giovedì 15 agosto 2024

46-48.Pedalando la costa malese, tra vestigia coloniali, minareti, dragoni e una natura selvaggia















razzi votivi

scimmie, ma-lese



13/8
Alor Setar-Sungai Petani
75km

Signore e signori, volpesse e pedalinci, pedalenti e pedalonze, ho un annuncio importante da fare: oggi ho fatto pace con le strade malesi. E me le sono godute, pedalandoci, e le ho apprezzate tantissimo. Ieri, a casa del traffico sugli stradoni e della sensazione di "tutto troppo" dovuto al cambio di orizzonte, lingua, cultura, religione, nazione, l'impatto con la Malesia è stato intenso. Ma oggi, riconfezionate le tappe in modo da passare su stradine secondarie e rurali, oh, quanta bellezza! Che pace, che piacere immenso stare in sella! A differenza della Thailandia, dove si può transitare in bici in sicurezza anche sulle arterie più grandi, qui no, la dimensione della strada ed il volume del traffico mutano sensibilmente, facendo vivere un'esperienza del tutto diversa. Trovata questa chiave di volta, il resto vien da sè, ed è incredibile di pura meraviglia. Perchè questo paese ha da offrire una varietà incredibile: ora sei sul mare, su spiagge selvatiche bianche di sabbia e orlate di palme, ora invece in collina, in mezzo alla foresta tropicale, con tanto di scimmie, ora sei in una città ultramoderna tutta grattacieli e torri in vetro, ora in un villaggio polveroso dove i polli razzolano in mezzo alla via, ed ombre di donne velate tagliano l'aria tremula di caldo, dove risuona il canto di un muezzin. C'è tutto, e il contrario di tutto. Ma andiamo con ordine.

Stamattina niente sveglia. Ho finito di preparare la traccia e prenotare l'albergo alle 3 di notte, anche a causa del fuso che ci ha fatto perdere un'ora. Dormo saporitamente fino alle 9. Poi facciamo colazione e ci prepariamo a partire, non prima di aver dato un'occhiata alla piazza centrale di Alor Setar.




Il profilo di questo luogo è una sintesi della storia della città, nel suo mix armonioso di antico e moderno. Torre dell'orologio, torre delle telecomunicazioni, torre per gli strumenti musicali dell'orchestra del sultano, antiche porte di ingresso alla città e vari palazzi governativi (alcuni pggi ospitano musei), sette e ottocenteschi, segnano lo skyline. A ciò si aggiunge la moschea Zahir, del 1912, una delle più grandi e antiche della Malesia, e un'ampia piazza a mattonelle colorate con fontana e punti per selfie da social. Un bel mischiotto, insomma, ma apprezzabilissimo.









In breve passiamo per la Chinatown, che è decisamente riconoscibile, e per il landmark di un kilometro 0 che non mi è chiarissimo cosa conti, da dove e per dove, ché siamo nel mezzo di tutto, ma pace. Percorriamo una strada piuttosto ampia, ma senza traffico, dove posso veder bene, per la prima volta, i sovrani malesi. Qui, a differenza della Thailandia, le foto del re e della regina non sono così onnipresenti, così ribadite, rimarcate, riproposte e moltiplicate a migliaia in ogni metro quadrato del paese. Il lavaggio del cervello in senso nazionalistico non è così spinto, così come sembra meno forte l'orgoglio di appartenenza, anche se di bandiere ce ne sono tante (e quando sono un po' ripiegate, sembrano quella statunitense!). Insomma, il re qui si elegge (ogni 5 anni), e non è emblema forte di unità nazionale e patriottismo.





Appena possiamo, lasciamo lo stradone e qui inizia la vera magia. Viuzze lunghe e sempre più anguste, percorse da rari motorini a passo lento, ci conducono prima verso la costa, e poi a sud. All'inizio pedaliamo in una campagna verdeggiante di risaie e piantagioni di palme e alberi della gomma, dove solo ogni tanto spunta una casa in legno, con il suo zebu in cortile. C'è un fitto intrico di torrenti e canali artificiali che riflettono il cielo azzurro opaco. Regna un grande silenzio, interrotto solo dal frullo improvviso delle ali di una garzetta o di un airone-cicogna, spaventati dal nostro passare. I pochi contadini che incontriamo ci salutano calorosamente con grandi sorrisoni da orecchio a orecchio. Che cuori! Allora non son tutti pirati e tagliagole!















