10/8
Nakhon Si Thammarat-Pak Trae
109km
La sera e la notte trascorrono svelte, mentre le pale del ventilatore segnano un ritmo lento, quasi trascinato. Gigi dorme, io scrivo. Leggo. La mia mente corre avanti nei giorni e nei kilometri. Spetta a me tutta la logistica del viaggio e ho la responsabilità di organizzare per due. Inoltre la mia curiosità di volpe dal naso lungo mi porta a voler conoscere il più possibile prima ancora di fare esperienza diretta dei luoghi. Per essere pronta, per capire meglio. Poi finalmente giunge anche per il momento sacro del sonno, coperta con il telo-asciugamano color abito di monaco buddhista.
Quando suona la sveglia il sole è già alto su Nakhon Si Thammarat, che scintilla sotto ai nostri occhi nel primo mattino. Caffè e via, siamo pronti a esplorare la città. Non prima che Gigi, iniziando a portare i bagagli al parcheggio dove abbiamo lasciato le bici, legate, mi dica che "Al secondo piano c'è un mercato, un sacco di gente, non si possono lasciare le cose incustodite!". Invero si tratta del centro commerciale che non è abbandonato, tutt'altro. Ieri quando siamo arrivati era solo chiuso. Le boutique sono stile thai market, e quindi la merce (perlopiù indumenti) è esposta in modo un po' caotico anche nei corridoi e per terra. Ma non è un mercato. Perdo in questa occasione il mio utilissimo specchietto retrovisore da manubrio. Me ne accorgo ormai in strada, e non torno a prenderlo. Se perdo Gigi pedalando o un camion mi investe mentre sorpasso un baracchino parcheggiato in mezzo alla strada sapete il perchè.
Tutto quel che ho programmato di vedere qui si trova sulla strada dell'hotel, che è la medesima che dobbiamo seguire per quasi tutta la tappa, e ci riporta al mare. Mare che un tempo lambiva Nakhon stessa, fiorita come porto commerciale di primaria importanza secoli orsono. Pare che la città sia stata la capitale, o una della capitali, del misterioso Regno di Tambralinga (V-XIII secolo), ricco di traffici tra l'India, il Regno Dvaravati, la Cina e l'Occidente. Qui passava la Via della Seta marittima, e le navi, per evitare di circumnavigare la pericolosa penisola malese, attraccavano a questo porto e a quello di Trang, sul lato occidentale, approfittando dell'Istmo di Kra. Dopo alterne vicende, tra autonomia e sudditanza dai regni vicini (Khmer su tutti), nel XIII secolo Tambralinga, cioè Nakhon Si Thammarat, divenne così potente da invadere lo Sri Lanka e appropriarsi di alcune reliquie del Buddha. E' un unicum nel Sud Est asiatico. Testi buddhisti di varia provenienza (cinesi, indiani, cingalesi) citano Nakhon come città potente e centro di studi del buddhismo, ed i reperti archeologici confermano. Tra Due e Trecento la città venne devastata da un'epidemia, attaccata a più riprese e saccheggiata dai pirati. Fun rifondata con il nome odierno, ma, già a metà del XIV secolo, cadde sotto al Regno di Sukhothai, pur essendo territorio conteso tra siamesi e giavanesi. Poi, quando Sukhothai venne sottomesso da Ayutthaya, anche Nakhon passò sotto il controllo di quest'ultima. Intanto, nel XV secolo, fu fondato il Sultanato di Malacca, che portò con sè la religione maomettana; Nakhon, epicentro di cultura buddhista, divenne la roccaforte di difesa della fede theravada contro la diffusione dell'islam. Nel 1511 Malacca fu presa dai portoghesi, che stipularono con Ayutthaya trattati commerciali. Nakhon era interessata dai traffici, e prese il nome di Ligor. Per due secoli i commerci attirarono comunità cinesi e tentativi di conquista e ribellioni sedate nel sangue. Gli attacchi birmani al Siam non solo fecero cadere Ayutthaya, ma portarono anche allo spopolamento di Nakhon, che rinacque solo nella metà del XIX secolo, quando il moderno Regno del Siam si stabilizzò. I sultani locali dovettero sottomettersi a Rama V, fino a quando, con la riforma costituzionale del '32, la città divenne capoluogo di provincia.
La grande importanza di Nakhon si evince anzitutto dai resti delle possenti mura, restaurate (già dai francesi nel Seicento, per volere di re Narai) e visibili in diversi punti del centro storico. Leggenda vuole che risalgano alla rifondazione della città nel XIII secolo, e che fossero lunghe 2.5kmx0.5km, e circondate da un profondo fossato.
Il carattere cosmopolita della città, da sempre "porto di mare" è testimoniato dalla varietà di luoghi di culto: templi induisti, cinesi, buddhisti e moschee.
Noi ci dirigiamo al Wat Phra Mahathat Woramahawihaan, l'ultimo tempio buddhista che visiteremo qui in Thailandia. Si tratta di uno straordinario complesso di edifici e architetture sacre, al punto da renderlo il più importante luogo di culto della regione meridionale. Al centro svetta il chedi bianco con guglia dorata di 77 metri (dentro cui dovrebbe trovarsi un dente di Siddharta). La leggenda narra che più di 1000 anni fa la regina Hem Chala e il principe Thanukuman portarono a Nakhon reliquie e icone sacre, collocate in una piccola pagoda fatta costruire appositamente. Da allora, pezzo a pezzo, stupa a stupa, gli edifici si sono moltiplicati. Qui i fedeli vengono a portare offerte, pregare, acquisire meriti e acquistare potenti amuleti chiamati Jatukham. A frotte! Ne vengono scaricate pullmanate intere, che paiono le gite del centro anziani o della parrocchia, con tanto di accompagnatore che conduce davanti alle statue e guida alla preghiera. Sono affascinata del pari dall'arte presente in questo luogo, e dai riti che vedo in atto.
