15/7/18
Terzo giorno di deserto.
Oggi è stata una giornata
incredibile di luoghi e volti, chè abbiamo incrociato, nella più inospitale
natura, i cuori più gentili; come se solo così, rimanendo umani, e tendendo la
mano a chi ha bisogno, si potesse sopravvivere al deserto. Da casa mi scrivono
una citazione di Nietzsche: “Il deserto cresce. Guai a chi in sé cela deserti”.
E infatti qui l’arida infertile distesa di nulla sta solo fuori, immensa e
terribile, ma mai dentro alle persone. Loro sono immensi giardini fioriti. Lo
sapeva bene Leopardi, quando scrisse della ginestra/contenta dei deserti e di
quell’orror che primo/ contra l’empia natura/ strinse i mortali in social
catena.
E’ stata pure una tappissima in
termini puramente ciclistici, poiché abbiamo percorso più di 140km, con le
solite salite (ma meno vento) e una temperatura che ha superato i 50 gradi a
mezzogiorno. Tutto nel mezzo del più assoluto niente, cosa che ci ha costretti
fin dalla sera prima a scarrozzarci litri e litri di acqua caldissima (bolle in
un istante quando si cucina), nonché a razionare tutto, persino l’ombra, così
rara e così preziosa. Non si può sbagliare qui, non si possono commettere
leggerezze, sperare nel fatto che una soluzione si trova comunque e senza
problemi. Servono calma, razionalità, pazienza, attenzione e logica. Ogni
errore di calcolo, anche piccolo, si paga a caro prezzo.
Riavvolgo il nastro della
giornata.
La sveglia è stata presto, come
sempre: alle 6 il sole già era ben alto sopra l’orizzonte; abbiamo fatto colazione
e siamo ripartiti in fretta, salutando quel giaciglio di fango secco e stelle in cui
abbiamo dormito.
In strada già si sente il sole bruciare sulla pelle, in una
luce ancora bassa che crea un effetto di straniamento rispetto al caldo che fa.
L’alba è da poco passata ma l’aria già tremola per la temperatura che sale e
sale. Sappiamo che non ci sarà nulla fino alla cittadona di Tabas, che avevamo
preventivato di raggiungere domani (e invece! Il potere della promessa di
potersi fare una doccia e bere qualcosa di fresco, o che sia almeno a meno di
40 gradi). Tuttavia un cartello indica che di lì a pochi kilometri si trova una
moschea. In mezzo al nulla, nel pieno deserto del Kavir, a 100km di distanza da
qualunque altra cosa umana, se si esclude la fine striscia d’asfalto su cui
corriamo come una freccia scoccata. Però poco importa quale urgenza abbia
condotto a costruire qui un tempio: moschea significa acqua. Per lavarsi, per
bere. Acqua! Viva Maome’ e tutti i suoi accoliti se l’idea di un paradiso prima
o dopo induce l’uomo a far sgorgare acqua nel mezzo del deserto.
Una volta giunti in loco, capisco
il perché del luogo sacro, e qualche brivido, nonostante il caldo, mi viene. A
breve distanza c’è quello che pare un cimitero di mezzi militari: due
elicotteri, una carcassa d’areo con verniciatura mimetica, pezzi di metallo
arrugginiti. Si tratta dei cimeli della catastrofica operazione Tabas, op.
Eagle Claw, del 1980, con la quale il governo statunitense tentò di portare in
salvo i 52 diplomatici americani presi in ostaggio nell’ambasciata di Teheran
(i quali furono rilasciati solo 444 giorni dopo, a seguito di infinite
trattative, e nemmeno sotto la presidenza di Carter, ma del neoeletto Reagan).
Qui tre elicotteri degli otto partiti da una portarei di stanza nell’oceano
indiano furono danneggiati irrimediabilemnte, uno da una tempesta di sabbia,
uno dalle temperature che misero fuori uso la strumentazione di bordo e uno per
un guasto. Inoltre il campo d’appoggio, chiamato Desrt One, dove due c-130
attendevano gli elicotteri per rifornimento di carbirante, proprio dove si
trova ora la moschea, era pensato per usare come pista di atterraggio la strada
normale, quella dove siamo passati pure noi in bici. Qui i marines stavano
mettendo in sicurezza il campo, quando un contrabbandiere di gasolio, che
transitava di lì con una cisterna colma di carburante, tentò una fuga pensando che
si trattasse di un posto di blocco della polizia iraniana. I marines, con le
solite maniere delicate, tentarono di dissuaderlo con un LANCIARAZZI; la
cisterna prese fuoco e si sviluppò un incendio enorme, che illuminò a giorno
kilometri e kilometri di deserto: l’operazione ormai era tutt’altro che
segreta, oltrechè priva di sufficienti mezzi. Il presidente degli Stati uniti
ordinò dunque di interrompere tutto e chiuder baracca prima di perdere altri
uomini e far figure peggiori.
