Ebbene sì, sono di nuovo in
Russia. Precisamente ad Isilkul’, capoluogo dell’omonimo rajon, nell’oblast di
Omsk, Siberia sudoccidentale.
Non senza un po’ di rammarico e
precoce nostalgiaho lasciato stamattina il Kazakistan per tornare nella
Federazioni; ho così usato il mio secondo ingresso pre-visto dal visto. Ora non
uscirò più dalla terra dei figli di Putin se non per lasciarmela alle spalle
definitivamente. Sarà il 30 agosto e avrò davanti a me la Mongolia.
Questa mattina mi sarei
volentieri alzata “tarda e lenta” poiché la tappa prevedeva solo 63km; certo
con la frontiera in mezzo… Ma poco da pedalare comunque.
Mi sarei mossa con calma intorno
alle 10, non fosse che alle 8 precise il padrone di casa ha deciso fosse ora di
alzarmi; è entrato proprio in camera, bussando solo dopo aver fatto irruzione
con la grazia di un facocero in preda al panico. Fortunatamente ero già mezza
sveglia e sono balzata in piedi sull’attenti, fingendo di esserlo già da gran
tempo. Buongiorno! Buongiorno un cazzo, ma che sono queste maniere da ungulato?
Vieni che facciamo il tè e il caffè. Ah, a che ora vai via?
Questa domanda me l’ha ripetuta,
credo, una trentina di volte nella seguente mezzora. Che ansia. Ma che fretta
aveva? Come se ci fossero state le orde mongole a bussare alla porta della sua
gostinitsa.
Però il brav’uomo si è fatto
perdonare sedendosi al tavolo della sua trattoria a far colazione con me.
Questo è il locale,
mentre quel cantuccio a sinistra
è il “supermercato”.
Finalmente è arrivato il caffè
con panone (che la ragazza al banco, figlia del paron, voleva farcirmi…
Indovinate con cosa? Pescetti. Già), lui tè e curiosità.
Che lavoro fai? Hai
figli? Sei sposata? Quanti anni hai?
Il terzo grado alle 8 del
mattino, in russzako, è qualcosa di psicologicamente difficile da sostenere.
Poi mi ha detto di avvisarlo quando fossi stata pronta, che mi avrebbe aiutata
a portar giù dalle scale assassine la bici. Ovviamente quando è stato il
momento, il brav’uomo era bell’e sparito; è tornato proprio mentre salivo in
sella.
Un po’ di tempo, comunque, me lo
son preso, dopo colazione, saccheggiando le zollette di zucchero russo che ho
trovato nella dispensa.
Questo il panorama dalla camera, con cavalli e
puledrini che andavano e venivano liberamente, per conto proprio, come una banda
di amici in gita.
Questa accanto, invece, è una
scuola me ne sono accorta solo stamattina.
C’è anche il cartello: formano
cuochi, sarti, parrucchieri, giardinieri. Mi piace l’arnese che sta
all’ingresso.
Queste credo siano due proffe.
Fattasi una certa, ho chiuso
baracca e burattini e portato giù tutto, Signora compresa, sentendo la lama del
tristo mietitore ad ogni passo (non ho sceso, dandoti il braccio, il famoso
milione di scale, ma sì, era ugualmente il vuoto ad ogni gradino). Poi ho
oliato la catena e questo ha, senza motivo, attirato l’attenzione di uno, poi
due, tre, cinque, una decina di contadini e meccanici che ronzavano lì intorno
all’officina. Si è creato un vero e proprio capannello di uomini un po’ onti e
sudici fin dall’alba ma bonariamente interessati. A quel punto è tornato il
paron, che, prima di augurarmi buon viaggio, ha sputato il rospo, osando, con
il sostegno di sguardi silenziosi di tutti gli astanti, fare LA domanda. Ma
quelle cicatrici sulle braccia come te le sei fatte? Cadendo dalla bici
naturalmente! E tutti hanno fatto cenni di maschia e virile comprensione.
Bon, saluti, baci no grazie e via
nel vento.
Mi aspettavano circa 40km ancora
in Kazakistan e poi gli ultimi 20 in Russia; la terra degli erranti non si è
affatto smentita nella sua bellezza grandiosa e pacifica, nel suo assoluto
presente di istanti eterni, vecchi come la roccia e rinnovati continuamente ad
ogni nuova gemma, ad ogni nuovo sole.