statua su cui vengono applicate foglie d'oro come offerta |
le famose reliquie in orma di Buddha che porta il 246 come numero di scarpe |
un portico pieno di Buddhi circonda il complesso |
Buddha magri |
Buddha panciuto |
Buddha orecchioni |
altri Buddha magri e vestiti |
Qua e là ci sono stanze definite "museo" che sono più delle wunderkammer; nella maggior parte sono vietate le foto. Conservano animali imbalsamati, scheletri e conchiglie, amuleti, statue di ogni forma, misura e divinità. La gente si ostina a infilare banconote all'interno delle teche, e mi ricorda l'uso peruano di lasciare monete, foglie di coca e caramelle nei musei, davanti alle mummie e ai crani bislunghi delle antiche popolazioni andine.
Il chedi centrale, quello con con il dente del Buddha, è accessibile tramite scala presidiata da un monaco e da statue di guardiani il giusto inquietanti. Una volta saliti, i fedeli girano attorno alla guglia più volte, toccandola, e facendo risuonare le numerose campane a vento con le mani. Ci sono tanti anziani accompagnati dalle famiglie, e diverse persone che paiono affette da malattie più o meno gravi, e che deambulano a fatica, sorrette da pietosi amici e parenti.
Dopo aver assistito a questo rituale, mi dirigo verso un tempietto gremito di gente, tutta intenta ad accendere incensi, pregare davanti alle statue con i mano fiori arancioni e boccioli di loto, e depositare, per fortuna senza dar fuoco alla miccia, razzetti che paiono i petardi Capodanno. Una addetta in guanti e mascherina passa pochi istanti dopo, armata di sacchetto, a portare via questi piccoli ordigni.
Finita la visita, torniamo alle bici, che abbiamo lasciate, legate, all'interno del primo cortile del wat. Nel frattempo sono sopraggiunte delle danzatrici in abiti tradizionali, con tanto di unghie finte lunghissime, cosa che qui si usa da prima che andasse di moda la nail art. Usciamo da una delle porte istoriate, presidiata da cani randagi e venditori di biglietti della lotteria.
Finora, in bici, abbiamo percorso solo 3km. Ne abbiamo davanti altri 100 e più. Usciamo dalla città passando sotto ai bei lampioni decorati con gli animali dello zodiaco thailandese, che rappresentano anche le 12 città vassalle del regno di Nakhon. Il traffico costringe a prestare grande attenzione, ma, fuori dalla periferia, si dissolve.
Per buona parte della tappa pedaliamo lungo la 408, strada di medie dimensioni che collega paesi e villaggi dell'entroterra, per poi tornare al mare. Fa un caldo devastante oggi, e Gigi lo soffre in modo particolare. Più che persone, incrociamo zebo grassi e dalla gobba turgida che pascolano in ogni striscia di prato lungo o tra le corsie.
Non mancano (e come potrebbero?) le bancarelle a bordo strada. Qui, più che la frutta, si vende il pesce essiccato o fermentato, intero o solo interiora, usate per diverse preparazioni e salse che al nostro naso risultano pesce marcio piccante, fatto e finito. Mi è capitato di assaggiarle in alcuni piatti dei ristoranti. Il sapore non è neanche male, ma l'odore mette a dura prova.
Facciamo una sosta a circa metà tappa, e ormai si va di gelato: fa troppo caldo per qualsiasi altra cosa. Questo è il famoso stecco di Vittorino il Merda.
Poi, finalmente, ecco il mare. Prima si intravede soltanto tra pratoni, pale eoliche (tantissime, qui. Infatti abbiamo il vento contro da tutto il giorno) e palme. Poi si fa vicino, azzurrissimo, turchese e verde tropicale. Spesso ha per controcanto grandi vasche, ora saline, ora allevamenti di gamberetti presidiati da garzette e aironi-cicogna (che spesso stanno addosso, letteralmente, ai poveri zebu, usati come trespolo).
i cartelli delle stazioni di polizia indicano chiaramente che i cicloviaggiatori possono dormirci e usare i bagni e la doccia e trovare un "safe spot" per la notte o una pausa |
Facciamo una seconda, breve sosta, quasi all'arrivo. Fa veramente troppo caldo e dobbiamo trovare riparo dal sole, e riempire le borracce. La gentilissima proprietaria di un ristorante molto street ci fa accomodare al suo tavolo. Approfitto anche per decidere in via definitiva verso dove puntare, per la notte. Qui sulla costa ci sono numerosi "resort", sia sulla strada, sia sulla spiaggia. Uno vale l'altro. Opto per quello recensito meglio, a prezzi che ci piacciono. Poi si riparte, tra palme e zebu, e in un attimo ci siamo.
Il Nisa Resort è gigantesco. Prima c'è il ristorante. Poi un cortile con fontane, gazebo e statue, oltre a una grande sala conferenze usata anche per eventuali concerti o animazione. Poi la reception, dove una cortese signora ci dà la stanza, poi ci lascia in compagnia dei suoi gatti dalla coda a pennacchio, per andare a prendere lo scooter e accompagnarci alla camera. Che è in fondo ad altri cortili, dove sorgono villini, casette e appartamenti, palmeti e piante di mango di quello raro, con i frutti imbustati uno a uno ancora sui rami.
Appena lasciate le bici e le borse nell'enorme camera, mi preparo per andare in spiaggia. Ci andrò sola, chè Gigi è stanco e preferisce riposare al fresco, e in bici, visto che sono quasi 2km di distanza. Essendo completamente bruciata dal sole, tra spalle e schiena, devo inventarmi una tenuta da mare stile grandi ustioni. Et voilà.
