Kanchanaburi-Bang Khem
106km
Questa mattina mi sveglio qui, tra le larghe foglie e i fiori di loto sul fiume Kwai. Ora, che è notte, mi trovo a più di 100km di distanza, a sud, in un motel a ore marcio e laido, proprio lungo la strada, con i gechi che strillano in bagno. Così è la vita, "come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita" per citare Forrest Gump. In mezzo si srotola una tappa che doveva essere molto tranquilla, sulla carta, ma ha portato con sè tutte quelle incognite, nel bene e nel male, cui un viaggio in bici espone.
Stamattina niente sveglia. L'idea oggi è quella di fare una tappa breve, intorno agli 80-90km, e fermarci per via; nulla di specifico da visitare, logistica ridotta al minimo: giusto la traccia che ci porti fuori da Kanchanaburi, in direzione Phetchaburi. Ci fermeremo prima di quest'ultima città, in modo da raggiungerla con calma e visitarla.
I miei piani di calma e tranquillità cozzano con la fretta che ha Gigi di sbaraccare e partire. Ma ormai sono anch'io un Buddha sorriso di pietra con il loto in grembo, e lo lascio brigare e affannarsi, mentre sorseggio il mio caffè, offerto della guesthouse, doppio, annegandoci dentro un buon numero di crackers dolci, anch'esse offerte. Il tutto sulla terrazza con vista fiume.
Un po' più tardi del solito (i Buddha sorriso di pietra con il loto in grembo non hanno fretta) partiamo, in direzione centro storico di Kanchanaburi. La walking street, che ospita gli edifici storici (risalenti per lo più al periodo tra le due Guerre mondiali) è invasa dal mercato del mattino, e il traffico di motorini e mezzi vari costringe a grande cautela.
Nel giro di poco ci lasciamo la città alle spalle, per attraversare il fiume (su un ponte qualche kilometro più a meridione) e portarci proprio ai piedi delle alture verdissime che chiudono l'orizzonte a breve giro.
lampioni a forma di pesce |
dipartimento di Stato del buddhismo? |
Una volta raggiunta l'altra sponda, si procede su una strada deserta che serpeggia lungo le sottane orlate di foresta delle montagne. Il traffico è sparito, e passa solo qualche camion ogni tanto, perchè qui ci sono numerose cave di pietra e ghiaia. Ahimè ci sono pure tanti, tanti cani randagi, a branchi, fieri e mordaci. Tutto questo tratto è veramente funestato dalla loro presenza, e noi siamo costretti a una continua fuga. Che fatica! Ma che ho fatto di male? Vorrei solo passare in pace, senza nulla portare e nulla togliere a questi luoghi.
A rendere ancora più affascinante la zona è lo sconfinato cimitero cinese che si estende per l'intera vallata. Le tombe sono piccole montagnole nei prati, con una sorta di "ingresso" in marmo, con dragoni, nomi, date e foto dei defunti. Le tombe sono di intere famiglie, più o meno numerose. Nel mezzo pascolano gli zebù e le capre. Il punto in cui finiscono le sepolture cinesi e iniziano quelle thai è ben segnalato dalla forma delle tombe: queste ultime sono a forma di chedi colorati, bianchi o oro.
Visto che si affaccia proprio sulla strada, decidiamo di fare una deviazione al Wat Ban Tham, uno dei tanti templi che sorgono all'interno di grotte naturali. Il complesso, nel suo insieme, è davvero grandioso. Oltre ai templi e alle statue a livello del fiume, ce ne sono diversi anche lungo tutto il fianco della collina, uniti da una lunghissima scala a forma di dragone. Dalla "bocca", nemmeno a dirlo, si accede alla grotta sacra. Ormai, dopo un mese da queste parti, riesco a dare un nome a gran parte delle strutture architettoniche, e a decifrare i simboli e i significati delle figure e delle statue. So cosa è un guardiano yaksha, e cosa un naga, so che sugli altari, oltre all'incenso e alle candele, è normale offrire Fanta alla fragola con tanto di cannuccia. So che i Buddha grassi, che poi son monaci panciuti, son di tradizione cinese, e simboleggiano ricchezza, benessere e successo, mentre quelli con le tette gonfie sono thai, perchè il petto grasso anche negli uomini è segno di salute e prosperità. Insomma, mi sento un po' meno analfabeta di qualche settimana fa, e mi fa piacere. Sapere di non sapere mi mette a disagio. Anche il parco del tempio è pieno di cani aggressivi, a parte qualcuno, piccolo, mesto e docile, che accarezziamo volentieri.
Dopo una breve visita, torniamo a tuffarci nelle campagne. I primi 70km di oggi sono in aree rurali senza nemmeno villaggi, solo qualche casa sparsa e un'infinità di templi, statue immense di Buddha in vari stili e e grotte sacre. La strada corre sempre in piano, e si snoda tra campi e colline, canali e risaie, aironi-cicogna e zebubi.
Quando sentiamo l'esigenza di fare una pausa e bere qualcosa di fresco, compare un portale in mezzo al nulla et voilà, siamo sempre in aree rurali, ma molto molto più densamente popolate. Qui è un susseguirsi di paesini, ed un gelato ed un tè freddo non ce li nega nessuno.
Imbocchiamo una strada che corre tra colline aguzze di roccia nuda, tra paesini polverosi e ben lontani dai fasti e dal turismo. Ci sono chedi e templi in costruzione e un'infinità di negozi che vendono vasi e statue in terracotta o ceramica. Ma tante! Ma grandi! D'altronde il confine qui tra statua votiva e arredo, da sacro e puramente estetico, è labile.
da notare le decine di specchietti decorativi che ha il camion -è cosa assai diffusa |
Passiamo da Ratchaburi, cittadona grande e poco interessante, per proseguire verso sud. Quando imbocchiamo uno stradone, il 4, che mena alla Malesia, inizia a piovere. Anche oggi è giorno di monsone. Proseguiamo fino a quando non diventa pericoloso per la scarsa visibilità. Troviamo quindi rifugio sotto all'ampia tettoia di un meccanico e gommista. Prima una ragazza poi una signora vengono a farci domande cortesi, ed entrambe parlano un ottimo inglese. Ci portano anche due sgabelli per farci stare più comodi, ma la pioggia si sta placando e noi, bardati di k-way, siamo pronti a tornare in sella. Mancano solo 13km alla meta, che è un motel lungo lo stradone.
Con una tirata dritta e lesta, siamo al Pop House. Trattasi di motel a ore con stanze che offrono parcheggio auto proprio davanti alla porta. Per maggior riservatezza, il posto auto si può chiudere una tenda, così che, per esempio, una moglie sospettosa, non possa riconoscere la targa di un marito infedele. A sera le stanze occupate hanno una luce rossa accesa sopra all'ingresso, mentre quelle libere una luce bianca. Lanterne rosse, paro paro. E' un postaccio, eh. La doccia è solo fredda, il bagno infestato di zanzare e gechi. Il condizionatore è solo acceso o spento, non si può regolare. E il ragazzo che ci dà la stanza mi dice che non ci sono le chiavi. Ci si può chiudere dentro, ma se si esce, la porta resta aperta. E' già la seconda volta che ci capita, sempre in un motel a ore. Oltre ai molti specchi, in camera è appeso un tariffario. Siccome dobbiamo lavare i vestiti fangosi e puzzolenti, decido di tradurlo con Lens per capire se mai in questo luogo di perdizione offrano pure il servizio lavanderia. Ebbene, no. Sono alcolici, profilattici e beni di prima necessità per l'igiene personale. Quindi tocca uscire a lavare. Vedo che a 200 metri c'è una laundromat. Perfetto!