Dopo questo primo tratto da idillio bucolico, che un poco ricorda persino la pace del Ferragosto sulle nostre alzaie, se escludiamo i serpentoni e i varani che qua e là vediamo, imbocchiamo la via costiera, che inanella una serie di piccoli villaggi che sembrano di un altro paese, di un altro mondo, rispetto alle grandi città ultramoderne e dal volto occidentalizzato. Qui ci sono le palafitte circondate da palme, i mercati, piccoli ma incasinatissimi, con le bancarelle luride di unto dei secoli, olio riutilizzato dai tempi del sultano, e le insegne scritte a mano tutte storte su pezzacci di cartone strappati. Le donne sono tutte velate e coperte da capo a piedi; gli uomini indossano il barracano e il berretto bianco, e pure i bambini, nel cortile della scuola, hanno l'uniforme muslim. Le moschee sono piccole e modeste, ma dai colori sgargianti. Negli orari della preghiera gli altoparlanti gracchiano, prima di diffondere il canto del muezzin di minareto in minareto.







Ci lasciamo alle spalle anche Yan, paesino costiero di bancarelle con più polli, ruspanti o già cotti, che anime, e iniziamo a "circumnavigare" il monte Jerai (1200m), coperto di foresta e coronato di nubi. Là sopra sta piovendo. Ma non qui. E' incredibile come convivano nello stesso giro di pedale e sguardo panorami che per me appartengono a luoghi geograficamente distinti: da una parte palme, piante tropicali con fiori giganteschi e coloratissimi, e dall'altra una montagna boscosa immersa nelle nuvole. Non si sa dove guardare, e in tutta questa bellezza ci si perde. E ci si ritrova anche.




Quando la strada, che non è proprio in pianura, si affaccia sul mare, ci fermiamo ad ammirare la sua placida immensità (in cui naufragar m'è dolce, eccetera). Mi colpisce realizzare che sto posando lo sguardo sullo stretto di Malacca. Che a un tiro di schioppo ci sia l'Indonesia, che sarà meta di certo di un prossimo viaggio. Poco a nord si spalanca il Golfo del Bengala. Queste acque sono quelle dell'Oceano Indiano. E pensare che fino a ieri l'altro nuotavo nel Golfo del Siam e nel Mar cinese meridionale... In due giorni è bastato voltare un poco il manubrio e abbiamo il naso puntato ad un diverso sub-continente. Pazzesco! Poi qui è tutto selvaggio, degno dei famosi pirati, letterari e non, e i resort per farang delle coste thai sono lontana memoria. Qui la giungla sfiora il mare salato infecondo, e le onde lambiscono i tronchi rugosi delle palme altissime. Non i sultani, non i siamesi, non i portoghesi nè gli inglesi sono riusciti a domare del tutto questa terra fiera, e nemmeno ad addomesticarla. Neppure il capitalismo consumista. Non ancora, almeno.







Giriamo attorno alle pendici del Jerai, incontrando qualche villaggio. C'è un istante che mi rimane impresso, nel quale si ferma il tempo. Stiamo pedalando lenti lenti su una leggera salita. Fa caldissimo. L'aria è tremula di umidità e sole a picco, che stordisce, intorpidisce i sensi. A lato si innalza il monte coperto di foresta tropicale, da cui giungono versi di animali esotici che non riconosco. Davanti a me, dove spiana la strada, una bancarella in legno e teli dove alcune donne velate vendono frutta esotica matura, di cui non conosco nè il nome nè il sapore. Il profumo è intenso e dolce, quasi fastidioso. Guardo negli occhi una delle donne. Lei mi guarda. Condividiamo lo stupore nel riconoscerci uguali, nella diversità. Intanto parte un Allaaaah akbar dagli altoparlanti del piccolo minareto di fronte, e il canto inonda l'aria e poi si disperde ed evapora nell'azzurro. E' un sogno. E' un documentario su Youtube. No, è la realtà. La sto vivendo. Qui, adesso. E ne sono grata.