Pedalo verso la costa, e metà del percorso è all'interno del Resort. Mi ricorda quello, in Calabria, dove ho seguito un bellissimo "corso di formazione" spesato dal Ministero dell'Istruzione e soprattutto del Merito. In breve, tre giorni di vacanza al mare, con attività sportive incredibili (kayak, vela, trekking sui monti) cibo ottimo e nuovi amici e colleghi simpaticissimi. Era un posto simile, per molti versi.
Seguo le indicazioni per il mare e, dopo qualche minuto immersa nella campagna del sud della Thailandia, tra roghi di sterpaglie, cani randagi e bambini sperduti che giocano in strada, eccomi in spiaggia.
Parcheggio la Signorina Felicita accanto a un gazebo dove è riparata una barca da pesca in secca, e percorro kilometri di costa, camminando e ora qui ora là tuffandomi. Non c'è anima viva, se non qualche isolato local che rimesta la sabbia della battigia con cucchiai e mestoli alla ricerca, credo, di molluschi. Il resto è meraviglia. Rumore delicato di onde, vento tra le fronde degli alberi che giungono sin sulla sabbia. Nuvole enormi, castelli di panna, che mutano colore mano a mano che il sole cala. Conchiglie a perdita d'occhio, nella sabbia chiara color di luna. Libertà. Pace.
medusa! |
Aspetto il vespro e la primissima pennellata acquarello di buio per tornare. In lontananza si intravede un temporale, un muro d'acqua e nuvole nere sul mare. Qui, invece, la luna impallidisce di fronte ai nembi in fiamme nell'istante che precede il crepuscolo e porta la notte.
Per la cena, andiamo a fare la spesa (e pedaliamo ancora! Che stanchesssa con tre s). Finalmente assaggio l'uva dagli acini spropositati, lunghi come le mie dita. Sa di uva normale, ma il gusto nel masticarla, così polposa, è infinito. Ottima! Intanto prenoto l'ultimo albergo thai, ad Hat Yai, città di confine, nodo di spacciatori e puttane, dove i malesi, musulmani timorati di dio, vengono a dedicarsi al vizio. Perchè dio non vede cosa accade di là dal confine. Compilo anche un modulo di immigration per turisti che, forse, serve per entrare in Malesia. Forse no. Ma nel dubbio...
E così si conclude la penultima giornata nella "Terra del sorriso". Che ormai è anche il mio, tanta è la meraviglia che questo luogo ci ha donato.11/8
Pak Trae-Hat Yai
97km
Eccoci qui, all'ultimo giorno di Thailandia. Niente sveglia: oggi voglio godermela con tutta la calma necessaria. Poi i kilometri non sono un'esagerazione, e non abbiamo soste di visita programmate. Gigi ieri, mentre ero in spiaggia, ha pensato bene di fare la doccia e addormentarsi in mutande con il condizionatore sparato a temperature polari, dopo una giornata intera passata a pedalare nella caldazza densa, con il sole del tropico a picco sul cervello. E indovinate un po'? E' raffreddato, ora. Ma dai, chi lo avrebbe mai detto! Ieri, rientrando dal mare, quando mi sono accorta della situazione (un muro di gelo stile sala operatoria mi ha investita appena ho aperto la porta, e alcuni pinguini e una foca sono fuggiti fuori dalla camera), gli ho chiesto se volesse stare in frigorifero per conservarsi meglio, ed eccoci qua. Vado a recuperare il mio caffè doppio, e ci vado in bici, al ristorante del resort. Fa già un caldo che sembrano due, pur essendo ancora basso il sole e lunghe le ombre.
Pronti, via. Imbocchiamo di nuovo la strada di ieri, dopo attraversamento sguerguente con taglio tra corsie e passaggio su aiuola-cordolo. I paesini lungo la costa di stanno svegliando, e incrociamo pastori che portano gli zebu al pascolo, venditori che sgasano sulle loro bancarelle su ruote, motorizzate e cariche di cibo e merce per la giornata, e pullman più o meno grandi, colorati, fatiscenti, tamarri e improbabili, con o senza musica a palla, che trasportano anime, al lavoro, a scuola, da una capitale all'altra, da un mercato a quello più in là. Domani poi è un lunedì di festa per il compleanno della regina, quindi c'è ponte, weekend lungo e vacanza.
La cosa che stupisce davvero, però, è la quantità abnorme di templi, edifici sacri, pagode, chedi, crematori e statue buddhisti. Sono quasi tutti di recente costruzione, alcuni addirittura ancora con cantiere aperto. Ho il sospetto che sia un modo, da parte del governo e della maggioranza thai, di ribadire che la religione nazionale, cui la monarchia è legata a doppio filo, è questa. E non quella musulmana, che pur qui nel sud è tanto diffusa. Devo aprire una parentesi riguardo ad una sorta di "guerra dimenticata" che, purtroppo, ha tinto di sangue rossocupo le strade di queste province meridionali: dal 2004 sono morte oltre 6000 persone.
Noi non vediamo i convogli militari che rombano tra i sonnolenti villaggi costieri, e non dobbiamo sottoporci ai test del DNA che il governo impone obbligatoriamente ai residenti (per individuare eventuali terroristi) ma notiamo un numero maggiore di posti di blocco e caserme. Il punto è questo: l'80% della popolazione delle tre province dell'estremo sud (Pattani, Narathiwat e Yala -1.8 milioni di persone) è malay musulmana, con una propria lingua e una radicata propensione a rivendicare l'indipendenza di cui godeva questa terra secoli orsono. I 12.500-15.000 separatisti la chiamano Patani, il nome del sultanato grande come il Qatar che fiorì da queste parti, con un apice di splendore tra XIV e XV secolo. Per loro il governo thai è una potenza coloniale e i buddhisti sgraditi intrusi. In tutta risposta, sono stati schierati 150.000 tra membri dell'esercito, della polizia e della milizia, vittime di imboscate lungo le strade di campagna, tra le palme da cocco, o di esplosioni con ordigni sempre più sofisticati. Non passa settimana che un agente non venga ferito o ucciso.