Invero non si tratta di una normale lavanderia a gettoni, bensì di tre lavatrici "di quartiere". Dovete sapere che qui in Thailandia, molte case non hanno grandi elettrodomestici e la gente, per lavare i panni, o usa la vecchia maniera, l'olio di gomito, oppure si avvale di queste lavatrici "di quartiere", a moneta, tenute in gabbiotti o sotto a tettoie come da noi i cassonetti di condominio, attive 24/7. Noi fatichiamo a trovarle: cerco un negozio, un locale... Non un gabbiotto in lamiera! Ci aiutano i locals a trovarle: prima un omone tutto tatuato che tiene in braccio il figlio minuscolo, di pochi giorni, e poi tre sciure che stanno chiacchierando in cortile, proprio accanto alle lavatrici, con le sedie messe a bordo strada come si usava da noi una volta. Quando scopriamo l'arcano, mi rendo conto che qui non vendono detergente e ammorbidente come nelle normali lavanderie. Allora chiedo alle sciure e una, senza lasciarmi il tempo di capire, inforca il suo motorino scassone e mi dice di salire dietro di lei. Oh, crediateci o meno, io non ho mai messo le terga su moto o motorini. Mai. Mai un mezzo a due ruote motorizzato. Questa è la mia prima volta. Aggrappata alle maniglie dell'amore di una gentilissima signora thai che sfreccia tra stradine scassatissime di campagna fino al negozio della sua amica, un buco pieno di mosche e frutta marcescente, merendine sfuse e prodotti per la casa. Qui, tra personaggi circensi che vanno dal nano più alto del mondo alla donna baffuta (so che è politicamente scorretto, ma capitemi, è successo tutto molto in fretta) mi trovo a comprare detersivo monodose a cifre buffe, quasi nulle, decimi di baht e monetine. E poi via di nuovo in motorino verso le lavatrici. Gigi è rimasto lì interdetto, vedendomi andar via così alla bella. Con l'aiuto delle signore e della nipote adolescente, in uniforme scolastica simil scout, che parla un po' inglese, facciamo partire l'ambaradan, e intanto andiamo a far la spesa e a procacciarci una meritata cena, mentre la porta in teak del minuscolo paesino osserva austera il nostro andirivieni.
Facciamo spesa ai numerosi negozi della vicina stazione di servizio, dove agli Atm di varie banche e alle insegne di catene come McDonald's e KFC si alternano statue di monaci e luoghi per la preghiera. Anche musulmani. Ne sono comparsi da un po' di kilometri, e pure le moschee si sono moltiplicate sensibilmente, come il numero di donne velate. D'altronde, questa strada, la 4, corre a sud, e collega la Thailandia alla Malesia.
Dopo aver risolto tutte le brighe logistiche, dai vestiti (che ora sono stesi ovunque perchè no, non c'è asciugatrice nelle lavanderie di quartiere) alla cena, mi dedico allo studio esatto delle prossime tappe. Con Gigi decido di portarmi sulla costa già domani. Ho prenotato un hotel in centro a Hua Hin, a pochi metri dalla spiaggia. Ho voglia di fare il bagno. Di sentire la sabbia sotto ai piedi. Passeremo per Phetchaburi, visitandone alcuni luoghi salienti (ma non le residenze estive dei re, palazzi otto e novecenteschi che non mi entusiasmano gran che). Poi, per tre giorni pieni, pedaleremo con il mare bellissimo sempre a sinistra, scendendo a sud tra golfi e pinnacoli di roccia a picco sul Golfo del Siam. Davvero, non vedo l'ora!
2/8
Bang Khem-Hua Hin
110km, di cui pedalati circa 66. Gli altri in ambulanza
Caro diario,
oggi è stata una giornata impegnativa e densa, ma non solo come capita di solito in viaggio, quando logistica e novità, incontri e fatica si mescolano. No, no. Oggi la strada ha preso una strana piega quando due tredicenni in motorino hanno investito Gigi a tutta velocità, facendolo volare contro di me, per poi rotolare insieme in un fossato di erba e ghiaia. Caro diario, domani dobbiamo fermarci un giorno in Hua Hin, perchè la bici di Gigi è dal meccanico (che, si spera, possa sistemare la ruota anteriore, completamente deformata). E dobbiamo fermarci perchè siamo tutti pieni di lividi e contusioni, e dolori e strappi. Caro diario virtuale, questa sono io stamattina, con i miei baffi da Zorro (che significa volpe in spagnolo) di abbronzatura deprecabile, piena piena di ottimismo nei confronti degli orizzonti aperti di questo mondo grande e terribile,
e questa sono io alla fine della giornata, brasata, sconvoltina, con l'adrenalina ancora in circolo. Da casa mi chiedono: "Ma tu come stai?". E non lo so, non ci ho ancora pensato. Ho dovuto risolvere talmente tante beghe nelle ultime ore che solo adesso mi rendo conto che sono tutta pestata e dolorante anch'io. Oltrechè stanca, ma tanto. Però siamo arrivati dove dovevamo. Certo, manca una bici all'appello, ma a quella ci pensiamo domani.
La giornata pare partire nel migliore dei modi. Dormiamo poco, come sempre qui purtroppo (caldo, zanzare, rumori molesti dei vicini del motel a ore non aiutano). Ma quando ci alziamo i nostri vestiti sono ben lavati e profumati, fuori splende un pallido ma rovente sole e la tappa, pur non lunghissima (105km) ci offre la possibilità di raccogliere tantissima bellezza lungo la strada. Presto, prima che il traffico si intensifichi, stiamo già pedalando sullo stradone che porta a sud. Ne dobbiamo percorrere solo una decina di kilometri, per poi lasciarlo ed imboccare viuzze di campagna attraverso i villaggi. Salutiamo le alture affilate e i baracchini dei polli arrosto, che già esalano come incenso sacro un profumino invitante, e salutiamo pure le scimmie, che si aggirano tra i boschetti a bordo strada e le piazzole di sosta, in cerca di cibo.
Ben presto siamo di nuovo nel silenzio di campi e risaie, nel frullare d'ali degli aironi e musica lontana che giunge dalle cascine. La pace è interrotta soltanto dal latrato dei cani, che qui sono tanti, e ben pasciuti, e in forze, e liberi di rincorrerci a perdifiato per fare la guardia alla loro casa. I randagi, invece, qui sono pochi, e talmente emaciati e intimoriti da fuggire nell'erba alta al nostro passaggio. Va detto che quelli domestici sono piuttosto obbedienti, e se il padrone è in zona, ne ascoltano i richiami. Mi fa ridere la scenetta che vede protagonista una contadina robusta, un donnone fatto e finito, in pigiama e ciabatte, che richiama i suoi cani solo puntando loro l'indice contro, e con lo sguardo feroce. Sulla t-shirt macchiata, non per altro, c'è la scritta "Gentle woman". Pensa se non fosse stata gentle! In ogni caso l'atmosfera rurale di prima mattina è dolcissima, e di pura pace. Si aprono allo sguardo distese verde chiaro oceaniche, che quasi vanno a confondersi, fradicie d'acqua come sono, con il cielo azzurrognolo e latteo, anch'esso gravido di umidità. Interrompono questo sfumarsi in amore di terra e nuvole solo le palme, linee verticali e scure in un orizzonte che è, nemmeno a dirlo, orizzontale.