Dopo questo tuffo in un tragico
capitolo della storia recente, approfittiamo dell’acqua fresca della moschea,
che ora però sento un po’ meno dolce, e, dopo esser stati avvicinati dai pochi
presenti, ripartiamo alla volta del deserto, che qui è di sabbia finissima e
con le dune, che si alzano fino all’orizzonte dove le montagne si alzano come
parenti più anziani di quella sabbia, che pure è più antica e ne rappresenta la
forma umile, sbriciolata dal tempo. Qua e là intorno si scorgono ancora i segni
dell’incendio, e uno strato nero copre il terreno.
Il Puill si ferma a far accendere
la sigaretta ad un camionista mentre io son sempre più preoccupata del fatto
che non riesco a comunicare con i miei genitori. Inizio a pensare a tutte le
ansie che possono montare in loro e alla possibilità, non remota, che se non
ricevono notizie da me ancora per qualche ora, organizzino una missione che
Carter levati proprio, con annessi e connessi.
Intorno sta muta la sabbia
“mentre che ‘l vento, come fa, si tace” (la bufera infernale del Canto V della
Commedia è la cosa più vicina alle raffiche contrarie dei giorni scorsi, e mi
sento graziata come Francesca quando può scendere un attimo dalla giostra del
turbine per parlare con Dante).
Le temperature intanto salgono
inesorabilmente e l’orizzonte tremola e mi appare sfuocato. Mi bruciano gli
occhi, ormai esplosi come pop-corn, l’acqua è rovente, sono roventi la bici, il
manubrio, il caschetto. Dalla borraccia, qundo si versa acqua meno calda, esce
fumo sottile. Intorno pietra nera, ora, e laghi prosciugati di cui è rimasto
soltanto il sale. Tutto è sete. Tutto è arsura. Approfittiamo di un cartello
che fa un filo d’ombra per togliere il cervello dalla morsa dei raggi spietati.
E dopo un po’ di frutta secca e acqua-brodo, ci vien l’idea di leggere cosa
stia scritto sul cartello: a 25km da lì c’è un pronto soccorso della Mezzaluna
rossa, EMS. Ce ne sono ogni 50-100km pure qui in mezzo al deserto. Avranno
acqua! Ottimo, puntiamo lì.
Mentre pedaliamo in un caldo
infero il paesaggio cambia ancora. Sassi e roccia neri. Miniere spalancate come
un grido muto nel cielo abbacinato. Carbone. Buchi nella pancia della terra,
ulcere al sole. C’è chi qui deve spaccare la pietra, e chi lo ha fatto in
passato, con il piccone e il sudore e gli occhi che si fanno opachi mentre le
forze evaporano. Miniere.
Vediamo il primo dei molti
cartelli che avvertono gli automobilisti di fare attenzione alle pantere, o ai
leopardi, o quello che sono queste bestie curiose. Dapprima penso si tratti di
una trovata pubblicitaria per dire di non correr troppo come ghepardi. Poi il
Puill mi spiega che ha letto sulla guida che qui ci sono veramente sti gattoni,
per quanto rarissimi e in via di estinzione e più sui monti Zagros ed Elburz.
Figata! Scopro poi trattarsi di panthera pardus saxicolor, una sorta di
leopardo più piccolo di quello africano, diffuso dalla Turchia al Caucaso
all’Afghanistan; qui in Iran ce ne sono circa 800 esemplari registrati
all’anagrafe felina. Allora non solo veglio vedere un camillo, ma anche un
pardo! Magari non di notte mentre dormiamo all’addiaccio però. E magari vivo,
non come tutte le carcasse in putrefazione di cammelli che emanano un puzzo
fetido a bordo strada.
