio tremende, infatti le chiamo polydakrua, ovvero dalle molte
lacrime, come Omero definisce la guerra. Sono lacrime amare e sapide in
bottiglia. Indovinate stasera cosa mi è capitato? La Polydakrua, esatto.
Al piano di sopra, invece, ci
sono le stanze, minimaliste ma provviste di tutto.
Ho anche fatto una
lavatrice, gentilmente offerta dalla proprietaria, forse intimorita dai miasmi
che salivano dalle mie borse. Se anche i panni non dovessero asciugare per
domani poco cambia: dopo tre secondi sotto questa pioggia devono stendere pure
me. Manca solo la wifi, ma è il minore dei problemi.
Quando sono arrivata, comunque,
l’idea di potermi finalmente fermare e fare una doccia calda mi ha fatto
apparire il Burtas come una terrena manifestazione del paradiso. Guardate
quanto è bello. Commuovente.
Ma diciamo qualcosa di questa
Ciuvascia, che pare un insulto in milanese. Perché oggi sono proprio nel
territorio di questa repubblica. Come si vede al primo colpo d’occhio, è zona
di agricoltura, allevamento, sfruttament forestale e pure del suolo (torba). La
capitale è Ceboksary, porto sul Volga e sede di mercati agricoli e di bestiame,
che dista da qui dove sono, cioè Shobashkarkasy, nemmeno 20km. Si tratta di una
zona che ha attratto popolazioni ancora pre indoeuropee e poi ondate successive
di nomadi giunti dall’Asia. Gli antenati diretti dei ciuvasci sono gli unni di
Bulgaria e i Suvari, che abitavano nel Caucaso settentrionale. Nella prima metà
del VII secolo sorse, sulle coste del Mar Nero, la Grande Bulgaria, e, da lì,
molti abitanti si spostarono fin dal 670 verso nord, sulle sponde del placido e
ricco Volga. A questi bulgari si unirono i Suvari scappati dall’invasione araba
del primo trentennio del 700 e insieme fondarono la Bulgaria del Volga (fondata
nel 660 da Kotrag Khan e finita nel 1240 sotto le grinfie dell’Orda d’oro, dopo
le battaglie perse contro l’avanguardia dell’esercito di Gengis Khan. Morì
l’80% della popolazione); interessante è che dal X secolo la religione di stato
divenne quella islamica. La Bulgaria del Volga, tra l’altro, controllava la
gran parte dei commerci tra Europa e Asia prima delle crociate, e
mercanteggiava con Vichinghi, popolazioni del nord della Russia, Cina, Baghadad
e Costantinopoli.
I ciuvasci oggi si dividono in
tre gruppi: delle colline, delle praterie e del sud; nel Medioevo erano, come
dicevamo, di fede islamica, ma oggi sono cristiani ortodossi, benché osservino
ancora alcune tradizioni pagane. Parlano, oltre al russo, il ciuvascio, che è
una lingua turca, con tanto di due dialetti (virjal e anatri) e una discreta
letteratura. Qui infatti molti cartelli sono bilingui. E’ una lingua
influenzata dal russo, dal persiano, dall’arabo, dal mongolo e dalle
ugro-finniche. Anticamente si usava la scrittura Orkhon, alfabeto del turco
antico; poi, nel Medioevo, con la conversione all’Islam, l’alfabeto arabo. Dopo
l’invasione dei mongoli la scrittura scomparve. L’alfabeto moderno è il
cirillico con alcune lettere in più, così come è stato creato tra fine ‘800 e
anni Quaranta del secolo scorso.
Insomma, lo dicevo io che la
Ciuvascia è un minestrone, e non solo perché il clima la rende brodosa.
Una nota a conclusione. Questa
foto è stata scattata ieri a Lyskovo a mezzanotte e mezza. C’è ancora il
crepuscolo. A proposito di notti bianche…
“Sii benedetta per quell’attimo
di beatitudine e di felicità che hai donato a un altro cuore, solo,
riconoscente!
Dio mio!
Un minuto intero di beatitudine!
E’ forse poco per colmare tutta
la vita di un uomo?”
(Dostoevskij, Le notti bianche)
DA SHOBASHKARKASY
AD ANDREEVO-BAZARY
Che dire, la Ciuvascia non si è
smentita nemmeno oggi nella sua qualità di brodoso minestrone verde. Questa
mattina il tempo era ancora orribile, con pioggia e vento (favorevole, però, a
giudicare dagli alberi piegati verso est… e dalle manate sulla schiena che ho
ricevuto poi da Eolo in persona per tutto il tragitto). Come sempre qualcuno
trafficava sotto l’acqua battente come se nulla fosse, e senza apparente scopo
nella giornata (o nella vita) se non l’attraversare più volte l’autostrada con
una carriola.
Nei grassi 8 euro di costo della
stanza era compresa anche la colazione: thè e palacinke alla marmellata di
fragole. E barrette e miele aggiunte poi in stanza da me per consolarmi e darmi
la forza di uscire nel temporale.
Ho aspettato un’ora ma la pioggia
non dava segno di voler smettere, e, tra un’occhiata rassegnata e l’altra alla
finestra
Sono uscita.