Incrociamo anche qualche villaggio di gente sorridente e allegra, che prova gran piacere nel richiamarci con un "hello!". Ci sono i pensionati sulla panchina nel centro del paesino, e contadini che si trovano per caricarsi nei cassoni dei pick up. Le abitazioni denunciano grande modestia, ma anche enorme cura nel tenerle in ordine, pulite ed esteticamente apprezzabili. Anche le scuole e i templi mostrano i segni della medesima dedizione, se non di più: qui la res publica è tenuta in maggior conto rispetto a quella privata.
il pontile LGBT con pescione in un villaggio di tre capanne e otto templi ci risulta piacevolmente inatteso |
La nostra prima meta di oggi è Tham Khao Luang, una grotta che cela un meraviglioso tempio buddhista ipogeo venerato da secoli e amato soprattutto Rama IV, quando era monaco, e da suo figlio Rama V. Per arrivarci si devono percorrere strade sperse tra le colline di questa fertile campagna. Per arrivarci bisogna superare innumerevoli cani guardiani, e altrettante scimmie, macachi per la precisione, pronti a derubare, arraffare e strappare qualsiasi cosa possa loro interessare. Dopo l'esperienza traumatica a Lopburi non mi fido più delle simiae. Mi piacciono tantissimo e passerei le ore a guardarle giocare, arrampicarsi, mangiare e spulciarsi. Ma a debita distanza. Poi i macachi mordono, e hanno zanne affilate. E non sto neanche a enumerarvi l'ampia serie di malattie che possono trasmettere.
Giungiamo all'imbocco della salita per la grotta. Una guardia che staziona presso un gabbiotto ci dice che dobbiamo lasciare lì le bici e arrampicarci a piedi. Dà a Gigi una bacchetta, lunga un metro circa, di acciaio solido. "To protect from monkeys". Chiarissimo. Limpido. Messaggio ricevuto. Saliamo a passo lento, perchè fa caldissimo e l'umidità è tale da farci nuotare nell'aria, tra macachi molto educati che si fanno gli affari loro e farfalle enorme, e altrettanto giganteschi bruchi e vermoni di ogni genere. Ho notato che a volte qui la gente si ferma, pure in mezzo alla strada, scendendo da auto e moto, per raccattare questi brucaliffi un po' schifi e metterli in salvo nei prati. Forse credono nella reincarnazione e pensano che il vermaccio corazzato e lucido sia la loro nonna, forse sono solo gentili. Una volta in cima, paghiamo i nostri 20 baht di biglietti (50 centesimi, 25 a testa) e saliamo per una ripida scalinata che conduce all'accesso della grotta.
Questa si spalanca sotto di noi come una voragine, come mostruose fauci aperte pronte ad inghiottire. Si scende per gradini scivolosi e ripidi, sconnessi e tutti diversi tra loro. Con le scarpe con le tacche d'aggancio ai pedali "è il vuoto ad ogni gradino" per citare Montale. Ma, una volta sotto, si disvela ai nostri occhi la meraviglia. Si tratta di uno dei santuari ipogei più grandi della Thailandia, in un labirinto di stalattiti e stalagmiti che paiono colonne di una cattedrale. Nelle nicchie, ricavate nelle pareti di roccia, stanno centinaia di statue, dorate, nere, bianche, in pietra grezza... Per lo più del Buddha, ma anche di monaci, naga, yaksha... Da un'apertura sul soffitto, che è un crollo di pietre e sassi, una frana di radici, entrano fiochi raggi di luce soffusa, azzurrognola e quasi color argento, che conferisce a tutto un'aura di santità. La luce del paradiso, se ne esiste uno, qualche che sia, è questa. Ci sono pochi visitatori, tutti thai, e un paio di monaci. Uno si occupa delle pulizie, biancovestito, ed è un po' storto (mi ricorda Salvatore de Il nome della rosa); l'altro, nel classico abito color zafferano, sta seduto su un tronetto in legno, statua in mezzo alle statue, e offre consulti ai fedeli. Mi colpiscono il suo tono di voce e la cadenza. Sembrano proprio quelli di un prete cattolico qualsiasi. Mellifluo, impostato, calmo in modo troppo affettato. Tutto il mondo è paese.
Noi ci godiamo la visita, anche perchè qui dentro la temperatura è piacevolmente più fresca. Davvero questa grotta è immensa: ogni camera conduce ad un'altra, e a un'altra, divise da porte e muri artificiali, o da strettoie di roccia naturali. Regna un'atmosfera incantata, magica più che sacra.
il monaco biancovestito, tra le altre cose, parla con le scimmie |
Torniamo ai piedi della collina, rifiutando la profferta della bigliettaia di utilizzare gratuitamente uno scooter. Nè Gigi nè io ci fidiamo del mezzo, e questo sospetto oggi si rivelerà a dir poco profetico. Scendendo, ammiriamo una vista su Phetchaburi, città dove ci stiamo dirigendo ora, che dista solo 4km e merita una visita durante la pedalata.
Davanti a noi si riconosce distintamente il Parco storico di Phra Nakhon Khiri in cima alla Khao Wang (Collina del Palazzo); con sobria opulenza, un'enorme reggia e decine di edifici collegati, misti di stile architettonico (euro-sino-thailandese) dominano la città da quando Rama IV, nel 1859, si fece costruire questa residenza di riposo per quando non si trovava a Bangkok; da qui poteva anche coltivare in santa pace la sua passione per l'astronomia. Le alture circostanti sono dominate ciascuna da uno stupa (il più altro è di 40m) e danno una forma inconfondibile al profilo delle colline.Noi ci dirigiamo in centro città. Ora capisco perchè, pur avendo l'atmosfera della cittadina di provincia, con i suoi mercati puzzoni e le sue antiche shophouse in teak, viene definita "Ayutthaya vivente": è un susseguirsi quasi ininterrotto di templi opulenti, coloratissimi, giganteschi e sontuosi al limite del kitsch, o anche oltre il limite. A Phetchaburi, o Phetburi come la chiamano i locals, si possono trovare tracce di tutti i regni che si sono succeduti nel corso della storia del Sud Est asiatico. Nell'XI la regione era in mano khmer, poi divenne avamposto strategico per i regni di Sukhothai e Ayutthaya; nel XVII secolo divenne snodo di commerci tra quest'ultima e i birmani. E la buona sorte ha voluto che qui, pur nel succedersi di poteri e potentati, la guerra non è giunta a distruggere tutto. Per cui gli edifici storici si sono conservati in modo impeccabile. La nostra prima tappa è il Wat Mahathat Worawihan. candido e imponente tempio proprio in centro, cui giungiamo facendo lo slalom tr ai macachi (da dopo il Covid le scimmie hanno letteralmente invaso la città, mentre prima si trovavano solo nelle foreste sulle colline; ora nessuna bancarella di street food e nessuna busta di plastica che sa vagamente di cibo è più al sicuro).
Il pezzo forte del tempio è il prang, stupa a forma di pannocchia in stile Ayutthaya, alto 42m e decorato con fregi in stucco che sono la specialità degli artigiani di Phetchaburi (infatti se ne possono apprezzare anche su altri edifici). Il santuario è decorato con dipinti mirali del XX secolo. Mi affascina sempre assistere alle cerimonie di dono delle offerte, ai monaci e alle statue; qui ci sono anche delle simil macchinette da videolottery in cui metti il soldino e ti viene dato uno scontrino dei meriti acquisiti. Altro che banchieri tedeschi ai tempi di Lutero!
Per altro giungiamo all'ora di pranzo dei monaci, che sfilano nei loro abiti arancioni muniti di ciotolona in metallo da fasi riempire di riso bollito.
questo monaco sembra di cera ma è in carne ed ossa, e lo si capisce quando, annoiato, inizia a spippolare lo smartphone |
Fuori dal tempio è tutto un mercatino di bancarelle di fiori e ghirlande profumatissime, incenso e candele, ofrendas, popcorn e bibite colorate, ovvero tutto quello che è lecito porre sugli altari.