Dopo questo attimo di grazia, questo soffio rubato al tempo e al divenire, riprendiamo a pedalare. Mancano ormai meno di 20km (le tappe saranno più brevi, d'ora in poi, perchè possiamo iniziare a usare quel margine di giorni extra tenuto da parte per eventuali emergenze e contrattempi). Decidiamo di fare sosta nel minimarket di un'isolata stazione di servizio. Attiriamo molte attenzioni, ma discrete. All'interno ci sono dei mobili a caso, compresa una credenza a vetri con dentro soprammobili e statuine e foto di famiglia, come se fosse il salotto della nonna. Chissà chi sono quelle persone. Chissà perchè. Noi approfittiamo del tavolo e delle sedie per bere qualcosa di fresco (fa veramente molto molto molto caldo, fuori); questi negozi così grandi, e così vuoti, con tanti scaffali e poca merce a riempirli, disposta larga perchè paia di più, mi ricordano certi luoghi sperduti nelle steppe dell'Asia centrale. Mi fa un po' di tristezza, è un "vorrei ma non posso" che urla disuguaglianza. E comunque qui già c'è odo di privilegio, rispetto a gran parte del "resto-del-mondo".



Ripartiamo, tra viuzze presidiate da alte palme sottili e l'ombra dei monti. Ci sono anche parecchi templi hindu, piccini ma coloratissimi, sparsi qua e là. In fondo gli indiani sono la seconda grande etnia di minoranza, insieme ai cinesi.






Non perdo l'occasione, visto che costa solo una piccola deviazione, di andare a sbirciare un sito archeologico che mi incuriosisce non poco, il Sungai Batu. A naso non vale la pena spenderci gran tempo (si estende su oltre 4km2), perchè l'alzato è nullo e gli scavi sono fermi da 5 anni, e si può vedere tanto anche passando accanto alle tettoie che proteggono i resti. Diciamo che son più tettoie che resti (per lo più tracce di fondamenta di edifici in pietra, forse residui di un'imbarcazione, evidenze di fornaci ed estrazione e lavorazione del ferro). La cosa interessante è che questo sito proverebbe l'esistenza di una civiltà malese preistorica, risalente alla fine dell'VIII secolo a.C., in specifico al 788, cosa che ne farebbe una delle più antiche civiltà del Sud Est asiatico. Claudio Tolomeo cita un sistema di traffici commerciali tra i mondi dell'Ovest e dell'Est che faceva scalo qui, nel "Chersoneso d'oro", cioè la penisola di Malacca, fin dal primo secolo, dove si trovavano abili fabbri e costruttori di spade. Simili riferimenti si trovano poi in testi arabi successivi. Interessante è pure che, oltre alle strutture commerciali e amministrative, siano stati rinvenuti edifici di culto in mattoni che paiono non afferire ad alcuna religione nota.





Dopo aver sbirciato qua e là tra le palme, ci rimettiamo in marcia per entrare a Sungai Petani, meta di oggi. Decidiamo di stare su uno stradone deserto e con corsia protetta per le moto (e, oggi, pure per le bici). Passiamo sul fiume Merbok, dove scambio alcune scimmie per cani molesti (la stanchezza gioca butti scherzi) e poi eccoci arrivati al nostro alloggio in centro.


Il Lih Pin Hotel costa poco (12 euro a notte la doppia con bagno in camera), offre un'ottima wifi, camere pulite e si trova comodamente piazzato sopra ad un 7-Eleven aperto 24/7. L'unico problemino sono le scale, ripide, ma tanto, che pare di esser tornati a Machu Picchu. Dobbiamo issare i bagagli, le bici e noi stessi. Ah, ecco che da no un po' non si faceva del sano portage!





sul soffitto della camera è indicata la direzione de La Mecca per pregare dalla parte giusta. Che poi...

merendina dell'arrivo: konjac jelly alla mela verde e latte di cocco dei Minions


Per cena, mentre il sole cala incendiando il cielo e le prime luci della sera si accendono, decidiamo di seguire i consigli dei local e andare in un ristorante con cucina malese e occidentale. Effettivamente si mangia in modo divino, è tutto superbo.