Quanta meraviglia in questa striscia di
mondo che ho attraversato da parte a parte, ricucendone due lembi come una
passata d’ago. Il mio andare è un filo rosso sottilissimo ma che non si può
spezzare e tiene insieme tutto, è il gomitolo steso da Arianna per sfuggire al
labirinto delle strade, che districa viaggiando, e ai minotauri delle ansie e
delle paure, del timore dell’altro, dell’horror vacui.
Ed eccomi alla frontiera.
Da questa parte, a uscire dal
Kazakistan, è, contrariamente alle aspettative, tutto molto più easy,
tranquillo e anche un po’ arraffazzonato. Avrei detto l’opposto.
Prima sbarra, con fila di chiodi
di 10cm a terra. L’ufficiale che pare cinese tanto ha l’aspetto orientale mi
controlla il passaporto e mi caccia in mano un foglietto. Su la sbarra, giù i
chiodi e si va al secondo check. Vengo spedita in un baracchino fatiscente dove
un altro cinesiforme in divisa mi ricontrolla il passaporto, tira via il
foglietto e ne caccia dentro altri due. Chissà se funziona come la collezione
delle figurine Panini (non il grammatico indiano). Nel frattempo entrano tre
gruppi chiassosi, uno di russi, uno di kazaki e uno di gente che potrebbe venir
dalla Mongolia ma chi sa, qui è tutto un crogiolo di volti. Tutti mi fanno
domande, ma sei un maschio? No, e viaggi sola? Da dove, per dove? E via
dicendo. Io fatico a rispondere perché sono tesa: l’agente non ha ancora
timbrato il passaporto. Che qualcosa manchi? Invece stava solo ascoltando anche
lui domande e risposte. Bim sull’inchiostro, bam sul passaporto e sono idonea a
uscire dal Kazakistan. Fuori dal bugigattolo mi attende un altro poliziotto. E’
anziano, scavato in volto, ha l’espressione impenetrabile. Sembra fatto di
terracotta. Non è che è una delle statue del famoso e misterioso esrcito
tornata in vita? Mi perquisisce le borse in maniera del tutto sommaria e
superficiale, proprio per finta. Una borsa non me la fa nemmeno aprire. Hai
armi? No! Mi ritira un foglietto e proseguo all’ultima sbarra. Lì resto in coda
per un bel po’, visto che l’unico agente addetto è impegnato a perquisire un
pullman in ingresso. La gente si infastidisce, suonano il clacson. Se lo fai a
certe frontiere ti fan passare la voglia di aver fretta. Qui no. E’ tutto un
po’ a buffo, alla volemose bene ma fatece passa’. Torna l’agente, mi controlla
il passaporto, ritira l’ultimo foglietto e mi fa passare (solo me. Chissà
quanti accidenti mi han tirato quelli in coda). Il sollievo di aver concluso il
primo dei due passaggi viene sigillato dal cartello che indica che sono di
nuovo in territorio russo.
Presto la gioia si trasforma in
nuova ansia: non vedo davanti a me alcun posto di blocco e controllo russo.
Solo strada aperta, alberi, campi. La Siberia in tutta la sua estensione.
Nessuna sbarra. Nessun check point. Direte voi: meglio, no?
Eh no, meglio una cippa. Già
fatta la cavolata l’anno scorso, ora ho imparato. In breve: quando si entra in
Russia, se tutti i documenti (il visto, il passaporto, la polizza assicurativa
ecc) sono in ordine, vi viene data la cosiddetta migration card o carta
d’immigrazione. E’ un pezzettino sottilissimo di carta da culo con riportati i
dati del passaporto e del visto; non contiente informazioni aggiuntive rispetto
a quelle che già si hanno; però serve a dimostrare che siete entrati in una
dogana ufficiale, avete passato i controlli e non avete sgamato, non avete
scavalcato il filo spinato di notte e non siete passati in terra di nessuno
attraverso i bricchi per non essere visti. Il problema, infatti, si pone non
tanto entrando, ma uscendo dalla Russia. La migration card vi viene controllata
e ritirata. Ora, come faccio io a sapere tutto ciò? Perché l’anno scorso ho
rischiato una multa invereconda e pure la detenzione. Non avevo la maledetta
cartina da culo. Non mi è stata data e non sapevo di doverla espressamente
richiedere; lo scorso viaggio, infatti, sono entrata nella Federazione dalla
Bielorussia, che è un paese alleato, amico, fratello e compagno di merende
della Russia; alla frontiera non fanno veri e propri controlli, non guardano né
il visto né il passaporto. Nel caso mio l’interazione con gli agenti si era
limitata ai commenti un po’ unti di un poliziotto anziano, grasso e alticcio
che mi aveva toccato le gambe dicendo che ero molto forte. Poi, però, in
aeroporto, ho vissuto un quarto d’ora di terrore assoluto perché, dopo il
controllo documenti, c’è uno step di restituzione migration card. Senza non si
passa. Me l’ero cavata con molto sudore e grandi sorrisi disperati e mi è
andata bene perché ho trovato una signora molto molto buona che finirò mai di
ringraziare.