Ci spostiamo dunque al Wat Yai Suwannaram. Si tratta di un tempio fondato alla fine del periodo di Ayutthaya ed è decorato da dipinti settecenteschi, cioè antichissimi per i parametri thailandesi. Purtroppo gli edifici sono in restauro e non si possono visitare. Ci limitiamo ad apprezzarli dall'esterno, per poi ripartire dritti come fusi verso est. A 15km dalla periferia di Pethchaburi c'è il mare, e io da giorni non vedo l'ora di arrivarci!
La strada che conduce alla costa è pianeggiante e aperta: le alture restano alle spalle a segnare il confine con il Myanmar. Spariscono le ultime case, spariscono i chioschi che sanno di estate e spiagge, e restano solo pagode abbandonate, saline ormai invase dalla sterpaglia e dagli zebu, e un cielo grigiastro e rovente che mi ricorda quello messicano dello Yucatan.
Poi eccoci, ci siamo. Si sente lo sciabordare delle onde che si infrangono sulla battigia. Tra cespugli e dune si intravedono tratti aperti di costa. E ogni insenatura ospita un porticciolo di barche così colorate da sembrare cerimoniali, come quelle che si usano in certe regioni nostre per le rievocazioni storiche e le processioni in mare. Compare anche una pista ciclabile tenuta in modo impeccabile, che costeggia una strada a traffico quasi zero. Questa non è una zona turistica, chi ci abita fa ancora il pescatore. E vende il pesce, tra le mosche a nuguli, lungo la strada.
Mancano ormai meno di 40km alla meta, Hua Hin; facciamo una breve sosta gelato e acqua fresca, e ripartiamo. Poi accade tutto in un attimo. Stiamo pedalando sulla sinistra (lato giusto qui che han guida all'inglese) della pista ciclabile. Io davanti, Gigi dietro, leggermente sovrapposto, a metà della bike lane. Strada deserta da kilometri. Stiamo chiacchierando, parliamo delle neurotossine delle cubomeduse, delle spiagge paradisiache che ci attendono e delle barriere coralline. Passiamo davanti ad una scuola ben grande, come sempre sovradimensionata rispetto a quel che sono i paesini intorno. Vedo due ragazzini, tredici anni circa, in sella a un motorino. Escono dal cortile della scuola, imboccano direttamente non la strada, ma la pista ciclabile. Quello che guida è voltato indietro, verso l'amico, che ride a occhi chiusi. Non ci vedono, non guardano nemmeno. Di bici, in effetti, non ne passano mai. Tranne oggi. Oggi stiamo transitando noi, proprio in quel momento. I due preado motorizzati si piazzano proprio in mezzo alla pista, e, a pochi metri da noi, danno una bella sgasata per accelerare. Gigi pure è distratto, non si aspetta che un motorino modificato stia imboccando a 80 all'ora la ciclabile, per di più stando nel mezzo. Io ho la netta percezione, per una frazione di secondo, di ciò che sta per accadere. Vedo loro che non si accorgono di noi. Con la coda dell'occhio percepisco Gigi accanto a me, e non dietro, schiscio e in parte per evitarli. Urlo, ATTENZIONE!, per far spostare Gigi e far aprire gli occhi ai ragazzini. Loro si impanicano, sbandano, e poi sento clangore metallico, Gigi che grida e la ghiaia nella carne. Sono caduta. Nonostante le tacche, mi trovo sganciata e sbalzata via dalla bici, nel fosso (per fortuna un po' erboso) accanto alla pista. Mi alzo di scatto, l'adrenalina alle stelle. Gigi è a terra, vedo sangue sulla fronte e sulle gambe. Anche i ragazzini sono a terra, tra i resti smembrati della carrozzeria del loro mezzo. Uno dei due sanguina dalla fronte, l'altro si è solo strappato i vestiti. Lì per lì mi rivolgo a loro in inglese, dico che chiamo l'ambulanza, e la polizia, che aspettino. Ma loro, lesti, tirano su quel che resta del motorino, giungono le mani davanti al viso, fanno un inchino, sussurrano "Sorry" e scappano sgasando. Dico a Gigi, che intanto si è alzato e vagola un po' perso, di fare una foto alla targa, ma non facciamo a tempo. Li insegue però un uomo in moto che ha visto la scena. Chiamo la polizia turistica. Spiego. Mi dicono di contattare l'ambulanza, non loro. Grazie al cazzo! Intanto escono dai cortili intorno alcuni che vivono lì, e mi dicono che stanno chiamando loro l'ambulanza. La polizia meglio di no, a quanto pare. In effetti ho sentito storie un po' losche riguardo alla polizia thai, con i turisti... Passa per caso un agente, in motorino, e, pur vedendo chiaramente la situazione problematica, fa finta di nulla e passa oltre. Escono anche, dalla scuola, adulti che individuo come insegnanti (oh, colleghi, grazie al cielo ci siete voi!), personale Ata e persino la dirigente. Poi pure alunni più grandi, come di ultimo anno di scuola superiore. Sono tutti di una gentilezza e di una disponibilità incredibili. Parlano anche abbastanza bene inglese, quindi riusciamo a intenderci. Intanto arriva altra gente, si fermano auto di passaggio, si crea quasi una folla. Ma non sono curiosi, sono buoni samaritani che vogliono dare una mano.
Dalla scuola portano il kit di pronto soccorso e disinfettano e medicano un po' le ferite di Gigi. Non sono profonde ma sanguinano: ginocchia, testa, un piede. Lui è scosso, si vede che non è in sè del tutto. Continua a volersi alzare, e tutti, io per prima, continuiamo a dirgli di stare seduto tranquillo. Gli fanno anche ombra con un ombrello, e dico che gli stanno offrendo un trattamento da re. Ridono tutti, chè io posso dirla questa cosa del re, e loro un po' meno. Mi spiegano che sta arrivando l'ambulanza. Chiedo che ci portino all'ospedale di Hua Hin, che sarebbe la meta di oggi, dove ho già prenotato una stanza in guesthouse. Per esperienza, oltretutto, so che, in caso di problemi del genere, è meglio essere in una città grandina, con farmacie e medici e servizi, piuttosto che in un ambulatorio arrugginito in un villaggio dove a malapena trovi l'aspirina. Intanto verso a Gigi acqua fresca sulla testa e sulle zone pestate, che stanno iniziando a gonfiarsi.
Alla mente, affastellati, mentre si affacciano i pensieri più cupi: e se ha rotto il polso, che ora è gonfio come un salsicciotto? E se si è lesionato il ginocchio, ferito e grosso come un melone? E se ha battuto la testa ed ha un trauma cranico? Il casco è andato in pezzi, che raccolgo e riassemblo. Bisognerà fargli un monumento, un chedi, uno stupa pannocchia. Certo è che ora deve fare dei controlli per capire cosa è successo con questi traumi. Passata la prima botta di adrenalina, cominciano a emergere anche a me dolori e dolorini. Mi accorgo che ho entrambe le ginocchia sanguinanti e piene di terra, e le mosche stanno banchettando. Benedetto il giorno in cui ho fatto il richiamo dell'antitetanica. Il ginocchio destro gonfia, non si piega, non riesco ad appoggiarci il peso. Il pantaloncino, a sinistra, è incollato alla carne in modo sospetto. In effetti è tutto abraso, pesto e mescolato: tessuto e pelle. Idem il guanto, con anulare e mignolo, a destra. Per fortuna i miei gomiti sfigati sono illesi. Quante divinità di tutte le religioni han guardato giù! Andremo a stappare una Fanta a ciascuna di esse, domani. Intanto l'inseguitore in moto riporta sulla scena del crimine i due ragazzini, che hanno le orecchie più basse degli zebu, e vengono medicati e cazziati dal personale della scuola, che intanto si scusa con noi, e li costringe a scusarsi di nuovo.
