Ogni tanto ci penso anch’io, eh,
che un’impresa del genere abbia un che di folle. Attraversare la nazione più
grande del mondo in bicicletta. Eppure a me pare una cosa così naturale, così
logica anche. L’umanità si è mossa lentamente fino al secolo scorso, siamo
animali costruiti dalla natura per spostarci piano piano, un passo alla volta.
Essendo bipedi, poi, andiamo ancor più lenti di quasi tutti gli altri essere
della terra, dell’aria e dell’acqua. Non siamo fatti per essere catapultati da
una parte all’altra del mondo in poche ore. Ma nemmeno in pochi giorni. E per
quanto il nostro cervello, che è una macchina meravigliosa, ci consenta di
adeguarci alla velocità, di vita e di spostamenti, di informazioni da elaborare
e cose da fare, resta per noi qualcosa di innaturale. Per questo non credo sia
poi così strano viaggiare in bici. Anzi, è un ritorno alla natura umana di
essere lento, che necessita di tempi lunghi per entrare in contatto con ciò che
è nuovo, per farsi permeare da un nuovo ambiente. Ci adattiamo in fretta,
questo sì, ma non cambiamo in fretta. E in questo cambiare considero
l’imparare, lo scoprire, l’affacciarsi a culture nuove, ad anime diverse.
Viaggiare (e non far le ferie). Muoversi in bici è molto più umano, insomma.
Quella che viene considerata
folle, forse è dunque l’idea di esporsi alla fatica e al pericolo.
Ma la fatica si affronta con
l’allenamento, fisico e psicologico (100km non sono altro che 10 piccoli tratti
da 10km l’uno, affrontabilissimi se considerati uno per volta).
Il pericolo, invece, è molto
ridotto se ci si muove nel mondo accorti come l’astuto Odisseo. Il rischio di
farsi male per pura sfiga c’è sempre, ma a casa come in strada. Anzi, la gente
finisce in ospedale più spesso a causa di incidenti domestici che altro. Io stessa
ne sono una dimostrazione: le mie due braccia bioniche sono frutto di cadute
avvenute a poca distanza da casa. Potrebbe stupire, ma è logico. Quando si è in
luoghi noti il livello di attenzione è sempre più basso, mentre in giro si apre
pure il terzo occhio (che è meglio non scoprire dove sia, metti mai che abbia
poi lo sguardo offuscato dalle mutande).
Quindi no, non c’è follia in
questi viaggi.
Che ci sia poi caos, dentro,
quello che serve a partorire la stella danzante, non lo nego. Disordine, ricerca
di un equilibrio, pur precario, su questa tragedia di mondo bellissimo, mentre
il tempo scivola via dalle dita come acqua. Ma questa fatica di adeguarsi
all’ordine delle cose e stare sempre un po’ a margine del sistema è forse
qualcosa di più sano del calarsi completamente nel proprio ruolo di topolino
che corre sulla ruota e aziona il meccanismo.
Vabe’, la smetto.
Parliamo della tappa di oggi.
Questa mattina la partenza è
stata posticipata di mezzora in mezzora a causa dell’ennesimo temporale che
sembrava dovermi perseguitare per tutta la giornata. Invece no. Giove pluvio è
stato gentile e buono, tanto da avermi evitato anche la più piccola goccia
d’acqua per l’intera tappa. Certo, il cielo era ben minaccioso, tanto da
spingermi a pedalare quasi senza soste fino alla meta. Il motivo della tirata
unica, nonostante il vento freddo e contrario e le numerose salite (è zona di
colline, questa) è anche un altro. In 110km avrò incrociato due paesini di case
di legno a esagerare. Qualche benzinaio e… Basta. Boschi, prati, fiori,
estensioni meravigliose di verde cupo fino all’orizzonte… Ma null’altro,
fuorchè la striscia grigia della strada, oggi, per fortuna, anche poco
trafficata.
E’ stato piuttosto straniante, sia per il buio e l’impressione di
muoversi in una fotografia in bianco e nero, sia perché noi europei non siamo
abituati a queste estensioni e a questa mancanza di tracce umane per così tanti
kilometri. Ma è proprio ciò che cerco: distanza, deserto, spazi di natura,
solitudine anche, silenzio. Mi dicono sempre di fare più foto alle persone e non
immortalare solo i paesaggi. Ebbene qui di gente ce n’è poca e di certo non mi
lamento. Ho a che fare con le persone sia come insegnante sia come giornalista,
quindi un po’ di decompressione non fa certo male. Come dico sempre, le persone
sono belle ma se le si osserva una alla volta e magari da una certa distanza,
che non si sa mai. Ho una discreta esperienza nel non aver fatto ciò e averla
sempre pagata cara. Ben, sbagliando si impara.
(chiusa parentesi misantropia)
Dicevo.
Ho pedalato in questi spazi vasti
lasciando correre i pensieri, insieme agli strati spessi di nuvole, godendomi
la vastità e la riposante monotonia del paesaggio, che non si è mai trasformata
in noia, soffermandosi ora su un fiore, ora su un fiume, ora su una corteccia
bianca di betulla, ora su una poiana (o simili… Ce ne sono tantissime e sono
incredibilmente attratte dal caschetto, credo, perché mi girano intorno in
larghi cerchi poco sopra la mia testa).