Domani non abbiamo una meta precisa, ancora. Visiteremo il centro di Sungai Petani, e Butterworth, per poi scendere ancora più a sud. A seconda di quanto la visita dei luoghi d'interesse ci impegnerà, decideremo quanti kilometri pedalare, 70, 80, 90... Tanto qui le strutture non mancano ed è facile decidere anche all'ultimo, on the go. Nel frattempo si sono aperte le cateratte del cielo. Da quando siamo rientrati piove, forte, fortissimo, con tuoni e lampi e una quantità d'acqua che neanche riesco a immaginare. Più a sud, a Malacca, sono in corso problemi a causa di inondazioni, e alcune strade sono chiuse... Speriamo si risolva tutto e il monsone non ci faccia scherzi!

14/8
Sungai Petani-Parit Buntar
88km

Questa notte ha piovuto tantissimo, per ore, con violenza, furiosamente. Le strade si sono allagate, e tanti viaggiatori han trovato rifugio nelle camere accanto alle nostre, negli orari più improbabili. Me ne accordo perchè tutti, senza alcuna eccezione, passando suonano il campanello della bici di Gigi, nel corridoio. All'inizio mi affaccio alla porta a far brutto, poi capisco che è tutta gente fradicia e colta alla sprovvista dal monsone. Ho letto pure che a Malacca le alluvioni in questi giorni hanno causato centinaia di morti e disagi e non finire. Un disastro! E pare che questa tragedia si verifichi ogni stagione delle piogge, e persino più volte all'anno, in quei sei mesi. Alcune strade sono attualmente chiuse, dovremo prestare attenzione anche noi.
Con poco sonno in corpo e tanto caffè, questa mattina partiamo però con la benedizione di un sole umido e acquoso che già scalda tantissimo. Il che mi solleva, e non poco. La tappa di oggi potrebbe rivelarsi lunga, in termini di tempo, e nemmeno abbiamo una meta prefissata. 


Con la stessa fatica di ieri, sempre una bestemmia per gradino, portiamo giù bagagli e bici dalle ripide scale dell'hotel, dopo che il receptionist, controllata la camera, mi ha ridato la cauzione (50 ringgit, 10 euro, quasi il costo del pernotto stesso! Quanto si spende a rifar le chiavi, da queste parti?!). Sotto ci attende una gattella dolcissima simile sia alla mia Briscola, sia alla Polpetta di Gigi, ad eccezione per la coda mozza, come tipico dei gatti del Siam. E' un fusicembalo alimentato a coccole.





Da Sungai Petani usciamo in fretta, per le strade ancora vuote e silenziose. Pur essendo la città più popolosa del Kedah, con i suoi 550.000 abitanti, ha ancora l'aria di una cittadina di provincia, sonnolenta e pigra, dai ritmi lenti. Da visitare, oltretutto, qui c'è ben poco. L'unico monumento vero e proprio è la torre dell'orologio, modestissima per sè, donata da un ricco mercante e benefattore (fece aprire molte scuola nella zona con i suoi fondi privati), Lim Lean Teng a Giorgio V peri suoi primi 2 anni di regno, nel 1935. Poi non mancano, ovviamente, moschee, templi hindu, buddhisti e cristiani, tutti del secolo scorso, che si alternano a centri commerciali e multisala.
Noi ci buttiamo verso le campagne che affacciano al mare, tra villaggi dove si stanno aprendo le prima bancarelle e fiumi torbidi in cui nuotano i varani. 









Nel giro di poco, percorsi i primi 40km, eccoci a Butterworth, la città che finora è in testa alla classifica dei toponimi belli che riempiono la bocca di suoni tondi e dolci. Burrosi. Si tratta del nucleo storico dell'enorme agglomerato di Seberang Perai. Abbiamo cambiato stato: siamo nel Penang ora. Proprio difronte si trova l'isola omonima, dove sorge la capitale dello stato: George town, separata da un braccio di mare di 11km, e unita da due enormi ponti e una linea di traghetti. Butterworth prende il nome dal governatore (a metà Ottocento) degli insediamenti inglesi sugli stretti, carica che veniva conferita dalla Compagnia britannica delle Indie orientali. 