In realtà, dopo circa un’ora di
acquazzone, ha quasi smesso, salvo poi riprendere negli ultimi 5km, giusto per
darmi una bella spolverata e infradiciarmi di nuovo completamente (e per far
inorridire l’ennesima signora che fa entrare in albergo me e la Signora
grondanti fango).
Oggi è stata una tappa rapida e
piuttosto tranquilla. Strade buone, vento a favore, pochi lavori in corso e
traffico limitato. L’unico problema, con Eolo, è che, quando ti spinge, fa
raggiungere velocità troppo elevate per una bici stracarica che viaggia su
ruotini da un centimetro e mezzo su fondi spesso dissestati; con la pioggia
poi… La Signora sculava come se avessi bucato e spesso tenere il manubrio, tra
raffiche (fino a 70 km/h) e scie dei camion, era impresa ardua, soprattutto sui
sassi o sul bordo fangoso.
Di interessante, lungo la via,
non ho visto molto. Infatti ora vi parlerò delle fermate degli autobus, che
sorgono ogni pochi km, in mezzo al nulla, ultimo avamposto di civiltà prima di
sconfinati prati e boschi, e dei cessetti che ad esse si accompagnano. Ebbene,
io la trovo un’idea geniale. In poche parole ogni fermata ha, alle spalle, una
struttura aperta, senza porte, ma costruita con i muri in modo tale che dalla
strada non si veda dentro. Ci sono rigorosamente due ingressi, uno per gli
uomini e uno per le donne. All’interno c’è un semplice buco nel cemento, che
ovviamente quasi nessuno mira. Però, oh, in caso di estrema e stringente
necessità, come la pipì di oggi, sono una favola ed evita di doversi addentrare
tra gli alberi, con la palta fino alle orecchie e il rischio di non uscirne mai
più.
Il territorio che ho attraversato
è collinare, con estese aree verdi in parte coltivate. Un paesaggio morbido.
Anzi molle. Di pioggia. Lungo la strada si affacciano radi paesini fatti pochi
di blocchi di cemento, per lo più negli anni Cinquanta. Sono veramente dei
buchi di culo, con strade fangose, cani marci e gente obliqua che sciabatta
storta tra le pozzanghere. Gli ingressi ai paesi sono così, come se ci fosse il
cancello d’ingresso, con tanto di gigantesca spiga in ferro perché qui si
produce il grano per il popolo e cartina del paese. Che ha due vie, metti mai
ci si perda.
L’unica città attraversata è la
cinquecentesca Tsivilsk, che ha questo obelisco al centro, sempre
sull’autostrada, che rappresenta i punti di cardinali e le attività umane, come
segno della presenza dell’uomo nel paesaggio. Su maps è segnato come monumento
da 4,5 stelle su 5, io vi avviso.
Pedala pedala sono arrivata alla
mia casa di oggi, che è il motel Anish, nel villaggio di Andreevo-Bazary. In
realtà del villaggio c’è solo il cartello d’ingresso perché qui intorno non si
vedono né case né strade. Probabilmente è un secolo che la gente del posto si
pone la stessa mia domanda: ma dove cavolo è il paese? Boh, fatto sta che sono
in un’isola felice; come ieri, si tratta di una struttura che si affaccia sulla
M7, identica a quella che sorge sull’altro lato della strada: camere, docce e
wc per i camionisti, mini spaccio con prodotti di prima necessità e ristorante
self-service dove ho cenato stasera, con un via vai di umanità fradicia in ciabatte
e tute mimetiche.
Tre cose notevoli: la quantità di
prodotti sugli scaffali del minimarket
la carta igienica Mari Kagaz, perché
non tutte le ciambelle escono col buco,
e il costo della cena: 1,60 euro per due fette di pane lager, un trancio di salmone acconciato a festa col formaggio, insalatina di cavoli, barbabietole con panna acida buonissime e due kili di bulgur (tipo farro, che io associo alla turchia) con salsine varie piccantissime. Ma chi m'ammazza.
Domani lascerò l’umida Ciuvascia
per addentrarmi nel fradicio Tartarstan, di cui parleremo. La meta, infatti, è
Kazan, capitale della repubblica e perla di meraviglia sul Volga. A proposito
di fiumi, domani dovrò nuovamente imbarcarmi su un traghetto perché il ponte
dell’autostrada ha il pedaggio e parrebbe vietato alle bici. Quindi mi dirigerò
pedalando all’isola maledetta di Svijazsk, sede di una fortezza voluta da Ivan
il Terribile per attaccare il khanato di Kazan e poi Gulag, domani andrò alla
scoperta di questo luogo di ombre e acque nere, in attesa di un traghetto, che,
nel giro di due ore, attracca a Kazan, a solo 2km dall’ostello.
Mi sto appassionando maledettamente. Mi sento l'umidita' addosso ed ho voglia di pane nero. Complimenti, bellissimo resoconto e tanta invidia per la tua avventura. Aspetto il nuovo post!
RispondiEliminaCome fai con i guasti, le rotture e le forature? Non credo sia facile trovare i ricambi.
RispondiEliminaLa poesia di Celan è veramente stupenda. E tu sei una persona straordinaria. Sila
RispondiEliminaNo dai la carta igienica Kagaz no!!!
RispondiElimina