pantera sul cartello |
Ormai disfatti dal caldo, e
sciolti come s’è sciolta la vernice delle mie scarpe Shimano che tanta strada
han visto, arriviamo finalmente al campo del pronto soccorso. Sembra
abbandonato e deserto (logico), ma scorgiamo un’ambulanza lustra che riposa nel
garage e alcune scarpe fuori da uno degli edifici. Ci avviciniamo. Esce un
ragazzo, avrà trent’anni, e ci porta subito tè (bollente L
) e ci chiede se vogliamo mangiare. Breakfast breakfast! Dice, e fa segno di
attingere con un cucchiaiao ad un piatto. Diciamo di sì, visto che è
mezzogiorno passato. Probabilmente sa poco inglese e parla di colazione ma
intende il pranzo. Ci porta così verdura (amoooooore!), formaggio, uova
strapazzate e altra acqua fresca. Mangiamo con gusto lì dove siamo, sui gradini
d’ingresso.
Poi ci mostra una sorta di bagno con lavandino, esposto al sole, e
l’acqua che ne esce è da ustione ma pur sempre acqua per lavarsi. Non pago, ci
fa accomodare in un container magazzino, dove si scorgono armadi con medicinali
(flebo e collari ortopedici) e faldoni, un attrezzo per i pesi, un tavolo da
ping pong e molti tappeti. Ci accomodiamo a terra, e il dottorino ci dice di
riposare e dormire. Il bretone, ovviamente, non se lo fa ripetere due volte, e
in quel container di metallo dove fa troppo caldo persino per le mosche, ronfa
e suda e ronfa. Io sudo e scrivo, chè ormai riesco a inanellare parole da ogni
dove e da ogni quando. Nel frattempo veniamo investiti da un violente raffiche
di vento. Per un attimo temo sia proprio Eolo che ci odia e che ha sollevato la
sua ira contro di noi; poi invece mi rendo conto che si tratta soltanto di
vortici di sabbia, come il mulinello in cui siamo finiti ieri; non so
esattamente come funzionino, ma è certo che si tratta di fenomeni localizzati,
come i tornado. Infatti, una volta passati i turbini che si mangiano tutto e se
lo portano via tipo mago di Oz, torna la quiete.
E’ quasi ora di ripartire. Ci
prepariamo, soprattutto psicologicamente, e ci rivestiamo di tutto punto. Ma
quando proprio eravamo sull’uscio, ecco che torna il dottorino con un piatto
enorme di riso, bulgur e verdure, accompagnato da due ciotole di yogurt. Lunch!
Osti allora quella di prima, di
mezzogiorno, era veramente breakfast. E si rimangia, più il Puill che io, già
sazia da prima, quando mi sono lanciata sulla verdura e sulla menta fresca da
metter nel pane. Arriva un gatto e prende parte al banchetto.
Ora davvero dobbiamo andare, sono
ormai le 15. Ma il dott. ci dice che no, no, fa troppo caldo! Dobbiamo
aspettare ancora e riposare. Ci invita ad entrare nell’edificio principale,
dove c’è l’aria condizionata, e, mentre beviamo l’ennesimo tè ustionante, ci
mostra l’ufficio dove lavorano lui e il suo collega; vedo la foto di un gruppo
di ciclisti appesa al muro: sono pellegrini che da Yazd si recano a Mashad, in
tour organizzati con auto al seguito. I due ci spiegano anche che sono entrambi
infermieri e autisti d’ambulanza, che fanno turni da 5 ore lì in un quel luogo
sperduto tra le dune e che dobbiamo assolutamente dormire ancora un po’ al
fresco. Mando a mia mamma un sms dal telefono del gentilissimo dott., cosa che
mi richiede due ore perché la tastiera è in farsi; mi spiega pure che Irancell,
la più nota e diffusa compagnia telefonica, nel deserto non va perché le
antenne sono tutte in appalto ad un’altra compagnia, specializzata in
telecomunicazioni beduine.
Sentiamo lontana una voce, ed è
la strda che ci chiama. Ultimo rifornimento d’acqua fresca e si riparte con
calma: la città è a più di 80km, non possiamo arrivarci oggi, crediamo.
Sabbia ancora, e roccia, in un
caldo un po’ meno terribile. Stiamo finalmente riprendendo il passo quando,
prima di una salitella, due corpulenti camionisti fanno segno di fermarci
accanto ai loro mezzi. Non parlano inglese, solo gesti e qualche parola che
intuiscono; spesso uno dei due indica il cielo e guarda in alto con le mani
davanti al viso, come a dire ad Aura Mazda che siamo proprio matti. Poi ci
offre un’anguria buonissima, freschissima, figlia del suo orticello a Tabas. Ce
la tagliano lì sui due piedi, mentre sostiamo nella poca ombra dei camion
(accesi e puzzissimi) e noi ci grufoliamo nei liquidi del frutto sugoso come
dei porci. Insegno a Raymond il detto milanese: “Sa magna, sa bev e sa lava la
facia”.