Qui esisteva un villaggio di pescatori, probabilmente in parte già sfruttato come porto di attracco per le navi mercantili, e così rimase dal 1136 al 1821, sotto al sultanato di Kedah e dal 1821 al 1831, sotto al regno del Siam. Poi giunsero gli inglesi che trasformarono il villaggio in un movimentato snodo portuale di merci e persone: dal 1831 al 1946 i britannici diedero un enorme impulso allo sviluppo economico della città, che prima era sotto al controllo della Compagnia delle Indie, poi il British Raj e ancora lo Straits settlements inglese. Certo, con l'eccezione dei 4 anni di invasione giapponese, dal '41 al '45. Navi, treni, poi aerei... Tutto una frenesia di traffici. Il porto principale si trovava, per il vero a George Town, sull'isola, ma dopo l'indipendenza e l'apertura di alcune grandi industrie negli anni Sessanta, fu spostato qui nel 1974, facendo decollare ulteriormente l'economia locale.
Dagli anni Ottanta, tuttavia, la città ha sofferto di un lento ma inesorabile declino, dovuto soprattutto alla decentralizzazione di molti servizi, da quelli sanitari a quelli di polizia.

La nostra esplorazione inizia dal Tempio Tow Boo Kong, taoista. Il 51% della popolazione è di etnia cinese, qui, mentre solo il 24 malese. Il tempio è dedicato alla dea Doumu e ai nove dei imperatori, ed è stato costruito a partire dagli anni Settanta, e completato nel 2009. Ma le sue architetture complesse di dragoni e lanterne, fontane e demoni dagli occhi a palla sono fuori dal tempo. Dedichiamo del buon tempo alla visita dell'edificio, che è, letteralmente una scatola cinese al suo interno, un labirinto di scale e torri e cortili, con intere pareti fatte di minuscole teche contenenti statuine piccolissime, altari, incensi accesi e offerte di ogni genere, comprese bibite zuccherate e tazzine piene di olio o tè.












statuine di pochi centimetri

che coprono a migliaia intere pareti


















A visita ultimata, proseguiamo verso il porto, incrociando numerosi templi hindu. Il più antico è dedicato a Mariamman, dea della pioggia; narra la leggenda che il tempio fu costruito dopo il ritrovamento di una statua di questa divinità sulla spiaggia.



Raggiungiamo così il porto, con il suo traffico di mezzi pesanti che salgono e scendono dalle navi, e la sua moschea galleggiante. Vorremmo anche ammirare le bianche scogliere di George town, ma l'umidità nell'aria è tale da creare un muro di foschia che impedisce lo sguardo. Ma rende poeticissimo questo angoletto di acque calme, dove il minareto si specchia tra le increspature delle onde e cielo e mare paiono fondersi in un acquerello grigioazzurro.







Mentre usciamo dalla città, incrociamo anche una chiesa anglicana. Giustamente anche gli inglesi hanno lasciato qui il loro dio. E' incredibile pensare come qui religioni e confessioni anche diversissime convivano piuttosto pacificamente, mentre in altri luoghi del mondo questa sia una buona scusa per secoli di guerre e milioni di morti inutili.



Siccome è ancora presto, decidiamo di non fermarci a Simpat Ampat, città a 20km da qui con strutture, ma di tirare dritto fino a Parit Buntar, a 45km circa. Purtroppo i primi 20 sono di strade trafficate di camion che vanno e vengono dal porto e, per non intasare l'autostrada, restano su queste vie secondarie, piuttosto strette per la loro mole, e anche accidentate di buche e sabbia e cantieri. E' faticoso e stressante, ma si fa. Inizia a piovigginare. Ne approfittiamo per far sosta a una stazione di servizio, di quelle con pompa di benzina, bagni e luogo di preghiera, anch'essa dotata di gattina coccolina e affamata. Le compro una busta di pappa e se la scofana allegramente, fino a raddoppiare di volume e peso. Poi si accoccola in un angolo in food coma, e, quando stiamo ripatendo, vedo che una commessa del KFC le sta dando dei croccantini. Hai capito la brigantessa come fa finta di essere randagia e malnutrita, e invece...





Sazi tutti, noi e la tigrotta della Malesia, ripatiamo sotto ad una pioggerella fine che aumenta la sensazione di caldo. Mettiamo i k-way, ma sono di troppo. Passiamo per una zona industriale e poi in quello che viene definito "distretto del design". Ci sono Ikea e altri grandi magazzini di mobili, insomma, oltre a palazzoni grigi nel grigio del cielo.