Mentre aspettiamo l'ambulanza, mi accorgo che la ruota di Gigi ha una forma sbagliata, una forma da non-ruota. E' una S. Non gira neanche pregandola. Il cerchione è deformato in modo orrendo. Per fortuna pare sia l'unico danno vero. La mia, incredibilmente, pare illesa.
Arriva l'ambulanza. Inizialmente dico a Gigi che vada lui in ospedale, io mi occupo di portare le bici in guesthouse e poi lo raggiungo. Ma gli infermieri, quando capiscono che Gigi non parla nè thai nè inglese, mi impongono di salire con loro e accompagnarli in ospedale. Intanto mi fanno mille domande su di lui: età, problemi di salute pregressi (e qui si apre un mondo intero, tra i suoi 7 stent coronarici e le altre amenità), farmaci che prende (altro cinema) e via così, mentre lui è in stato confusionale sulla barella. In tutto ciò devo trovare una soluzione per le bici. Hua Hin è a 40km da qui, non posso lasciare tutto incustodito in mezzo alla strada. La preside, gentilissima, mi dice che possono occuparsene loro. Chiedo dunque che portino la mia bici e tutti i bagagli (che ho raccolto perchè sparpagliati in giro a terra) alla guesthouse (lascio l'indirizzo); e quella di Gigi, se possono, direttamente da un meccanico bravo di Hua Hin. Mi chiedono anche quanto costa una ruota così. Dico 100 euro, 4000 baht (che è pure una cifra al ribasso). Tutti reagiscono in modo iperbolico, chi sgranando gli occhi, chi ridendo in modo isterico, chi facendo un'espressione incredula. Certo, qui son due mesi di stipendio, ma chettedevodi'. Mi auguro, anche se tutt'ora non ne ho la certezza, che questa loro premura sia perchè intendono contribuire, anche solo simbolicamente, alle spese di riparazione. In ogni caso va tutto un po' sulla fiducia, anche perchè lì per lì non ricordo il nostro numero thai e quindi non ho modo di restare direttamente in contatto con qualcuno. Ma è ora di salire in ambulanza: hanno finito di medicare i ragazzini e si va in ospedale. Anzi, no. Prima noto la testa di un simil-fagiano morto che spenzola fuori dal cofano dell'ambulanza. La fotografo. L'autista se ne accorge e, da sopra alla mascherina, da sotto agli occhiali, fa un'espressione tra l'orrore e il disappunto. Infila i guanti di lattice ed estrae la povera bestia defunta, che è grossa come un tacchino. Fa per buttarla nel prato a bordo strada, ma gli si fa incontro quello che credo sia un bidello, con un sacchetto di plastica trasparente, dove il pollastro viene depositato. E poi si parte. Io davanti, accanto all'autista, e Gigi dietro con un'infermiera.
Una volta in ospedale mi tocca compilare duemila scartoffie con tutti i dati di Gigi e pure i miei. Dopo l'accettazione andiamo a fare il triage in Pronto Soccorso. Altre mille domande, scartoffie, dati. Intanto gli misurano pressione e battiti. Il suo polso e il ginocchio non hanno per nulla un bell'aspetto, sono gonfissimi, ma riesce a muoverli... Speriamo in bene! Se son rotti, per lui il viaggio finisce qui e per me più o meno anche.
Abituati ai tempi di attesa del nostro Bel Paese, ci mettiamo comodi ad aspettare, pensando di dover passare qui tutto il pomeriggio e tutta la notte. Intanto transitano una pletora di anziani anzianissimi già mummificati da vivi, ossa coperte da pelle di cuoio, rattrappiti e dal respiro rantolante. E poi ragazzini e giovani con braccia e gambe rotte, palesemente in incidenti in moto o baracchini a motore, bambini febbricitanti e operai feriti e affettati in vario modo, con pezzi di dita dei piedi, lobi e falangi avvolti in fazzoletti insanguinati. Il personale dell'ospedale è celere e perfettamente organizzato. Questo flusso costante di umanità dolente viene gestito, soccorso e direzionato in modo immacolato. Inoltre, pur in una struttura semplice, pare tutto ben pulito. Il timore di uscire da qui con quattro malattie esotiche e tre rare resta, ma ci penseremo poi. In nemmeno venti minuti ci chiamano per entrare nello stanzone del pronto soccorso, dove una schiera indaffarata di medici e infermieri in camice azzurro, blu o bianco si occupa di una ventina di pazienti per volta. Gigi riceve una prima visita generica. Poi viene portato a fare le radiografie (una al ginocchio e due al polso). Poi un medico esamina i referti e ci dà la buona notizia: nulla di rotto! Tiro un sospiro di sollievo.
Il medico, molto giovane, appare però seriamente preoccupato per il gonfiore al ginocchio. Gigi non lo è: è una sua normale reazione alle contusioni. In più non gli danno il suo amato ghiaccio anti-infiammatorio, che lui usa come panacea. Anzi, le volte che provo a chiederlo, mi guardano come se fossi pazza. Pensano inizialmente di siringarlo e asportargli del liquido, ma poi optano, dopo un ulteriore consulto con un ortopedico, per una fasciatura morbida con bende elastiche e un supporto in garza spessa. Poi ci dicono di tornare tra una settimana a togliere la fasciatura e fare un controllo. Gli spiego che dopodomani non saremo più qui, e allora mi scrive a pc un foglio da dare al medico di un altro ospedale. Che cuore! Gigi viene dimesso, dopo esser stato ripulito, disinfettato e insaccato. Gli danno anche dei farmaci con prescrizione in inglese (sono Tachipirina e Brufen versione thai, molto leggeri nei dosaggi dei principi attivi). Viene il momento di pagare. Onestamente, temo il peggio: 40km in ambulanza, tre radiografie, due consulti medici, il bendaggio e i farmaci... Poi so che qui in Thailandia per gli stranieri le cifre della sanità sono da capogiro... E invece il tutto, gestito nell'arco di nemmeno tre ore, costa 51 euro. Un nulla! E comunque anche Gigi è assicurato, ovviamente.
Usciamo dall'ospedale, che vedo ora da fuori (è gande e pare piuttosto nuovo) alla ricerca di un taxi per raggiungere la guesthouse. Ho fretta di assicurarmi che i bagagli e la mia bici siano giunti a destinazione. Ma di taxi o mezzi simili non c'è ombra. Allora mi avvicino al gabbiotto della guardia del parcheggio e... Dentro vedo le borse di Gigi, mentre dietro, appoggiata, la mia bici carica. Oh cielo! Che bene! Ma che problema, anche! Ora serve un taxi grande, oppure che Gigi vada da solo e io pedali (ma ora le botte si fanno sentire tutte, e non riesco nemmeno a piegare un poco il ginocchio). Allora chiedo in un mix di lingue al guardiano del parcheggio dove si possa prendere un taxi per andare in centro a Hua Hin (circa 4km da qui). Lui, gentilissimo, chiama un tizio (probabilmente un suo amico) che si palesa qualche tempo dopo con un pick up. In quel "qualche tempo dopo" ci sta che Gigi mi dica che anche la mia bici ha i freni distrutti, e io mi inalberi perchè, dopo un paio di occhiate, capisco che semplicemente il manubrio è girato di 360 gradi, e quindi i cavi sono tutti tesi male, e vedrai con funzionano. Ma basta rigirare il manubrio et voilà, Signorina Felicita come nuova. Chiedo a Gigi di dirmi solo cose che riguardano il suo stato di salute oppure buone notizie. Altri problemi, per qualche ora, non ne voglio sentire.