Ergo.
Oggi quando ho visto che non
c’erano controlli russi mi è salita l’ansia. E mo dove la recupero la migration
card? Devo andare al commissariato di Isilkul, prima città che si incontra? E
se poi mi fanno rogne? Che palle la burocrazia!
Intanto pedalavo piano, pensando
tra me e me a come far fronte al problema.
Con estremo sollievo, dopo circa
due kilometri, ho scorto dei baracchini e delle sbarre. Ah, allora era uno
scherzo! Allora li fate i controlli, allora mo lo sganciate il pezzo di carta
da culo!
Primo blocco, mi metto in coda ma
vedo che la gente passa facendosi alzare la sbarra con un cenno della mano. Uno
dei tizi che mi avevano fatto domande prima mi chiama “Italianski! Italianski!
Migration card!” e indica un microscopico casotto in legno in cui si intravede
il riflesso di un paio di occhiali da vista, unico segno di presenza umana.
Spasiba uomo molesto dalle troppe domande, questa sì che è una dritta utile.
Mi avvicino chiedo la carta e
finalmente me la vedo allungare. Devo compilarla io perché gli occhiali lì
dentro non hanno voglia. Dopo gran frugare nelle mie borse e borselli recupero
una biro e, lentissimamente per non sbagliare (è tutto in russo), compilo
entrambe le metà. Una resterà a me, una a loro.
Ma che bene! Adesso possono anche
perquisirmi il buco del culo. Il visto è a posto, il passaporto pure, la
polizza anche, mo che sono fieramente in possesso della migration card sono
antiproiettile, antisismica e pirofila. Tie’.
Un controllo, due controlli, una
perquisa sempre fintissima, qualche domanda e, nel giro di mezzora, sono fuori.
Libera e bella e con i documenti così in ordine da non sembrare miei,
pettinatissimi e perfetti. Non possono fermarmi in alcun modo per questioni
burocratiche, e questo mi rassicura tanto (perché è un mio tallone d’Achille).
Riparto leggera nel sole, con la
meta ormai vicina, e la Siberia mi riaccoglie così, con tutta questa meraviglia
“così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza,/ con la tua nuvola
di dubbi e di bellezza”.
Un'aquila mi vola accanto. Non sono riuscita a
fotografarla se non da lontano, quando ha deciso di posarsi poi in cima ad un
palo della luce. Ciao aquila, ciao Kazakistan. Arrivederci.
In un attimo sono arrivata alla
meta. Isilkul’, in piena steppa del fiume Ishim. Qui il clima è terribile. Sta
sui -40°C d’inverno mentre d’estate può salire anche a +40°C; è una piana
esposta ai venti gelidi e bollenti, un’enorme distesa che si sbriciola e
riempie di crepe e cicatrici ora per il troppo freddo, ora per il troppo caldo.
Il nome, che pare tolkeniano,
pare derivi dalle lingue dell’Asia centrale e potrebbe significare “lago
incantato”. La città, che è tale solo dal 1945, ha storia brevissima: è stata
fondata nel 1895 come centro di costruzione prima e lavoro poi della ferrovia.
Qui passa la Transiberiana. Dall’albergo, attaccato alla stazione, si sentono i
treni passare, sbuffare e sferragliare a stento nella lunghissima marcia. Sono
nell’unica struttura ricettiva presente, il prestigioso Ostanovis Hostel; se
leggete su internet ci sono solo commenti negativi. Invece è un posto davvero
ben degno: la camera è enorme, ha il bagno privato, la doccia e persino l’acqua
calda. Ha il bollitore, il minifrigo e alla reception la signora è di poche
parole ma così brava e buona e bella da avermi permesso di portare la Signora
in camera, senza strani giri di garage, magazzini e stanzette.
Dopo un po’ di riposo mi sono
lanciata all’esplorazione del centro cittadino. Aveva piovicchiato e, in due
ore, tutto era diventato fango scivoloso e colloso, mannaggia.
Se avete intenzione di visitare
questo luogo, di pura polvere quando asciutto e di pura melma quando umido,
calcolate una ventina di minuti in totale.