Poi, nel giro di un attimo, ci ritroviamo immersi nel verde fittissimo delle campagne. Spariscono i palazzi, i centri commerciali, le industrie e gli hub logistici, sparisce persino la strada, e resta una striscia di fu asfalto che corre tra rigagnoli di acque ferme, coperti di loto e muffe, e palmeti cupi e fitti come giungla. Vediamo di nuovo le scimmie, ma è un attimo e nemmeno faccio in tempo a fotografarle. Sono un gruppo di 5, che corrono sul tubo in metallo di un ponte strillando. Ci vedono e spariscono tra tronchi e fronde. Vediamo anche numerosi serponi, e varani, ma per lo più morti, schiacciati dalle rare moto ed auto che passano di qui. Sembra di essere in un altro mondo rispetto agli stradoni di prima. 
















Quasi a destinazione sbuchiamo di nuovo su una strada che collega centri abitati di medie dimensioni. Mi colpisce una scuola, gigantesca e colorata, bella, ben tenuta, molto più accattivante di quella di Sedriano, in provincia di Milano, dove insegno. E mi colpiscono i razzi, i missili terra-aria, tutti decorati e dipinti, che si vedono fuori da case e negozi e sanno proprio di Celeste Impero.







Ultimi colpi di pedale ed eccoci nella cittadina di destinazione, dove, nella sosta di prima, ho prenotato una camera all'Hotel Damai, economico  e in centro. E' una struttura di gran lusso per i nostri standard, anche se i ragazzi alla reception sono tutto meno che professionali. Ci mettono gran tempo a farmi fare check in, perchè sono troppo impegnati a ridere, fare battute, darsi di gomito e commentare il mio aspetto. Nei paesini a maggioranza muslim malay va così. Me ne accorgo quando pedalo, sento addosso gli sguardi della gente. Curiosità, disapprovazione, ammirazione, disprezzo, invidia, desiderio. Mi arriva tutto. Ma sono abituata, da noi è lo stesso per chi è poco conformato alle convenzioni sociali come la sottoscritta. Ma mica mi lamento. Il problema è di chi giudica, non certo mio.




Per cena andiamo in centro. Dopo aver coccolato le decine di gatti del paese, ovviamente. Qui ci sono i felini di quartiere: nutriti da negozianti e residenti, curati, tenuti in ordine e puliti... E ci sono pochi cani. Un classico dei paesi storicamente musulmani. Posso dire? Non mi dispiace! I gatti non inseguono i ciclisti innocenti, tentando di azzannarne le polpe.




Ci sono anche migliaia di uccelli che stanno trovando riparto per la notte sui rami degli alberi della via centrale del paese, e sono così rumorosi da assordare e coprire persino il rombo dei motorini.


Questa città è chiamata anche "la ciotola di riso di Perak" perchè i dintorni sono tutti a coltura, e c'è un fitto sistema di canali e dighe per il controllo delle acque. Infatti il toponimo deriva da Tok Buntar, politico locale che fece per primo costruire un sistema di irrigazione per le risaie. L'unico monumento, anche qui, è la clock tower del 1961, che celebra la prosperità della cittadina (che è notta anche per la tragedia di un traghetto sul fiume affondato nel 1972 con a bordo per lo più bambini che andavano a scuola, annegati).
Noi ci godiamo una breve passeggiata sul far del tramonto, e ci buttiamo nel primo ristorante che ci ispira fiducia. E' pieno di local. Qui di occidentali non ne passano. Infatti sia i camerieri, sia poi i commessi dei negozi in cui entriamo e anche di quelli in cui non entriamo, ci fanno mille domande su chi siamo, da dove veniamo, quanto stiamo. Molti stupiscono quando diciamo che stiamo solo una notte: "Ah, pensavo almeno una settimana!". Amore della volpe, no. Grazie. Bello qui, eh. Ma: no. 











Il centro, illuminato a festa, è un curioso mix di bancarelle zozzone, negozi di chincaglierie polverose, supermercati ultramoderni tutti automatizzati... Mentre gli altoparlanti diffondono per la piazza e le vie del paese il sermone del mullah.