Raggiungiamo la guesthouse in modo fortunuoso. Il taxista non sa usare alcun tipo di navigatore, parla e legge solo thai e non conosce la città. Lo guido io, dal sedile posteriore, a gesti, con il braccio e la mano, segnalando svolte e incroci. Che fatica. Davanti all'albergo quasi investe una famiglia di tre su un motorino, facendo una retro alla cieca. Poi però ce la fa a lasciarci all'indirizzo corretto. Scarichiamo bici e bagagli e faccio check in. Per fortuna il ragazzo della reception è gentilissimo, e ha pure un appunto sul bancone: ha chiamato prima il negozio di bici dove si trova quella di Gigi, e gli hanno chiesto di richiamare domattina, perchè attualmente ci stanno lavorando. E ha pure un biglietto da visita del negozio in questione, che è dove il personale scolastico ha portato la bici ferita. Si trova qui a 300 metri, direi OTTIMO. Mentre porto dentro le borse, incrocio due cicloviaggiatori tedeschi (Monaco lui, Francoforte lei) che sono in viaggio da due anni. Sono stati in tutta Europa, poi in Nuova Zelanda e Australia, poi mesi fermi a Bali, dove lui, a causa dell'inquinamento, ha avuto problemi ai polmoni, e ora sono partiti da Singapore per risalire fino al Vietnam. Mi chiedono se è vero che al nord piove. Sì, è vero, perchè qui verso sud no? No! Oh, che bella notizia. Chiacchiero un po', mentre Gigi si mette tranquillo in stanza. Tra l'altro anche oggi ho visto l'alloggio nel quartiere delle signorine allegre. Intorno all'hotel ci sono solo localacci bui che propongono alcolici e compagnia per ogni gusto più uno. Mentre finisco di portare dentro le cose, vengono continuamente richiamata a urletti da alcune di queste fanciulle. Le ignoro. Ma poi capisco che mi stanno dicendo che ho dimenticato la sacca con la tenda in mezzo alla strada. Grazie ragazze! Ad offrirci servizi di vario genere ci pensano le loro colleghe più tardi, quando usciamo a mangiar qualcosa, dopo una doccia e varie medicazioni.
Per cena ci concediamo un ristorante sul molo, proprio sull'acqua del mare che, alla fin fine, oggi ancora non ho visto come si deve. Ma si sente. Mormora sotto di noi, ora. E l'aria sa di sale ed è fresca e più leggera del solito. In giro ci sono molti farang anzianotti accompagnati da giovani thai. Quasi tutti sono già alticci, e si capisce dal tono incontrollato della voce un po' trascinata.
Gigi rassicura amici e parenti (ora sta meglio, anche emotivamente) e, nel baluginio delle luci lontane riflesse sulle onde, mentre qualcuno canta in spiaggia accompagnato da una chitarra, noi ci scofaniamo pad thai con gamberi freschi, riso fritto di pollo e verdure e una vasca di morning glory, per sicurezza.
Ce ne torniamo quindi in guesthouse, tra i richiami delle fanciulle della notte, un po' zoppi e storti. Domani staremo, per forza di cose, fermi qui a Hua Hin. Gigi deve riprendersi, io devo capire come sta la sua bici. E poi anch'io non disdegno un giorno di sosta, tutta pestata come sono. Magari in spiaggia. Sicuramente in spiaggia. In mare. Mi meno dietro la maschera da quando siam partiti, è ora di usarla! Poi vedremo come gestire i prossimo giorno. Io sicuramente dopodomani riparto in sella. Gigi deve capire se se la sente o meno. Se preferisce non pedalare, gli organizzo i trasferimenti di giorno in giorno, come è già capitato in Messico quando si è ammalato della maledizione di Moctezuma e l'ho spedito in pullman a destinazione, per poi pedalare la tappa in solitaria.
3/8
Hua Hin
Quella di oggi è una giornata di riposo e ripresa, recovery day, e riorganizzazione. Ci sono molte incognite, ma riesco a navigarci sopra con legno leggero, e a non affondare nei dubbi. Voglio godermi questa prima vera giornata di mare e spiaggia, che è capitata così, per caso, per sorte. Non dirò s-fortuna. Le cose accadono, siamo noi a interpretarle come liete o funeste, a mettere un segno positivo o negativo davanti alla cifra assoluta. Ieri notte ho scritto fino alle 3. Avevo ancora tanta adrenalina in corpo, e per smaltirla ho raccontato. Magia della parola, che può essere veleno ma anche medicina. Pharmakon, dicevano i greci. Che significa entrambe le cose. Chiedo a Gigi di non svegliarmi domattina, e non punterò la sveglia. Tanto non abbiamo nulla di programmato, niente di specifico da fare. Solo attendere che tutto guarisca e si ripari, i corpi e la bici di Gigi. Mi sveglio alle 9.30. Alle 9.40, dopo essermi sincerata che Gigi stia bene, o almeno non peggio di ieri (ed è così) sono già in strada. La gentilissima signora della reception mi dice che poi mi porterà in motorino dal ciclista, ma di motorini non voglio più saperne nulla per un po'. Dista meno di un kilometro, ci vado a piedi. Devo capire se la bici è davvero lì, se è stata già riparata, o se c'è da aspettare, e quanto. Poi devo recuperare per Gigi la colazione e i viveri per la giornata (non vuole, giustamente, uscire, e preferisce stare a letto a riposare). E una pomata tipo Voltaren da applicare sulle numerose contusioni. E del ghiaccio, che ieri non ha voluto comprare perchè al 7-eleven, dove vendono le buste da kilo, faceva freddo a causa dell'aria condizionata folle, ma lui pensava di avere la febbre e si è sentito male dal panico e quindi mado' che pazienza. In ogni caso prima di tutto, prima di qualsiasi altra cosa che possa succede, bella o brutta, io devo vedere il mare. Devo, non voglio. E' un imperativo categorico, una questione morale. Devo. E allora vado in spiaggia, in una Hua Hin che si sta lentamente svegliando dopo i rumorosi bagordi notturni. Prima mi compare a listarelle tra i pontili dei ristoranti,
poi eccolo, tutto intero, ampio, sconfinato e vasto come i desideri e la paure. Sembra il nostro mare d'inverno con questa luce grigiastra. Ma fa caldo, caldo tropicale da guazza, e questo fa tutta la differenza. Per ora non c'è nessuno, nè sulla spiaggia nè ai pontili. E' estate pure qui, e pure qui siamo in una località vacanziera. In centro tutto parte lentamente e con calma. Ci sono alcuni barchini coloratissimi di pescatori sulla spiaggia, con le ancore gettate nella sabbia chiara costellata di conchiglie di ogni genere. Penso a quella bella poesia di Arminio che recita:
Tu non hai cancelli,
intorno a te solo paesaggio.
Si può arrivare a casa tua seguendo
un filo di vento, l'odore del mare,
i passi di un gatto,la luce di una stella.