Offre infatti: il parco giochi
più triste del mondo, che pare quasi un piazzale per le torture e le esecuzioni
vie più o meno fangose
il monumento ai caduti della
Grande guerra patriottica, che sono tanti e solo nomi muti, ormai
la chiesa
alcuni edifici che un tempo
dovevano avere qualche funzione pubblica ed ora sono negozietti e supermercatini
gli ippopotami atletici e il centro sportivo
la carta moschicida al centro
commerciale
le lunghe attese all’orlo del
non, del nulla che rischia di spalancarsi sotto ai piedi ad ogni passo ed
inghiottirci tutti, come ne La storia infinita.
Calcolate che questa è una delle
regioni della Siberia in cui venivano deportati i prigionieri e gli oppositori.
Ne parleremo più diffusamente domani e dopo, in riferimento ad Omsk, che è il
centro amministrativo della regione ed è nato come fortezza e prigione. Pure
Dostoyevsky è stato qui 4 anni in carcere, dal 1850.
Due cose di quest’oblast sono
interessanti. La prima è che sol l’85% della popolazione è russa; gli altri
sono kazaki, ovviamente, e ucraini e tedeschi. Questi sono i discendenti dei
tedeschi del Volga, in parte deportati qui come contadini forzati, in parte
migrati per cercar fortuna nel commercio di oro, legname e pellicce siberiane.
Ci sono cittadine dove la percentuale di tedeschi è altissima. Assurdo.
La seconda cosa interessante
riguarda la religione. Di musulmani qui non ce n’è praticamente più. Il 35%
sono cristiani ortodossi. Il 40% si dice non ateo ma nemmeno appartenente ad
alcuna chiesa o confessione; il 13% è ateo mentre quasi il 2% della popolazione
(il doppio dei cattolici, per dire) è della religione rodnoveria. Io scopro ora
di cosa si tratta, davvero non si finisce mai di imparare. E’ una moderna e
posticcia continuazione della fede nativa slava, quella religione indigena e
ancestrale che si praticava prima dell’adozione, da parte delle classi
dirigenti, del cristianesimo. I suoi seguaci sostengono che il popolo abbia
sempre avuto una doppia religione: quella cristiana, ufficiale, e quella
pagana, nel privato delle formule giurate al sangue, alla terra e al fuoco. C’è
anche un detto: “La Russia è stata battezzata ma non cristianizzata”. La
rodnoveria, neopaganesimo in maschera, è emersa intorno agli anni Trenta del
‘900, ma si è diffusa in Russia solo a partire dagli anni Novanta, dopo la
dissoluzione dell’Urss. Ha colmato molti vuoti lasciati dall’ateismo di stato.
Inutile dire che si lega inscindibilmente a tendenze di estrema destra,
ultranazionalistiche, conservatrici, antisemite e altre belle cose così.
Insomma, qui tra polvere e
rasputiza cresce anche l’erba cattiva. Speriamo non attecchisca, che già ci
sono gli ultraortodossi a far caciara.
Concludo in bellezza con l’alta
cucina. Tenetevi forte perché qui si va sul pesante. Per la rubrica “Volpi
gourmet” vi propongo la ricetta definitiva del Big Lunch.
La confezione si presenta così
e contiene una mattonella di
noodles secchi, due bustine con aromi e l’equivalente del dado (l’alea iacta) e
una grande con dentro un tocco di carne di brontocefalo con tanto di sughino che è
così saporito che vien voglia di mangiarlo così. Ah, e la forchettina.
Aprite tutto e versate sopra agli
spaghetti alla magna porco.
Intanto mettete l’acqua nel bollitore
elettrico; mi raccomando, questo elettrodomestico non deve essere a norma, deve
perdere acqua sulle prese e fare molte scintille.
Quando l’acqua bolle, versatene
un tot abbondante sul mischione e lasciate che Gesù soffi la sua grazia sul
composto.
Gli spaghetti si gonfieranno a
dismisura e, nel giro di qualche ora, il brodo si sarà raffreddato abbastanza
da permettervi di mangiare senza finire al reparto gravi ustioni.
Attenzione, Il piatto va
consumato sul letto, preferibilmente sporcando un po’ in giro, macchiando i
vestiti e facendo rumori da tubo ingorgato.
Enjoy!
Domani mi attende Omsk periferia,
in zona aeroporto; così potrò entrare in città dopodomani, facendo quasi una
sosta: ho solo 11km, a dispetto dei 136 che mi aspettano tra poche ore. Vi
saluto così. Traslittero la scritta in alto:
LOMBARD / SALIUTI (e baciui!)
Saluti, baci e un sorriso da me. Sila
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