La conversazione procede a gesti e risate, ci danno acqua che sa di
fiatella kebab e ghiaccio, a blocchi, tagliato con un coltellaccio al momento.
Ce ne ficcano pezzettoni nelle borracce e nella sacca idrica, e per fortuna non
altrove.
Poi viene il momento dei saluti e delle foto. Deve esser gente un po’
tradizionalista e semplice, per quanto buona: a me, che chiamano miss (come
quasi tutti qui), non han stretto la mano. E la foto voglion farla con il
Puill, a cui uno dei due schiocca un sonore bacione sulla guancia. Smuak!
Saluti e via ancora, contenti per
le persone belle che stiamo incontrando sul nostro cammino. A volt è faticoso
dar retta alla gente, perché si è stanchi e di fretta, ma quanto ripagano un
sorriso e un minuto del proprio tempo! Viaggiare lenti è soprattutto questo.
Stare a passo d’uomo, e guardare negli occhi altri occhi.
Ci aspettano delle montagne russe
non troppo faticose, in un su e giù che dalla sabbia rossa e ocra porta alla
sabbia verde. Ebbene sì. Sembravano prati e cespugli e gran tappeto di
sottobosco, invece è roccia verde sbriciolata. L’effetto è straniante. Se
guardi di fretta, Dolomiti. Se guardi bene, Kavir.
Intanto corre il tempo e
frullano i pedali. Dopo l’ultima collina ci si para davanti un’immensa distesa
pianeggiante, desertica s’intende, ed è la piana di Tabas. Un cartello di
conforta: dista meno di 40km, e son solole 17.30! Il Puill, forse, vorrebbe
comunque fermarsi e capeggiare wild fuori città, e poi prendere l’albergo solo
il giorno successivo. Io sogno la doccia e l’acqua fredda, e inizio a fremere.
Lui si ferma. Deve mangiare. Ancora! Sotto ad un cartello cammellato, accanto
alla ferrovia, dopo il popò che s’è mangiato oggi, si fa il tè coi biscotti.
Poi, piano piano, ripartiamo. Mi metto io in testa alla carovana, e inizio a
tirare come una piccola locomotiva a vapore. Mo si arriva in città, non esiste
campeggiare con l’hotel a 20km! Intorno solo sabbia e sale, in distese
bianchissime che sembrano glassa.
Il sole scende e penso che oggi
davvero s’è pedalato dall’alba al tramonto. Ma ormai ci siamo, e son contenta.
L’aria ancora è calda e brucia gli occhi, ma si vedono le prime luci delle
finestre ammiccanti in lontananza. Mentre pedaliamo nel crepuscolo,
d’improvviso, ci ferma la polizia.
Sono in due, fermi con l’auto a
bordo strada. Tutti seriosi. Passaporti! E controllano visto e documenti;
l’agente continua ad alzare gli occhi su di me, comparandomi con la foto del
visto. E non si capacita, perché in quella sono a capo scoperto e con i capelli
cortissimi; ora ho: hijab, casco, occhiali da sole e armatura da bici +
repubblica islamica. Dopo questo siparietto con il bad cop, interviene l’altro,
il good cop, che tra sorrisoni e pacche sulle spalle al Puill ci dice che lui
ha un hotel a Tabas e ci lascia l’indirizzo. Inoltre chiama per prenotarci una
stanza. E aggiunge: almeno vedete la finale dei mondiali Francia-Croazia! Il
bretone si illumina e a quel punto, un po’ per la partita, un po’ perché ormai
la polizia ci ha visti e non si può campeggiare, un po’ perché abbiamo la
sicurezza di un albergo, ci lanciamo verso il centro città (che è comunque
piccola, per quanto abbia l’aeroporto).
L’indirizzo che ci hanno scritto,
per altro sulla carta intestata dei verbali, pare più quello di un bordello:
l’hotel non ha nome né recapito, ma solo un numero di telefono. Dobbiamo
chiedere di Miss Ghorbany. Sarà la pappa? Mah.