Ma questo odio, che prende la forma di lotta armata, serpeggia anche tra i civili, tra vicini di casa, secondo l'intramontabile legge del taglione: buddhisti e musulmani vengono freddati mentre tornano a casa in motorino, decapitati nelle piantagioni di gomma (pilastro dell'economia locale) o fatti saltare in aria con bombe che esplodono nei mercati. I monaci buddhisti, al mattino, durante la questua, vengono scortati dalla polizia, e le moschee sono crivellate di colpi di arma da fuoco. I ribelli non hanno mai attaccato fuori da questa regione, forse per evitare di creare danni che si ritorcerebbero loro contro (se il turismo venisse frenato, ad esempio, il governo risponderebbe di certo con grande violenza); non hanno un leader, cosa che rallenta i rari negoziati di pace, e non sono affiliati ad altri gruppi terroristici islamici, come quelli indonesiani o filippini.
Le tensioni si sono inasprite dal 2004 quando 32 sospetti ribelli separatisti di fede musulmana, asserragliati dentro ad una antica moschea di Pattani, sono stati brutalmente ammazzati dall'esercito. Ed è, purtroppo, una storia che si ripete da secoli. Dal XVI secolo il sultanato di Patani si trovò suo malgrado a più riprese sottomesso ai thai e, dopo il trattato anglo-siamese del 1909, venne definitivamente annesso al Regno del Siam. La Gran Bretagna concesse a Bangkok la sovranità su Patani, a patto che il re rinunciasse a qualsiasi pretesa sugli altri territori malay (Malesia in primis), sotto il dominio della corona inglese. Da allora la Thailandia, paese buddhista più popoloso al mondo, ha fatto il possibile per assimilare l'estremo sud: chiusura forzata delle scuole islamiche, obbligo per i bambini di studiare in lingua thai (che per loro resta una seconda lingua) e di seguire corsi di religione buddhista, come parte del programma scolastico nazionale, nonostante siano musulmani. Le posizioni amministrative non sono affidate a membri della comunità locali, ma a thai che vengono mandati da altre zone del paese. Essendo i disordini confinati solo alle tre province citate, e in minor parte a Songkhla, pochi thailandesi conoscono le vere ragioni del conflitto e le richieste dei separatisti. Inoltre, poichè l'indottrinamento nazionalista parte dai banchi di scuola ed ha un'influenza potente, sia l'opinione pubblica sia la classe politica ritengono inconcepibile le richieste di autonomia, che sarebbe forse l'unica soluzione per porre fine alle violenze.
Quindi eccoci qui, su una strada dove, per ogni villaggio di 10 abitanti, c'è un tempio enorme con decine di edifici minori collegati, bene in vista, perchè sian chiare le cose a codesti maomettani bombaroli.
primo reperto della giornata. Oggi, tanti, al punto da far chiedere a Gigi se davvero voglio portarli tutti a casa. Ovviamente: SI' |
Intorno alla metà della tappa, a poco meno di 50km, facciamo una prima breve sosta: il caldo comincia a dare alla testa e a rallentare i pensieri. Il vento contrario ha lo stesso effetto sui movimenti. Insomma, a malapena riusciamo a tenere una velocità minima per stare in equilibrio sulla sella. Oggi mi sento in vena creativa, sarà che da domani non saremo più in Thailandia, e voglio assaggiare quelle cose che mi ispirano dal giorno zero ma non ho avuto ancora il coraggio di provare. Iniziamo dalle bananine microscopiche essiccate e rigirate in perline di nonsochè. Dolcissime, morbide, scrocchiarelle per le palline. Buonissime.
Dopo aver bevuto come cammelli assetati, ripartiamo, per entrare nella regione si Songkhla. Non attraverseremo la città, che richiederebbe un detour complicato con tanto di traghetto sul fiume. Ci accontentiamo della sua perla, l'isola Ko Yo. Dovete sapere che Songkhla, solo marginalmente interessata dai disordini dei separatisti, è definita la "meravigliosa città su due mari" perchè si trova su una sottilissima striscia di terra (su cui stiamo pedalando) chiusa tra il mare, a est, e un enorme lago, a ovest. Qui è tutto un crogiolo di culture, thai, cinesi, malesi... Ma di turisti, soprattutto farang, se ne vedono ben pochi.
Noi imbocchiamo i ponti che portano su un'isola che sta accanto alla città, in mezzo al lago. E' un luogo famoso per l'industria di lavorazione del cotone, i ristoranti di pesce, frequentati da local che qui vengono in scampagnate di giornata, e un tempio con un grande Buddha sdraiato che noi vediamo di schiena, per non dire di culo (e inizialmente scambio la testa riccioluta per un durian -frutto cui sono dedicate molte sculture in tutto il paese).
Il paesaggio è davvero incredibile: azzurro ovunque si guardi. Mare, lago, fiumi, cielo. Azzurro. Meno poetiche, per me, le bancarelle che vendono pesce: fresco, essiccato, fermentato, intero o a tranci, in forma di salsa, di chips, di pelle fritta. Non so come dirlo in modo evocativo... Puzza. Puzza fortissimo. L'odore, amplificato dal caldo, stordisce. Ma dura poco. Nel giro di un attimo, con un ultimo ponte, siamo di nuovo sulla terraferma.