Mi sono fermata a comprare
l’acqua e a pranzare con miele e barrette in questo lussuosissimo ristorante
con vista panoramica
e poi, nel giro di un’ora, sono arrivata a destinazione.
Parliamone.
La meta di oggi è Vjazniki,
cittadina di 40.000 abitanti affacciata su fiume Kljaz’ma, sulle pendici di una
collina che l’ha resa, fin dai tempi di massimo splendore di Vladimir,
avamposto per la difesa della capitale. Pensate per un momento a ciò che
pensate quando si dice che un posto è in culo ai lupi. Ebbene, eccoci. Ma
peggio, perché il brutto non bastava, bisognava anche renderlo fangoso e
marcescente, in una natura che tenta di mangiare il cemento e viceversa,
creando così un mostro a due teste che si azzannano a vicenda.
L’umanità che ci abita è
vagamente derelitta e storta, soprattutto per le quantità di alcool che
circolano, ma le persone sono anche gentilissime se si chiedono informazioni.
Sempre grazie alla vodka, credo. Qui c’è anche uno dei principali poli russi di
lavorazione del cotone, così, per informazione.
E, sempre per informazione, questa è una sacchettata di zampe di pollo.
La mia casa di stasera è un pregiato
motel (Svetofor) che si affaccia direttamente sull’autostrada. E’ un unico
blocco con: officina per camionisti in difficoltà, docce separate per
camionisti sporchi, stanze per camionisti stanchi e ristorante per camionisti
affamati. C’è anche il parcheggio per i camion un ferramenta che vende pezzi di
ricambio per camion (cui si accede direttamente dal corridoio del motel).
Insomma, i camion. Notare i quadri e le foto appesi alle pareti.
Poi la stanza è dignitosa e non
manca di nulla.
Per la cena, non essendoci
cucinino, mi sono affidata al ristorante della struttura. E’ un self service
simile a quello dei nostri Autogrill, con una buona scelta di portate
assolutamente misteriose e ingannevoli, ma dal buon profumo. Sbagliare è un
attimo e infatti…
L’insalata fredda sono cetrioli,
cipolle e pomodori. Il piatto principale è salmone in carrozzina con
rivestimento coibentato di formaggio fuso, pomodori sciolti e panna acida
(credo). La cosa in basso a sinistra sembrava una zuppotta di verdure cotte.
Invece, era un calesse; sotto allo strato di ortaggi, velo di Maya squarciato, si nascondevano
frattaglie di dubbia natura. Una roba immangiabile pure per me che ho una fame
da volpe a pedali. Tutto questo, più una bottiglia d’acqua e questo buonissimo
gelato Zebra, per l’esagerata cifra di 3 euro. Roba da trasferirsi qui per
sempre e farsi nutrire dalle due rubizze cuoche paffute.
Domani mi attende Nizhny
Novgorod, bellissima perla chiara adagiata su un’ansa del Volga, in cui
confluisce l’Oka (quack!). Finalmente il Volga. Tolomeo di Alessandria, che lo
chiama Rha come lo avevano denominato gli Sciti, scrive che tale fiume ha
sorgente nelle Montagne Iperboree… “Volga cara e dolce madre”, matushka, degli
altri fiumi e della Russia stessa, dicono qui. 3500km di fiume che conduce al
Caspio. Una delle molte meraviglie di questo viaggio.
“Il Volga è la mia patria. Ogni nuovo incontro con questo fiume mi
emoziona; passare sulle sue sponde è come ritornare a casa. Nella vita russa,
il Volga è come il cielo e l'aria. Cantiamo le canzoni che ne raccontano la
storia. Insegniamo ai nostri figli le sue tradizioni e leggende. Il Volga è la
patria dell'audacia, del coraggio e della gloria del popolo.” (Konstantin Fedin)
Va dove ti porta la Volga
RispondiEliminaHo letto e riletto i tuoi pensieri all'inizio di questo post. Mi piace tutto, ma in particolare ciò che dici a proposito di entrare in contatto con un ambiente nuovo " Ci adattiamo in fretta, questo sì, ma non cambiamo in fretta. E in questo cambiare considero l'imparare, lo scoprire, l'affacciarsi a culture nuove, ad anime diverse".Sila
RispondiElimina
RispondiEliminaQuindi no, non c’è follia in questi viaggi.
Che ci sia poi caos, dentro, quello che serve a partorire la stella danzante, non lo nego. Disordine, ricerca di un equilibrio, pur precario, su questa tragedia di mondo bellissimo, mentre il tempo scivola via dalle dita come acqua. Ma questa fatica di adeguarsi all’ordine delle cose e stare sempre un po’ a margine del sistema è forse qualcosa di più sano del calarsi completamente nel proprio ruolo di topolino che corre sulla ruota e aziona il meccanismo.
AMEN