Dopodichè mi porto dal meccanico ciclista dove so che si trova la bici di Gigi. La prima impressione è di disappunto: è un grande negozio più sul marciapiede e sulla strada che dentro. Vende scooter elettrici, motorini, monopattini, bici per bambini... E solo dopo questa schiera di oggetti che con il ciclismo condividono solo il numero di ruote, ecco qualche bici vera, di marchi ignoti (forse cinesi) ma con componentistica che sembra decente. Vedo freni a disco anche idraulici, telai che paiono i fibra di carbonio... Insomma, qualcosa c'è. Inizialmente la signorina che mi riceve non capisce cosa io voglia, poi le mostro le foto dell'incidente, dove si vede la bici, e mi porta ad assistere allo scempio. Il possente mezzo di Gigi non è più mezzo, è un quarto, un ottavo, una fraziona piccola. La ruota anteriore è a forma di serpente Naga. Il portapacchi a forcella ha una forma curiosa, sembra un'architettura di Gaudì. Il manubrio è spelato, anche la ruota posteriore non sembra messa benissimo. I danni sono maggiori di quel che ieri mi era parso. Chiedo alla ragazza quanto pensano ci voglia a sistemare tutto, e lei mi dà una notizia terribile: 3 giorni. Tre giorni! Ma è un'enormità! Noi tra tre giorni saremo sul traghetto per Ko Tao! Le chiedo se posso parlare con il meccanico. Ci sono tre ragazzini che stanno lavorando, ma sono come garzoni. Lei chiama "the boss", e lui mi ribadisce: tre giorni. Ribatto: ma non state a riparare sto disastro, mettete su dei cerchi nuovi e fine della storia! Che ci vorrà mai? Lui mi dice che va bene, si può fare, ma comunque per domani sera al più presto. Sfodero la mia faccia da culo da farang di merda, e gli rispondo che no, non ci siamo proprio, ora porto via la bici e la faccio riparare da qualcun altro. Mi serve per domattina. Lui, esasperato, acconsente. Domattina alle 10 sarà pronta. Tiro un sospiro di sollievo. E' un orario un po' tardo, se si vuol pedalare oltre 100km. Ma non credo che Gigi potrà stare in sella. Penso quindi che posso accompagnarlo domattina a ritirare la bici, caricarlo su un treno, un bus o un van (esistono tutte e tre le opzioni) e spedirlo alla meta. Poi raggiungerlo in bici pian pianino. Lo aggiorno a vocali, intanto in farmacia mi faccio dare il Voltaren da frontale con motorino, e poi faccio spesa per la colazione mia e di Gigi, e per lui aggiungo un po' di generi di conforto per la degenza forzata in guesthouse. Torno, tutta contenta di avergli portato una fetta di torta strabuona e altre leccornie, e mi accoglie con un "Ho perso il passaporto". Se è vero che le bestemmie sono una forma di preghiera, per me le porte del paradiso sono già spalancate. In realtà il documento è sotto al suo naso, nel solito posto, nel luogo più ovvio del suo borsello. E per fortuna, aggiungerei. Per un attimo ho temuto lo avesse perso in ospedale. Anti infiammatorio, antidolorifico, pomata, ghiaccio, e intanto gli spiego come possiamo gestire la logistica dei prossimi giorni. Poi prenoto l'albergo per domani, a Prachuap Khiri Khan. Per una persona o due, il prezzo è il medesimo. Posso scegliere per i 7 euro di camera normale, o 9 di suite con balcone sporto sul mare (la struttura si trova proprio sulla spiaggia). Mi concedo la seconda. E' un modo per cominciare a segnare i punti fermi e diminuire il numero delle incognite.
Avrei sonno ancora e voglia di pisolare, anche perchè camminare fa emergere tutti i dolorini e gli acciacchi, ma nel frattempo è uscito un sole aperto, e il mare mi chiama con la sua voce antica. Costume, crema solare, ciabatte, asciugamano e via che si va ad esplorare la costa di Hua Hin. Questa città fino a qualche decina di anni fa era una delle località balneari più note della Thailandia, nonostante non offra i paesaggi idilliaci di altri luoghi da favola pure poco distanti. Non ha barriere coralline scintillanti di colori, nè isole remote orlate di palme. Ma nel 1911 la ferrovia giunse a collegarla a Bangkok, e alcuni membri della famiglia reale iniziarono a costruirvi le loro residenze estive. A metà anni '20 Hua Hin era una staziona balneare attrezzata, frequentata dalla nobiltà della capitale, con tanto di campo da golf (che è a due passi dalla nostra guesthouse, che infatti si chiama Golf-sea-city) e albergo di lusso con ristorante diretto da un europeo. Rama VI e Rama VII vi fecero costruire i loro palazzi estivi, ed uno di questi è ancora un'abitazione sfruttata dalla monarchia thai. Qui Rama IX, il padre dell'attuale sovrano, trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Il lato positivo è che, nonostante il giro di affari che il turismo muove, la città non si è snaturata del tutto, trasformandosi in un mix tra ambiente urbano e stazione balneare, rifugio di artisti apprezzabilissimi (ci sono davvero tante gallerie d'arte, e spesso si vedono i pittori all'opera) e luogo di perdizione tra droga e puttane, mercati tradizionali di pescatori e ristoranti di cucina internazionale (infiniti italiani, ma pure tedeschi, olandesi, scandinavi, brasiliani, argentini... Un melting pot culinario!). La città vecchia conserva le sue radici di villaggio di marinai con shophouse in teak scolorite dalla salsedine, angusti soi, case lungo il molo, pontili di pescatori, baie dove si tengono le barche alla fonda e, poco fuori, residenze nobiliari estive dei primi anni del secolo scorso, in legno. La guesthouse è proprio a due passi dalla battigia, e tra un saluto frivolo e un urletto civettuolo delle signorine, soprattutto trans, che continuano a chiamarmi ogni volta che passo, "Oh my god you are soooo gorgeous my wonderful beauty come here", raggiungo la spiaggia. La mia esplorazione parte da una rotonda che ospita un tempio cinese tutto dragoni e lanterne, incensieri enormi e statue di guardiani dai colori sgargianti. La brezza è fresca e permette di respirare, mentre al sole, che qui è limpido e chiaro, la pelle brucia come su una graticola. Di farang, in giro, se ne vedono pochi. Sono tutti anziani accompagnati da fanciulle thai, e se ne stanno all'ombra, al fresco dei bar, sorseggiando cockatails davanti ai megaschermi che trasmettono partite di football e baseball.
La luce cambia di continuo, perchè il cielo è comunque solcato da numerose nubi e velature che corrono e si fanno e disfano. Super il tempio cinese e mi trovo in una insenatura di sabbia color luna, con palme e alberi fitti che si sporgono a sbirciare le onde. E un cavallo. Ne vedrò molti altri. Qui molti vendono passeggiate in sella a poveri ronzini ossuti e macilenti. Non ho visto nessuno approfittarne. Non so se sia un business redditizio, a naso direi no.
Poi mi compare violenti davanti al naso l'unico (per fortuna) resort megapalazzone ecomostruoso. A differenza del Messico, dove gli statunitensi non hanno avuto pietà del paesaggio, qui la situazione è meno tragica. Almeno, per ora.
A questo punto inizia il breve tratto di spiaggia "attrezzata". Non ci sono stabilimenti balneari in senso proprio, bensì baracchini che offrono cibo e bevande sotto a gazebo od ombrelloni forniti di sdraio e tavolini in legno, tutto un po' corroso, un po' marcescente. E' una situazione molto alla buona, ma non manca nulla. C'è anche davvero poca poca gente in giro. I procacciatori di clienti risultano dunque un po' insistenti, ma in stile thai, cioè comunque rispettoso e poco invadente. Io passeggio con i piedi in acqua, attratta come una gazza ladra dalle numerose conchiglie. E' una questione proprio genetica. I miei genitori hanno fatto immersioni nei mari tropicali di tutto il mondo, collezionando conchiglie (già morte, eh) e ne hanno vetrine bellissime piene, a casa. Ho ricevuto questo imprinting, non posso farci nulla. E poi le conchiglie con qualcosa di incredibilmente poetico. Sono le ossa, gli amabili resti, ciò che rimane dopo la morte. Ma forma e colori di quei gusci non ci fanno pensare alla morte. Bensì all'estate, al mare, alle vacanze, ai momenti felici o dolci o meravigliosamente malinconici e morbidi che si mescolano al profumo di salsedine e crema solare, di fritto misto e pizza la sera (questa è la sinossi delle mie memorie profonde, il core, inteso come nocciolo ma anche come còre romanesco, legate al mare. Che è sinonimo di Bordighera, nel Ponente ligure, dove i miei nonni comprarono una casa ed io ho trascorso tutte le vacanze estive, invernali e primaverili per i primi sedici anni della mia vita. E tutt'oggi torno volentieri ogni anno, soprattutto a pedalare). Tornando alle conchiglie, dicevo, sono scheletri che non parlano di finitudine ma di ricordi gioiosi. Pensate che meraviglia: essere simbolo così potente da lasciare un ricordo felice dopo di sè. Permanere anche dopo il proprio tempo, e regalare un sorriso a chi ci ascolta il mare che portiamo dentro.
cavallini e mercatini |
Si intravede, scura nella distanza, la costa che prosegue incorniciata da promontori. Spicca la Montagna della Tartaruga (Khao Tao), nota per le sue grotte piene di Buddha e le sue belle spiaggette. Il vento spettina le palme e ora sì, ora penso che tutto sommato l'incidente sta avendo anche i suoi risvolti positivi. Questo giorno di pausa imprevisto si sta rivelando davvero piacevole. Se gli inconvenienti si risolvessero tutti così la vita sarebbe leggera sempre.