Facciamo sosta a 16km dall'arrivo, sempre a causa del sole che ormai ci ha portati oltre la soglia del coccolone. L'area di servizio sa di confine: è enorme, incasinata, piena di volti dalle caratteristiche diverse, donne velate o meno, carnagioni chiare o scure, occhi a mandorla o no. Davanti al 7-Eleven c'è un grande altare, e sparpagliate tra le bancarelle collaterali, immagini enormi di vecchi monaci semi-mummificati e molto corrucciati. Mentre cerco per Gigi una crema lenitiva, mi accorgo della quantità preoccupante di prodotti per la cura della pelle e del corpo "sbiancanti", che promettono incarnato roseo, biancolatte, pallido come la luna d'inverno. Qui è un canone estetico forte, soprattutto, ovviamente, per le donne, che subiscono pressioni diverse, ma nella stessa direzione, in tutto il mondo. In effetti che la gente eviti ad ogni costo il sole lo avevo notato: cappelli, passamontagna, maniche e pantaloni lunghi, guanti, ombrelli... Ma pensavo fosse per ragioni di salute e benessere. Invece no, o non solo. E' una questione estetica. Per essere belli, bisogna essere di pelle chiara. E via di creme sbiancanti per il viso, deodoranti che hanno una sorta di fondotinta rosato, saponi schiarenti, polveri magiche. D'altronde qui i modelli delle pubblicità sono tutti la versione thai di attori di sitcom statunitensi anni '90, con tagli, stile, abiti e pose che richiamano Friends e quell'immaginario lì.
il caldo cuoce le mani dove appoggiano sul manubrio |
yoghurt da bere con succo di frutta all'uva e pezzetti morbidi da masticare di polpa di cocco; delizia per ciclofarang distrutti dal caldo tropicale |
Ripartiamo, e manca poco. Hat Yai, con i suoi 200.000 abitanti, ci attende. E' il crocevia urbano più trafficato del sud della Thailandia, essendo l'ultima grande città prima del confine (che dista 57km); prima solo templi, anche immensi, poi stradoni e negozi, e traffico, e scuole gigantesche. Poi campi da golf, centri commerciali, mercati, bancarelle gastronomiche estremamente invitanti. Hat Yai è dove i malesi vengono a spassarsela con le prostitute, a ubriacarsi, ingozzarsi di buon cibo e poi tornare nella vicina patria, dove il rigore morale islamico fa sembrare tutti integerrimi padri, mariti, uomini di dio. Già. Tranne nei weekend, nelle notti brave di Hat Yai.
Facciamo check in nel centralissimo Thanapat Hat Yai hotel dove, dopo la doccia, crolliamo stremati per un'oretta di sonno da caldo ingestibile. Intanto scende la sera, e giunge anche l'ultimo tramonto thai di questo lungo breve viaggio.
Per cena ci concediamo uno dei molti rinomati ristoranti del centro, dove le ragazze che ci lavorano non parlano un'h in inglese e quindi ordiniamo un po' così, come capita. Ci portano una frittatona di verdure e del riso all'aglio, per Gigi, e una preparazione di erbette speziate con gamberetti croccanti, per me. Devo dire: tutto eccellente! Che sia un posto da sciuri si capisce dal fatto che abbiano intere bottiglie di vino esposte, e musica jazz occidentale.
Siccome abbiamo ancora un pericoloso mix di fame e baht da spendere (in Malesia ovviamente si cambia valuta), passiamo in un negozio a fare una spesa di schifezze da sgranocchiare in camera. Si parte con le arachidi bollite giganti, che si mangiano calde, e sanno di un mix di piselli crudi e peanut butter
per poi spostarsi a lattino caldo di cocco con pezzi di polpa e sago, l'amido di palma, in questo caso rosa, non chiedetemi perchè.
Da ultimo una gran confezione di longan (occhio di drago, tipo lytchees ma con buccia liscia e gialla); essendo un prodotto da poco in vendita al 7-Eleven, alla cassa vengo fotografata dai commessi, tutti emozionati, che mi chiedono poi il permesso di pubblicare la foto sui social dell'esercizio commerciale. Ma come no! Sarà la faccia da farang che promuove i longan in busta regalo.
E così ci siamo. Domattina partiremo presto, in modo da essere al confine entro mezzogiorno. Abbiamo tutti i documenti in ordine, e ho già prenotato il primo hotel malese, ad Alor Setar. Anche qui con 9 euro si dorme in centro in due, con bagno privato e amenità varie. Il passaggio delle frontiere, comunque, mi mette sempre un po' in agitazione. Saranno le brutte esperienze vissute tra Russia, Bielorussia, Iran, Turkmenistan, Uzbekistan e Mongolia... Ma questa volta dovrebbe davvero andare tutto liscio. In ogni caso, lo scopriremo domani stesso.
12/8
Hat Yai-Alor Setar
107km
Eccoci qua, dall'altro lato. E' andato tutto bene, siamo in Malesia. L'impatto con questo paese, per me nuovissimo e inesplorato, è stato forte in tutti i sensi. Intenso, adrenalinico, di enorme curiosità che, avvicinandomi, come gli incendi con il vento e i grandi amori con la distanza, divampa.
Ma lasciatemi raccontare con ordine. Questa mattina sveglia presto: i kilometri sono abbastanza e le incognite da frontiera anche. Abbiamo riadattato i bagagli alle nuove esigenze: via i k-way da monsone pesante, fuori i pantaloni bracaloni e, per me, pure una pashmina che può fungere da velo quando visiteremo le moschee. Fuori passaporto e visto thai. Due giri in ascensore perchè il caffè non si fa da solo, soprattutto se non ci sono le tazze e nemmeno il caffè (per fortuna ho tutto io) e poi siamo pronti, la strada ci chiama.
