lunedì 16 luglio 2018

18-19. 50°C, pranzo in pronto soccorso e l'anguria di Aura Mazda. Poi TABAS, oasi al centro esatto del deserto



15/7/18



Terzo giorno di deserto.
Oggi è stata una giornata incredibile di luoghi e volti, chè abbiamo incrociato, nella più inospitale natura, i cuori più gentili; come se solo così, rimanendo umani, e tendendo la mano a chi ha bisogno, si potesse sopravvivere al deserto. Da casa mi scrivono una citazione di Nietzsche: “Il deserto cresce. Guai a chi in sé cela deserti”. E infatti qui l’arida infertile distesa di nulla sta solo fuori, immensa e terribile, ma mai dentro alle persone. Loro sono immensi giardini fioriti. Lo sapeva bene Leopardi, quando scrisse della ginestra/contenta dei deserti e di quell’orror che primo/ contra l’empia natura/ strinse i mortali in social catena.

E’ stata pure una tappissima in termini puramente ciclistici, poiché abbiamo percorso più di 140km, con le solite salite (ma meno vento) e una temperatura che ha superato i 50 gradi a mezzogiorno. Tutto nel mezzo del più assoluto niente, cosa che ci ha costretti fin dalla sera prima a scarrozzarci litri e litri di acqua caldissima (bolle in un istante quando si cucina), nonché a razionare tutto, persino l’ombra, così rara e così preziosa. Non si può sbagliare qui, non si possono commettere leggerezze, sperare nel fatto che una soluzione si trova comunque e senza problemi. Servono calma, razionalità, pazienza, attenzione e logica. Ogni errore di calcolo, anche piccolo, si paga a caro prezzo.

Riavvolgo il nastro della giornata.
La sveglia è stata presto, come sempre: alle 6 il sole già era ben alto sopra l’orizzonte; abbiamo fatto colazione e siamo ripartiti in fretta, salutando quel giaciglio di fango secco e stelle in cui abbiamo dormito.





In strada già si sente il sole bruciare sulla pelle, in una luce ancora bassa che crea un effetto di straniamento rispetto al caldo che fa. L’alba è da poco passata ma l’aria già tremola per la temperatura che sale e sale. Sappiamo che non ci sarà nulla fino alla cittadona di Tabas, che avevamo preventivato di raggiungere domani (e invece! Il potere della promessa di potersi fare una doccia e bere qualcosa di fresco, o che sia almeno a meno di 40 gradi). Tuttavia un cartello indica che di lì a pochi kilometri si trova una moschea. In mezzo al nulla, nel pieno deserto del Kavir, a 100km di distanza da qualunque altra cosa umana, se si esclude la fine striscia d’asfalto su cui corriamo come una freccia scoccata. Però poco importa quale urgenza abbia condotto a costruire qui un tempio: moschea significa acqua. Per lavarsi, per bere. Acqua! Viva Maome’ e tutti i suoi accoliti se l’idea di un paradiso prima o dopo induce l’uomo a far sgorgare acqua nel mezzo del deserto.









Una volta giunti in loco, capisco il perché del luogo sacro, e qualche brivido, nonostante il caldo, mi viene. A breve distanza c’è quello che pare un cimitero di mezzi militari: due elicotteri, una carcassa d’areo con verniciatura mimetica, pezzi di metallo arrugginiti. Si tratta dei cimeli della catastrofica operazione Tabas, op. Eagle Claw, del 1980, con la quale il governo statunitense tentò di portare in salvo i 52 diplomatici americani presi in ostaggio nell’ambasciata di Teheran (i quali furono rilasciati solo 444 giorni dopo, a seguito di infinite trattative, e nemmeno sotto la presidenza di Carter, ma del neoeletto Reagan). Qui tre elicotteri degli otto partiti da una portarei di stanza nell’oceano indiano furono danneggiati irrimediabilemnte, uno da una tempesta di sabbia, uno dalle temperature che misero fuori uso la strumentazione di bordo e uno per un guasto. Inoltre il campo d’appoggio, chiamato Desrt One, dove due c-130 attendevano gli elicotteri per rifornimento di carbirante, proprio dove si trova ora la moschea, era pensato per usare come pista di atterraggio la strada normale, quella dove siamo passati pure noi in bici. Qui i marines stavano mettendo in sicurezza il campo, quando un contrabbandiere di gasolio, che transitava di lì con una cisterna colma di carburante, tentò una fuga pensando che si trattasse di un posto di blocco della polizia iraniana. I marines, con le solite maniere delicate, tentarono di dissuaderlo con un LANCIARAZZI; la cisterna prese fuoco e si sviluppò un incendio enorme, che illuminò a giorno kilometri e kilometri di deserto: l’operazione ormai era tutt’altro che segreta, oltrechè priva di sufficienti mezzi. Il presidente degli Stati uniti ordinò dunque di interrompere tutto e chiuder baracca prima di perdere altri uomini e far figure peggiori.