Tabas ci accoglie che ormai è
quasi buio ed appare davvero come un’oasi al nomade: palme da dattero, frutteti
e orti sono la cintura verde della città. C’è un profumo di frutta dolcissima
che corre con la brezza fresca del crepuscolo, mentre, proprio alle 20, inizia
il canto del muezzin che ci accompagna fino al centro.
Qui ci fermiamo a bere
qualcosa di fresco (merviglia!) e chiediamo al negoziante dove sia un albergo;
lui fa un complessodisegno per dirci che è lì, su quella grande rotonda che
circonda la moschea, posta al centro di Tabas, a 50 metri. L’Hotel Amir, con le
sue luci rosse che riconfermano l’ipotesi del bordello, ci accoglie e ci
coccola con la sua aria condizionata, l’acqua, il frigo… fin troppe cose dopo
tanto deserto! Mi sento quasi stordita ma all’agio ci si adatta presto. Siccome
non ci danno stanze ma una sorta di appartamento, abbiamo pure la cucina. Il
Puill, ancora zozzo crotto di giorni, con una Cocacola gelata in mano e la
camicia sbottonata, si parcheggia davanti alla tv per vedere la finale. Ha pure
il coraggio di dire: “Vuoi andare al ristorante o ci facciamo i macaroni con
atun qui al cucinino?”. Teme che la mia gola 8la mia gola?!) gli impedisca di
vedere la Francia vincere. Così io mi faccio la doccia e mi godo l’arrivo
imprevisto mentre lui tifa la sua squadra. Poi i francesi sollevano la coppa e
noi andiamo a festeggiare al ristorante, inshallah.
16/7/18
Oggi è una giornata di riposo,
qui a Tabas, nel cuore del deserto. 380km in tre giorni abbiam percorso nella
sabbia e nel vento. 380km ci attendono, ancora, così. Mettiamo in conto di
impiegar 4 giorni, anche se potremmo farcela di nuovo in 3, dipende dai fattori
geo-climatici e fisici. Ma meglio stare larghi e non fare i conti senza l’oste,
chè un oste severo e si chiama Kavir.
La giornata è dedicata
soprattutto a rimetterci in forze, a bere molto, a mangiare come si deve, a
lavare i vestiti urfidi che odorano di cammello e a far spese per il giorno
successivo. Tabas non ha molto da offrire ai turisti: è nota per l’operazione
statunitense fallita, di cui ieri abbiam visto i resti, e per il terremoto di
grado 8 sulla scala Richter che, nel 1978, ha fatto 15.000 morti, falciando
metà della popolazione, che oggi è tornata a 30.000 anime. Siamo scesi
parecchio, e qui ci troviamo a 666 metri sul livello del mare. Me lo fa notare
chi ben mi conosce e sa quanto spesso questo numero della Bestia torni lungo il
mio cammino. Sorrido. C’è chi mi pensa da lontanissimo ed è come fosse qui.
Siamo nella regione del Khorasan, che significa terra del sole nascente. Qui si
capisce, in effetti, benchè il sole non si limiti a nascere, ma pure a
trasformare questo angolo di mondo in una griglia rovente. La gente qui parla
un dialetto abbastanza diverso dal persiano standard e il Puill commenta questa
mia notizia con un ironico: “Ecco perché quando parlano non capiamo nulla!”. Da
vedere ci sarebbe il parco Golshan, che ha più di 300 anni, ma già alle 9, dopo
colazione, fa un caldo che si schiatta e decidiamo semmai di andarci alla sera.
Ci lasciamo attirare invece dall’enorme complesso della moschea, proprio
difronte all’hotel; custodisce la tomba del santo Imam Hosein Ibn Mosa Alkazem,
dove migliaia di pellegrini si recano ogni anno sulla via per Mashad.
Il complesso pare risalga all’era Qajar, ma è stato rimaneggiato più volte; fuori ha un piacevole giardino con palme e datteri, mentre dentro pare un incubo di specchi e luci, una bomboniera satanica. Devo indossare il chador e ci sono ingressi separati per uomini e donne. Al centro, la tomba dell’Imam, stracolma di denaro come si usa qui.
Il complesso pare risalga all’era Qajar, ma è stato rimaneggiato più volte; fuori ha un piacevole giardino con palme e datteri, mentre dentro pare un incubo di specchi e luci, una bomboniera satanica. Devo indossare il chador e ci sono ingressi separati per uomini e donne. Al centro, la tomba dell’Imam, stracolma di denaro come si usa qui.