Subito siamo costretti a una deviazione che allunga un poco la strada e impone a me una navigazione di cabotaggio: c'è un mercato incasinatissimo proprio dove dovremmo passare, e non abbiamo cuore di affrontarlo così, subito nelle prime centinaia di metri in sella.
Dopo qualche zigzag nella città che, zone di bancarelle a parte, è deserta, ci troviamo di nuovo sullo stradone che porta al confine. Ci sono tre frontiere aperte tra Thailandia e Malesia. Noi abbiamo scelto quella di Sadao perchè pare sia la più attrezzata, la più rapida e la meno problematica. Inoltre consente di tagliare un po' di kilometri ed arrivare direttamente quasi alla costa sull'Oceano Indiano, che è proprio dove abbiamo intenzione di pedalare. Lo stradone che mena a Sadao è poco trafficato, se non in concomitanza dei paesini che vi si affacciano. Si respira un'atmosfera da Far West, da margine, da zona liminale. Atmosfera di frontiera. Incrociamo tutte le colline che diventano poi, nel nord della Malesia, le famose, verdissime highlands che ricordano un po' la Scozia. Qui sono campi, palmeti, risaie, piantagioni di alberi della gomma e marcite.
Pure da queste parti i wat e i templi buddhisti sono tantissimi, grandi, sproporzionati, in bella vista sul ciglio della strada. Sanno forte di propaganda e puzzano di manifesto, ma tant'è. Presto li rimpiangerò, lo so già. Se le religioni, in generale mi insospettiscono, quelle monoteiste con vocazione al proselitismo mi stanno proprio antipatiche. Per non dire di peggio, e di più vero. E comunque le moschee abbondano anche qui. Ma sono piccole, umili, dimesse, quasi nascoste.
I primi 60km, controvento, nel saliscendi continuo, passano svelti perchè abbiamo voglia di arrivare presto al confine e superarlo. Non facciamo soste, avanziamo lenti, ma in modo costante, superando via via i cartelli che segnalano la frontiera sempre più vicina. Ultimi saluti a Buddhi benedicenti ed eccoci nell'ultimo agglomerato polveroso di case e anime che precede i posti di blocco. Qui abbiamo un po' di questioni logistiche da sbrigare. La prima, che mi riesce in maniera superba e sopraffina, con mia massima soddisfazione (mi ride proprio il buco del culo, per dirla in francese) è spendere gli ultimi baht. Ne abbiamo pochi, perchè abbiamo fatto bene i conti, e non vale la pena cambiarli. Meglio convertirli in beni di consumo, e ritirare poi al primo Atm il contante malese. Quindi depredo il 7-Eleven. Con 300 baht (7.8 euro) compro mezzo negozio. Collutorio, sapone, crema solare, inalatori al mentolo da cui ormai sono dipendente, barrette ai cereali, cose fresche da bere, banane... Insomma, due borse piene di robba con due b. Avanziamo due monetine a testa: Gigi 1.25 baht, io 0.75. Che goduria.
Secondo accollo: la Sim card. Entro in uno dei numerosi negozi di smartphone e trovo ciò che cerco. Vendono Sim sia thai sia malesi, a prezzi ridicoli. La attivo e pare funzionare tutto. Ora ci siamo davvero: è il momento di andare all'ignoto, al controllo passaporti, ai timbri di uscita e di ingresso.
Di foto del passaggio non ne ho. Come sempre, è vietato farne e non voglio sfidare la sorte. Ho letto diversi resoconti di altri cicloviaggiatori che sono passati di qui. Dicono di seguire le indicazioni per le moto, e dare per scontato che i bagagli non vengano controllati (quindi lasciare le borse sulla bici e la bici fuori dagli uffici). Così facciamo. Per l'uscita dalla Thailandia mi accodo a un gruppo di harleysti, le cui donne, sotto al casco integrale, sopra al giubbotto di pelle d'ordinanza, portano il velo. Che strana commistione. Lasciamo le bici in vista (purtroppo ogni anno qualche amico pedalino subisce il furto del mezzo o persino di tutti i bagagli proprio alla frontiera, durante i controlli, mentre è in coda negli edifici e la bici resta fuori. E' successo persino a Raymond Puill lo scorso anno a Tijuana, mentre dal Messico entrava negli USA... Gli hanno portato via letteralmente tutto, tranne telefono e passaporto che aveva con sè). L'attesa è minima. Nè fuori, in strada, nè dentro, agli sportelli, ci sono molte persone, e i funzionari sono tanti e celeri. E dire che ho letto di cronache spaventose di ore e ore di attesa e kilometriche file di camion... La donnona in divisa che mi prende il passaporto e ride quando le do il visto, e mi dice che quello serve solo per entrare. Ah, pensavo scadesse 60 giorni dopo il rilascio... Buono a sapersi, la prossima volta resto un anno intero! Rido anch'io, per educazione, e mi godo il momento sempre meraviglioso del timbro. PAM! E arrivederci. Aspetto Gigi alle bici e poi insieme ci dirigiamo ai controlli in ingresso malesi. La via è tortuosa, tutta curve e dossi, strettoie e ingressi vietati. A tratti pare che si stia tornando indietro, Gigi si fa prendere dall'ansia e mi chiede cose che non posso sapere, perchè è anche per me la prima volta qui. Saltiamo alcune auto in coda per la dichiarazione di beni di lusso e denaro contante (noi abbiamo, in due, 2 baht nel portafogli e qualche euro nascosto in fondo alle borse, ma un largo sorriso). Chiedo a una guardia che, come tutte le guardie, parte sulla difensiva perchè capisce poco e niente, di inglese e in generale, ci fa brutto, ci chiede i passaporti, ci squadra e confronta con le fototessere... Poi però intende, ci dà indicazioni e diventa tutto affabile e simpaticone. Ma vaffa... Vabe', poco male. Nel giro di un attimo siamo al box dei timbri in ingresso per la malesia. Vengono scansionati il passaporto, e i diti indici. Il funzionario mi chiede dove siamo diretti: gli rispondo che today ad Alor Setar. Mi corregge la pronuncia. Setàr, non Sètar. Leviòsa, non Leviosà! Ma vaff anche tu, Hermione dei miei cogl... PAM! Altro timbro. Risposta esatta, evidentemente, anche se accentata male.