Dopo questo tuffo in un tragico capitolo della storia recente, approfittiamo dell’acqua fresca della moschea, che ora però sento un po’ meno dolce, e, dopo esser stati avvicinati dai pochi presenti, ripartiamo alla volta del deserto, che qui è di sabbia finissima e con le dune, che si alzano fino all’orizzonte dove le montagne si alzano come parenti più anziani di quella sabbia, che pure è più antica e ne rappresenta la forma umile, sbriciolata dal tempo. Qua e là intorno si scorgono ancora i segni dell’incendio, e uno strato nero copre il terreno.









Il Puill si ferma a far accendere la sigaretta ad un camionista mentre io son sempre più preoccupata del fatto che non riesco a comunicare con i miei genitori. Inizio a pensare a tutte le ansie che possono montare in loro e alla possibilità, non remota, che se non ricevono notizie da me ancora per qualche ora, organizzino una missione che Carter levati proprio, con annessi e connessi.
Intorno sta muta la sabbia “mentre che ‘l vento, come fa, si tace” (la bufera infernale del Canto V della Commedia è la cosa più vicina alle raffiche contrarie dei giorni scorsi, e mi sento graziata come Francesca quando può scendere un attimo dalla giostra del turbine per parlare con Dante).










Le temperature intanto salgono inesorabilmente e l’orizzonte tremola e mi appare sfuocato. Mi bruciano gli occhi, ormai esplosi come pop-corn, l’acqua è rovente, sono roventi la bici, il manubrio, il caschetto. Dalla borraccia, qundo si versa acqua meno calda, esce fumo sottile. Intorno pietra nera, ora, e laghi prosciugati di cui è rimasto soltanto il sale. Tutto è sete. Tutto è arsura. Approfittiamo di un cartello che fa un filo d’ombra per togliere il cervello dalla morsa dei raggi spietati. E dopo un po’ di frutta secca e acqua-brodo, ci vien l’idea di leggere cosa stia scritto sul cartello: a 25km da lì c’è un pronto soccorso della Mezzaluna rossa, EMS. Ce ne sono ogni 50-100km pure qui in mezzo al deserto. Avranno acqua! Ottimo, puntiamo lì.





Mentre pedaliamo in un caldo infero il paesaggio cambia ancora. Sassi e roccia neri. Miniere spalancate come un grido muto nel cielo abbacinato. Carbone. Buchi nella pancia della terra, ulcere al sole. C’è chi qui deve spaccare la pietra, e chi lo ha fatto in passato, con il piccone e il sudore e gli occhi che si fanno opachi mentre le forze evaporano. Miniere.
Vediamo il primo dei molti cartelli che avvertono gli automobilisti di fare attenzione alle pantere, o ai leopardi, o quello che sono queste bestie curiose. Dapprima penso si tratti di una trovata pubblicitaria per dire di non correr troppo come ghepardi. Poi il Puill mi spiega che ha letto sulla guida che qui ci sono veramente sti gattoni, per quanto rarissimi e in via di estinzione e più sui monti Zagros ed Elburz. Figata! Scopro poi trattarsi di panthera pardus saxicolor, una sorta di leopardo più piccolo di quello africano, diffuso dalla Turchia al Caucaso all’Afghanistan; qui in Iran ce ne sono circa 800 esemplari registrati all’anagrafe felina. Allora non solo veglio vedere un camillo, ma anche un pardo! Magari non di notte mentre dormiamo all’addiaccio però. E magari vivo, non come tutte le carcasse in putrefazione di cammelli che emanano un puzzo fetido a bordo strada.







pantera sul cartello

su quel cartello sta scritto che lì a 500m a sinistra dietro alla roccia c'è un parco acquatico con le piscine e gi scivoli e i ghiaccioli. E' pieno di questi cartelli! Peccato non aver tempo di andarci... Peccato non saper leggere il farsi.