15/8
Perit Buntar-Pantai Remis
91km

Ahimè la notte è tutto meno che tranquilla: Gigi è riuscito, alla fine, ad impestarmi con il suo rincobronco, ed ho la gola che pizzica, il naso tappato e malessere generale; inoltre qualche salsina del ristorante ha avuto effetti poco piacevoli sul mio intestino. E quindi stamattina si va di caffè, Tachipirina e tanta tanta forza di volontà. Per fortuna fuori splende un bel sole limpido, e l'aria, pur calda, è mossa da una leggera brezza. Lasciamo Perit Buntar, che nella luce del giorno appare anche più piacevole e vivace, con le sue casette colorate, i viali con le palme e i mercati.





Per oggi abbiamo deciso, nella prima parte della tappa, di non spingerci fino alla viuzza che corre lungo la costa, ma di rimanere su una strada piuttosto grande, ma non troppo trafficata, che resta nell'interno, ed è decisamente più corta. Non abbiamo più cuore di pedalare tapponi da 120km, onestamente, e oggi proprio non ce la potrei fare. 90 abbondanti bastano e avanzano. E così corriamo per 45km fino a Taiping, fu capitale di regione, nonchè teatro di scontri tra clan cinesi che si contendevano il controllo delle miniere di stagno (la violenza aveva raggiunto livelli tali da render necessario l'intervento della Corona britannica). Passiamo per numerosi villaggi e cittadine, più o meno incasinati, con scuole coloratissime e moschee con minareti e cupole svettanti. Si pedala in tranquillità, nel bordo largo e asfaltato a lato della corsia a sinistra. Molti in moto o camion ci suonano il clacson, mentre la gente a piedi urla saluti, talora sguaiati, talora invece molto urbani e gentili. Intorno campi, fiumi torbidi di fango delle grandi piogge recenti e il profilo cupo delle montagne vicine, a est. E piantagioni di palme da olio. Oh, quante palme. Si vedono anche le tracce funeste che questa coltura lascia, con interi campi incolti dove si intravedono i resti bruciacchiati dei tronchi.
Ogni tanto compare un tempio induista, o cinese, e son esplosioni caleidoscopiche di oro e osso. Loro non hanno paura del colore.










Passata la periferia di Taiping, imbocchiamo una secondaria che si snoda tortuosa tra foreste di palme. Sono coltivazioni molto redditizie, al punto che ogni pochi metri un cartello afferma esplicitamente che si tratta di proprietà privata e che ai trasgressori colti a zonzo tra le frasche si spara in faccia senza se e senza ma. In compenso è pieno di scimmie, che se ne fregano altamente dei divieti e saltano impunite da un albero all'altro.













Posti per fermarsi a bere qualcosa di fresco e fare un spuntino non ce ne sono per tutto questo tratto, quindi quando compare un bugigattolo segnalato da lanterne cinesi che promette frutta e bagni ci fiondiamo dentro. Ormai mancano solo 22km all'arrivo, e fa caldissimo. Io non sono in forma, ed è quasi ora di rimettere un po' di paracetamolo in circolo. Finisce che in questo locale, molto apprezzato dai camionisti passaggio e dove regna una puzza dolciastra e appiccicosa di frutta marcia che neanche sto a dirvi, rimaniamo ben a lungo. Nel giro di un attimo, il tempo di mangiare un gelato, si addensano sulla nostra testa nuvoloni neri. Tuoni, qualche lampo, e giù gli scrosci potenti di pioggia che ormai conosciamo molto bene. Ne approfitto per scrivere qualche augurio di Ferragosto... Oggi è il 15! Qui ovviamente non si festeggia, e me ne sono dimenticata. Che bello però non essere dove s deve far qualcosa per forza, tra camicie bianche sudate e puzza di vinello alle feste in spiaggia, aperitivi e cene open bar e altri gironi infernali di questa natura. Io qui, nel localaccio malese in mezzo alle palme sto proprio bene, e non devo spiegare nulla, nè nulla deve essermi spiegato. Ciao festaioli del Ferragosto, godetevela voi, se vi piace.