Aspetto Gigi, ed eccoci di qua dalla linea. Pazzesco, abbiamo già fatto tutto. Non mi par vero. La leggerezza è tale che potrei pedalare a un metro da terra, come se avessi un grappolo di palloncini colorati e gonfiati ad elio sulla schiena
Fino alla meta di oggi la strada è sostanzialmente una e non si scappa. Si tratta della AH2, una sorta di autostrada che corre tutto lungo il paese come una spina dorsale. Ho letto che in questo primo tratto è ancora ancora percorribile in bici, poi non è vietata ma diventa pericolosa. In effetti qui la corsia laterale è impraticabile: non è asfaltata è occupata da detriti, fossi, immondizia e ostacoli di varia natura. Tocca stare sulla più esterna delle due corsie (anche qui si guida all'inglese, come in Thailandia. Ormai siamo abituati). Nei primi kilometri il traffico è nullo, e si viaggia in tranquillità sull'asfalto liscio, su e giù per le collinette circondate da foresta o coltivazioni di palme o alberi della gomma. Ne approfittiamo anche per ritirare un po' di contante. Qui pure il costo della vita è molto basso, e poi pare che le carte di credito siano decisamente più diffuse e utilizzabili, quindi stiamo su cifre adeguate per le due settimane e mezzo che passeremo in questo paese. Ed ecco i primi ringgit. 5 di questi equivalgono a un euro.
Ci rimettiamo in marcia: abbiamo ancora 40km da percorrere e fa un caldo devastante. A bordo strada compaiono cartelli che richiamano all'attenzione per le scimmie e per mucche. Noto che siamo tornati all'alfabeto latino, cosa che mi fa sentire un po' meno analfabeta, e che tante parole suonino buffe perchè ricordano un poco l'inglese (i furgoni, lorry, sono "lori", il caffè "kopi", la scuola "sekulah"...). D'altronde qui siamo in ex colonia. La lingua per sè è del ceppo austronesiano, anche se ha assimilato molti prestiti che si sentono tutti. I primi kilometri collegano isolati e cadenti duty free, paesucoli microscopici e sparute bancarelle di poponi vegliate da donne con velo e mascherina.
tempietto hindu di Shiva |
Poi, tutto a un tratto, la strada diventa una bolgia di traffico. E dobbiamo rimanerci per un bel pezzo ancora! Camion con rimorchio scodinzolante, fuori controllo, di quelli tutti colorati, che cadono a pezzi e fan fumo come locomotive a vapore, con la Trimurti come polena, sfrecciano a 130km/h, sa dio solo come, e non si peritano minimamente di allargare, passando a pochi centimetri dalle borse, dalle gambe e dal manubrio. Più volte lo spostamento d'aria ci fa finire fuori strada, nel prato o nella ghiaia, e Gigi rischia di essere persino agganciato dal cordame sparse che frusta il vento dal rimorchio malchiuso. E, quanto passiamo dalle città, diventa ingestibile anche il traffico di macchinoni e auto tamarre guidate in maniera "sportiva", ovvero alla speroinAllah, alla passo io a prescindere, gli altri si fermeranno. Idem i motorini, che pure qui sono tanti e viaggiano come uno sciame impazzito in ogni direzione e senso di marcia. Il concetto di "dare la precedenza" è del tutto sconosciuto. Ben noto quello di prendersela di prepotenza, tra sclacsonate, stridio di freni e urla incazzose alle rotonde (dove pure noi rischiamo di essere schiacciati da un tir che proprio non ci ha visti. Almeno spero. Altrimenti sarebbe proprio omicidio volontario).
Tra il caldo, la stanchezza della giornata e questo casino pericolosissimo, cerchiamo il modo più rapido per uscire da questo stradone infernale. Non che l'altro, solo di poco più piccolo, sia tanto meglio. Ma almeno i semafori costringono a velocità più sensate.
Passiamo da Jitra, roccaforte inglese contro l'invasione giapponese durante la Seconda guerra mondiale (qui fu combattuta una delle più importanti battaglie della Malesia), con le sue aziende del cibo halal surgelato, e inizia il richiamo alla preghiera, che si espande e corre di minareto in minareto, nel ronzio degli altoparlanti e il canto sacro dei muezzin. Che vibes! Mi ricorda i primi viaggi in bici, in Turchia e attraverso i Balcani. E ancora più indietro, il primissimo viaggio in gruppo ristretto, con due compagni e due prof, per uno scambio tra istituti, ad Antalya. Questo suono, che ora vibra e poi cade al silenzio nell'aria tremula di caldo, mi sa proprio di orizzonti lontani.
Su strade un poco più tranquille raggiungiamo quindi Alor Setar. E' la capitale dello stato del Kedah (la Malesia è una monarchia federale). Dopo Sungai Petani, da cui passeremo, è la seconda città più popolosa della regione, ed una delle più importanti della costa occidentale, anche grazie alla sua posizione strategica vicino al confine thai. La fondazione risale al 1785, la ferrovia al 1915 e l'aeroporto al 1929, conta 400.000 abitanti... E questo sono i numeri. Il nome significa "piccolo fiume" (alor) della pianta di mango-prugna (setar). Nel 2003 è stato cambiato in Alor Star, e nel 2009 si è tornati all'originale. Mango-prugna batte stella 1 a 0.