Dopo aver perlustrato camminando tutta la spiaggia, scelgo il mio spot per un bagnetto. Devo mettermi litri di crema solare sulle fettine chiare, quelle non esposte al sole quando pedalo, perchè io sono una professionista delle ustioni gravi e e gravissime. Adesso, oltre ad essere zebrata, sono anche piena di lividi. Da vedere qualcosa di poco bello, sicuramente. Ma pazienza. L'acqua è caldissima, perchè bassa. Per arrivare a riuscire a galleggiare, se non nuotare, bisogna camminare a lungo. E comunque non voglio allontanarmi troppo: gira qualcuno in moto d'acqua, e nella stagione umida possono esserci me meduse pericolose.
Guardando questo cielo che pare un quadro impressionista, mi sovviene quella bella quanto semplice canzone di Luigi Grechi (https://youtu.be/2niGvti0Oeg?si=chcaPc8Pvsnx00dG)
"Lui è un vecchio pastore di nuvole,
un minatore di desideri,
un marinaio di lungo corso
che ha navigato sui sette dolori,
lo scalatore dei monti di sabbia,
il ferroviere senza binari,
un vecchio pugile senza più rabbia
ed un pittore senza colori.
E un uomo è quello che mangia,
ma anche i sogni che si porta nel cuore,
sono tutti i posti dove è già stato
e quelli dove deve ancora andare,
ed è la pioggia che lo ha bagnato
e mille facce da ricordare,
come le pagine dei libri letti
e il ricordo di un vecchio amore.
E' un camionista senza volante
che guida un bilico pieno di sogni
un avvoltoio di cento anni
che non ha ancora imparato a volare,
esploratore senza viaggi
e architetto senza disegni,
ed è un perdono senza peccato
ed un prete senza l'altare."
Torno in guesthouse: ho promesso a Gigi che lo avrei accompagnato al negozio di bici dove si trova la sua in riparazione. Doccia per togliermi il sale di dosso, costume in sciacquato e steso e via che si esce di nuovo. Oltretutto Gigi mi sembra particolarmente arzillo e positivo, in forma, riposato e ottimista sulle sue magnifiche sorti e progressive. Ha esagerato coi farmaci? In ogni caso lo porto dal meccanico e, magia, ci sono i tre garzoni che stanno operando contemporaneamente su suo velocipede. La ruota anteriore è stata cambiata, il cerchio è di marca ignota ma pace, pare robusto. Ora stanno sistemando quella posteriore. Compare il paron, the boss con cui ho parlato stamani al telefono. Mi conferma che domattina alle 10 è pronta. Miracolo! Sinceramente, non ci speravo. Gli chiedo quindi un'idea di cifra di spesa, perchè dobbiamo passare a un atm a ritirare e vorremmo sapere quanti zeri dobbiamo immaginare e... The boss ci dice che le spese sono tutte a carico di coloro che hanno causato l'incidente. Ma dai! Questa sì che è integrità! Inatteso e felice caso! Da noi una cosa del genere capita ben di rado, anzi, è più facile che chi può scappi senza lasciar traccia anche in incidenti con danni maggiori. Purtroppo ne so qualcosa... Quando mi sono rotta il braccio, la prima volta, in ciclabile a Turbigo, per colpa di un runner che mi è venuto addosso... Costui ha approfittato del mio stato confusionale per lasciarmi un numero di telefono sbagliato e nessun nome, quindi ancora oggi non so chi devo ringraziare per i due interventi e le placche e tutte le viti e i dolori e le spese in fisioterapia eccetera.
Sconsy-durian |
il braccio pesto ancora enfio |
Contenti e soddisfatti per il fronte bici, facciamo due passi, anche per vedere come reagisce il ginocchio di Gigi. Sembra proprio bene. Intanto mi informo a tutti i baracchini dei taxi e dei trasporti privati (ce ne sono tantissimi) sui prezzi per una corsa a Prachuap Khiri Khan (circa 110km) con van o pick up, dove ci stiano Gigi e la sua bici. La risposta, con poche oscillazioni, si aggira intorno ai 50 euro. Dopo aver fatto la collezione dei biglietti da visita degli autisti, ci sorprende una breve pioggia torrenziale. Mentre attendiamo che si plachi sotto ad una tettoia, Gigi inopinatamente mi dice che domani vuole pedalare. Ah. Ma se fino a mezz'ora fa eravamo d'accordo di no... E forse sarei più tranquilla se riposasse ancora qualche giorno... Ma è convinto, determinatissimo. "Sto bene, devono solo sgonfiarsi gli ematomi, non ho dolori". Temo che davvero abbia esagerato coi farmaci, ma resta dell'idea di tornare a pedalare anche più tardi, fino a dopo cena, quando si corica lasciando fuori i vestiti da bici, e non quelli "civili" da taxi. Gli dico che comunque non è un problema se pure cambia idea all'ultimo, domattina. Qui tra mezzi e trasporti privati c'è solo l'imbarazzo della scelta.
Con i piani nuovamente mutati, ma in positivo, passeggiamo fino al molo dei pescatori per goderci il tramonto tra le nuvole scure del monsone appena passato. Qui ci sono bancarelle di street food che offrono pesce in tutte le maniere e salse: fritto, crudo, arrostito, a spiedino, a polpetta, con riso e senza. Il profumo è buonissimo, sarà che ormai è quasi ora di cena...
Per festeggiare la ripartenza ci concediamo un ristorante indiano di gran lusso. Gigi va di riso con uovo e verdure, io di mix di verdure in salsa curry con naan caldo. Condividiamo un piatto di aloo, patate, spinaci e salsina a base di yogurt e spezie fresche. Neanche sto a dirvi la delizia. Il locale, vuoto al nostro arrivo, si riempie con l'arrivo di due famiglie: due maschi adulti, ciascuno con due donne adulte, ciascun trio con cinque figli. Le femmine tutte con velo anche se piccoline, sui 5-6 anni. Non riesco a capirne l'origine, dalla lingua. Potrebbero essere indiani o pakistani... So che con la cameriera thailandese parlano inglese.
Riprende a piovere quando torniamo in guesthouse, dove racimolo il mio tesoretto di rapina che verrà stipato insieme a tutte le altre cianfrusaglie che sto raccattando per via. A quanto pare, domani tutto ricomincia nella norma. Che vi devo dire? Tutto è bene quel che... Inizia? Finisce? Prosegue? bene. Come dice la Szymborska:
Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.
Che paradiso!
RispondiEliminaGrandi! Coraggio, determinazione e resilienza non vi mancano. Auguri a Gigi di rapido recupero. Nella sfortuna avete reagito da grandi viaggiatori.
RispondiEliminaSiete dei grandi, forza e coraggio non vi manca, l'augurio che il dolore passi velocemente e rimanga solo l'attenzione per le cose belle! Buona strada ciao 👋🚴
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