Molti, poveri o in viaggio,
vivono nei pressi del tempio e dormono all’interno, al fresco, sui tappeti,
dove ci sono ache donne che leggono e bimbi che giocano. All’esterno, acqua e
prese per ricaricare cellulari. Non è male che qui i luoghi sacri siano ancora
davvero un rifugio per chi ha bisogno, di acqua, di un tetto non importa. Ma le
porte delle moschee sono sempre aperte. Certo, se indossi il chador!
Fuori di lì, ci raggiungono due
giardinieri intenti a mantenere le belle piante. Uno dei due mi stringe
vigorosamente la mano, per farmi capire che non è tradizionalista, e inizia a
chiederci chi siamo e da dove veniamo. Poi parla male del governo, dei mullah,
della situazione economica in cui la chiusura politica e mentale della classe
dirigente iraniana ha trascinato la gente. Indica la moschea: a me non piace
questa roba, mi fa schifo. I mollah son tutti arabi e vengono qui a dettare
legge. Ci fanno sembrare mostri. Questi arabi estremisti sono venuti qui e
hanno portato il fondamentalismo e le rogne. Per il popolo è un disastro, noi
non vogliamo questo, e indica ancora la moschea e il mio hijab. Poi ci invita a
chiedergli qualunque cosa, se abbiamo bisogno, e torna a potare.
si ramazza con foglie di palma |
Interessante. Non è il primo che
parli male del governo, ma è il primo che così espressamente se la prende con
la religione. Penso che dire che una moschea ti fa schifo qui possa esser
punito col carcere o peggio, con la pena capitale. Si viene condannati a morte
per blasfemia, da queste parti dove vige la teocrazia che detta legge in nome
della Sharia. Si vede che quest’uomo, così arrabbiato, così rivoluzionario,
così coraggioso, non vedeva l’ora di trovare qualcuno a cui parlare liberamente,
senza timore di denuncie. Credo comunque sia un sentimento assai diffuso: la
rivoluzione con le sue bndiere verdi e i suoi tabù e veli non è certo sentita
oggi come un fatto positivo. Anzi. E gli iraniani dalla lunga storia e dalla
fina cultura, che avevano raggiunto un livello di libertà e giustizia pari a
quello occidentale, nel bene e nel male, mal tollerano questo ormai decennale
cambio di tendenza, che porta cupe ombre, fatica a campare e catene.
Dopo tale fugace incontro, ci
dirigiamo verso i negozi alla ricerca del necessario per i prossimi giorni di
deserto. Prima, però, inattesa, ci sfila davanti una parata di ciclisti in
giallo, accompagnati da furgoni con musica a palla e canti sacri. Sono i
pellegrini a pedali!
Dunque non siamo gli unici a
calcare in sella queste lande… Ma forse siamo tra i pochi a farlo in autonomia
senza ammiraglie.
Così arriviamo a far compere, ed
acquistiamo mezzo negozietto; il gas purtroppo, non si trova, se non in formati
diversi da quello che serve per il fornello di Raymond. Intanto c'è chi fa spesa direttamente all'ulivo e chi attende all'ombra che faccia meno caldo.
Domani, subito prima di ripartire, prendere pane fresco, frutta e acqua ghiacciata. Poi avremo la seconda metà di Kavir, e saranno di nuovo stelle e silenzio, vento e ricordi di un doppio sorriso dagli occhi chiari come il cielo di maggio, ricordi e promesse e speranze per la strada che si apre all’orizzonte e porta a casa, dopo molto viaggiare.
Domani, subito prima di ripartire, prendere pane fresco, frutta e acqua ghiacciata. Poi avremo la seconda metà di Kavir, e saranno di nuovo stelle e silenzio, vento e ricordi di un doppio sorriso dagli occhi chiari come il cielo di maggio, ricordi e promesse e speranze per la strada che si apre all’orizzonte e porta a casa, dopo molto viaggiare.
La sabbia del deserto morde le corone e smeriglia la catena. Il vento leviga i profili e li rende tutti uguali, mentre il caldo brucia i polmoni. Ma poi, quando si fa buio, come delle lucciole lontane ci sono le stelle della notte ad alleggerire l’anima.
RispondiEliminaGrazie! Grandissimi Rita e Raymond e ogni tanto un goccio d'olio alle catene, anche i mezzi vanno nutriti 🤠
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