Prima qui c'era un villaggio, trasformato poi, nel XVIII secolo in ricca città dalla prospera agricoltura e posizione ottimale, per diventare sede di un sultano locale. Mettici le lotte tra vicini signorotti, l'invasione del Siam, quella britannica e quella giapponese. la popolazione qui ha isto susseguirsi tante corone, e son tutte caute. Malesi, cinesi e indiani sanno qui bene cosa sia la "ruota della Fortuna" dei Carmina Burana. Certo ad oggi è una città segnata più da architetture prepotentemente contemporanee, che non da quelle storiche. La terza torre delle telecomunicazioni più alta del paese, oltre a grattacieli e palazzoni, svettano pure quando li si guarda negli occhi dai cavalcavia.
Noi ci buttiamo in centro, all'alloggio prenotato ieri per ben 8 euro e spiccioli. Temo sia un pulcioso orifizio lurido, invece è un alberghino modesto ma fornito di tutto, in posizione furba, vicino a tutto. Si chiama Bee garden, della catena OYO (già sperimentata in tutta la sua sporcizia negli USA... E qui ci torneremo spesso, visti i prezzi. E non ci sono nemmeno blatte, topi e cimici dei letti, a differenza di quanto accadeva con le stelle e con le strisce).
Check in, bici in magazzino protetto, tassa di soggiorno da 0.2 euro, cauzione per la chiave, saluto a tutti i ragazzini in gita che soggiornano ai piani sotto e siamo pronti per concludere le faccende logistiche. Davanti al motel, a pochi passi di distanza, c'è un enorme centro commerciale super moderno, con tutti i brand e le catene internazionali (dal McDonald's ad H&M, Samsung e KFC). Noto che nei minimarket i prodotti sono diversi dai quelli thai, sono di marchi più noti, ma c'è meno varietà, meno fantasia. Però danno il resto in barrette di cioccolato tipo Sneackers malay: ciascuno vale 2 ringgit, meno di 0.5 euro. Un affarone a prescindere!
Prima di cena mi tocca pure rifare la Sim. Ho scoperto con orrore che costava così poco perchè a velocità limitata, e con velocità limitata intendo che non partivano neanche i messaggi di due parole su Whatsapp. Ma come fai a usare 30 giga con quel passo? Quindi via a farne un'altra, stavolta più costosa (12 euro da dividere in due) e seria, con registrazione del passaporto, giga illimitati e velocità pure. Vale per un mese, non dobbiamo nemmeno rinnovarla. Noto che in questo negozio di telefonia (Maxxis) due commesse su tre hanno il velo. Rispetto ai racconti di mia made, che risalgono a quasi 40 anni fa, la situazione sta cambiando anche qui. Si sta secolarizzando. D'altronde, o questo, o la polarizzazione opposta verso l'estremismo. Viviamo un'epoca che sempre meno conosce l'antico adagio dell'in medio stat virtus. L'unico medio è il dito, alzato, e puntato sul grugno al buon senso.
Già che siamo qui, e abbiamo perso un'ora a causa del fuso, ceniamo in un ristorante specializzato in noodles tirati a mano. Io prendo quelli con la "salsa speciale" (il famoso seCreto dello chef), che è un mix leggermente piccante di funghi, fagiolini e semi croccanti. E' una cosa paradisiaca. Gigi, che non mi ascolta, ricade su un riso con pomodori e frittata. Piccantissimo. Da condividere prendiamo un piattone di verdure cotte miste saltate e speziate, anche queste un po' piccanti. A me piace davvero molto... A Gigi un po' meno, ma temo dovrà abituarsi e farsene una ragione.
Qui di occidentali se ne vedono pochi. Esce anche la cuoca e ci chiede di dove siamo. Le rispondo: Italia, per questo siamo venuti a mangiare i noodles. Se la ride. Dice che un giorno le piacerebbe visitare il nostro paese, anche se la vede dura. Costa tanto. Le dico che se viene a Milano posso ospitarla. Ribatte: è in Europa? Le spiego che è una città grande nel nord Italia. Le si illumina il viso. Poi la chiamano: è arrivato un ordine, deve tornare in cucina. Ci salutiamo così, alla veloce, e le auguro il meglio.
Oggi poco prima del confine ho trovato a terra, arrotolate tra loro, due bandierine malesi. Le ho prese, una per e una per Gigi. Lo considero un buon segno. Stasera, per la terza volta, rifaccio tutte le tappe da qui a Singapore (un po' più di 1100km, rispetto ai 3450 già pedalati). Ho capito un po' meglio come funzionano le strade qui, e come distinguere, sulla carta, quelle grandi, trafficate e pericolose, da quelle tranquille. Con l'esperienza, nei prossimi giorni, raffinerò ulteriormente la traccia. Pur avendo allungato sul totale dei kilometri, la media giornaliera scende. Siamo a buon punto e non seve più far corse o tapponi sopra ai 100km. E ci concediamo 2 giorni a Kuala Lumpur, 1 a Malacca e 3 a Singapore, dove dovremo anche recuperare tutto il necessario per imballare bici e borse. Insomma, tutto è in ordine e di cose belle da vedere e vivere ce ne sono ancora tantissime. Ora siamo proprio tra il cuore e la pancia del viaggio, nel suo pulsare potente e intenso. Arrivederci, Thailandia! E ciao Malesia, siamo arrivati!
la bandiera è un misto tra quella U.S.A. e quella turca.
RispondiEliminaÈ sempre bello leggervi, grazie, buona strada ciao 👋🚴
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