Quando pare stia spiovendo, ripatiamo. Non serve nemmeno il k-way, perchè fa caldissimo. In realtà il diluvio riprende di lì a poco, e pedaliamo nell'acqua, tirandocela addosso, fangosa, mentre dal cielo una doccia ininterrotta ci infradicia. Quanta, santa, quanta santa pazienza questa stagione dei monsoni! Fortuna mancano pochi kilometri e, comunque, la visibilità resta buona e il traffico è quasi nullo. Trovo anche una banconota da 1 ringgit a terra (0.2 euro): mi pare un buon segno. 



Pantai Remis ci accoglie con un tripudio di scimmie corrono sui cavi dell'alta tensione, e attraversano la strada su corde tese da un lato all'altro, a qualche metri di altezza, al sicuro dalle auto. Quando ci fermiamo per fotografarle si allontanano, arrampicandosi sui tetti e sui cartelli stradali intorno, a "mani" piene di frutta.






Non ho prenotato l'alloggio, perchè ho notato che i prezzi sulle app online sono più alti, a volte quasi il doppio rispetto a quelli proposti "walk in". Oggi ne ho la conferma. Per una doppia con il bagno privato spendiamo 75 ringgit, contro i 115-150 proposti da Agoda, Booking ecc. Parliamo di pochi spicci, eh. 15 euro contro, al massimo, 30. Ma è il concetto dello spendere per nulla che non mi piace. Prendiamo quindi la camera presso l'Hotel Lam Seng, di proprietà cinese (come si evince da scritte, lanterne, dragoni, altarini rossi... Manca solo Confucio in persona), ma con personale indiano. La receptionist è proprio il prototipo della signora di pelle olivastra, con bindi, trecciona di capelli neri tendenti al grigio, occhiali, sorriso largo, sari da lavoro, sciavatta lercia e unghia del piede torva. Si apre un teatrino tra lei che parla in inglese with an accent, io che traduco a Gigi, Gigi che comunque non capisce, sbaglia a contare i soldi, li riconta, lei lo aiuta, io cerco di accelerare i tempi ma lui insiste a volersene occupare personalmente, ed esclama "I'm an old man, I am slow", e ride lui, ride lei, cadono le banconote, vanno ricontate, io non nascondo neanche più l'esaurimento e mi metto in posa "Urlo di Munch" muto, con i gomiti sul bancone. Quanta santa pazienza, e non solo per il monsone. La camera è molto bella, però, e c'è il dispenser di acqua calda e fredda. Ne approfittiamo per cenare in camera, facendo una spesa rapida nel supermercatino di là dalla strada. Intanto il diluvio prosegue, e aumenta persino di intensità. Noodles liofilizzati, frutta e verdura in quantità, biscotti prenanna e anche per oggi possiamo archiviare una bella giornata intensa. Un bel Ferragosto. Highlight della giornata: Gigi che a momenti investe un varano, o un varano che investe Gigi. Nessuno dei due vede l'altro. Il primo esce dall'acqua e si avvia ad attraversare la strada, tastando l'aria con la sua lingua da rettile. Il secondo pedala sereno pensando agli affari suoi. Poi il varano si accorge del pericolo, e fa un'inversione di scatto che fa prender coscienza anche a Gigi della situazione. E così entrambi deviano. Ma la scena, vista da vicino, fa molto ridere.





Tra tre giorni saremo a Kuala Lumpur, dove faremo sosta 48 ore. Ci aspettano dunque due giorni lungo i fiumi e la costa, e uno per entrare nella capitale... Che è grande! Conta 7 milioni di abitanti, ma si estende per decine di kilometri in un intrico spaventoso di autostrade, sopraelevante, stradone, stradine, stradette... Ci sarà da studiare con attenzione la traccia, per non fare la fine dei varani stiacciati. Ma potrà essere peggio di Bangkok? O Lima, o Città del Messico, o Istanbul? Non credo, e ciò mi solleva. Avere esperienza del mondo grande e terribile è un bel vantaggio. Avere esperienza anche della sua bellezza, un privilegio.

2 commenti:

  1. Quasi quasi, appena in pensione me ne andrò in Thailandia,non manca nulla.

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  2. ...che meraviglia, leggo con tanta attenzione e sembra essere lì con voi...solo che io non pedalo... Grazie, buona strada ciao 👋🚴

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