Ormai disfatti dal caldo, e sciolti come s’è sciolta la vernice delle mie scarpe Shimano che tanta strada han visto, arriviamo finalmente al campo del pronto soccorso. Sembra abbandonato e deserto (logico), ma scorgiamo un’ambulanza lustra che riposa nel garage e alcune scarpe fuori da uno degli edifici. Ci avviciniamo. Esce un ragazzo, avrà trent’anni, e ci porta subito tè (bollente L ) e ci chiede se vogliamo mangiare. Breakfast breakfast! Dice, e fa segno di attingere con un cucchiaiao ad un piatto. Diciamo di sì, visto che è mezzogiorno passato. Probabilmente sa poco inglese e parla di colazione ma intende il pranzo. Ci porta così verdura (amoooooore!), formaggio, uova strapazzate e altra acqua fresca. Mangiamo con gusto lì dove siamo, sui gradini d’ingresso. 







Poi ci mostra una sorta di bagno con lavandino, esposto al sole, e l’acqua che ne esce è da ustione ma pur sempre acqua per lavarsi. Non pago, ci fa accomodare in un container magazzino, dove si scorgono armadi con medicinali (flebo e collari ortopedici) e faldoni, un attrezzo per i pesi, un tavolo da ping pong e molti tappeti. Ci accomodiamo a terra, e il dottorino ci dice di riposare e dormire. Il bretone, ovviamente, non se lo fa ripetere due volte, e in quel container di metallo dove fa troppo caldo persino per le mosche, ronfa e suda e ronfa. Io sudo e scrivo, chè ormai riesco a inanellare parole da ogni dove e da ogni quando. Nel frattempo veniamo investiti da un violente raffiche di vento. Per un attimo temo sia proprio Eolo che ci odia e che ha sollevato la sua ira contro di noi; poi invece mi rendo conto che si tratta soltanto di vortici di sabbia, come il mulinello in cui siamo finiti ieri; non so esattamente come funzionino, ma è certo che si tratta di fenomeni localizzati, come i tornado. Infatti, una volta passati i turbini che si mangiano tutto e se lo portano via tipo mago di Oz, torna la quiete.






E’ quasi ora di ripartire. Ci prepariamo, soprattutto psicologicamente, e ci rivestiamo di tutto punto. Ma quando proprio eravamo sull’uscio, ecco che torna il dottorino con un piatto enorme di riso, bulgur e verdure, accompagnato da due ciotole di yogurt. Lunch!
Osti allora quella di prima, di mezzogiorno, era veramente breakfast. E si rimangia, più il Puill che io, già sazia da prima, quando mi sono lanciata sulla verdura e sulla menta fresca da metter nel pane. Arriva un gatto e prende parte al banchetto.



Ora davvero dobbiamo andare, sono ormai le 15. Ma il dott. ci dice che no, no, fa troppo caldo! Dobbiamo aspettare ancora e riposare. Ci invita ad entrare nell’edificio principale, dove c’è l’aria condizionata, e, mentre beviamo l’ennesimo tè ustionante, ci mostra l’ufficio dove lavorano lui e il suo collega; vedo la foto di un gruppo di ciclisti appesa al muro: sono pellegrini che da Yazd si recano a Mashad, in tour organizzati con auto al seguito. I due ci spiegano anche che sono entrambi infermieri e autisti d’ambulanza, che fanno turni da 5 ore lì in un quel luogo sperduto tra le dune e che dobbiamo assolutamente dormire ancora un po’ al fresco. Mando a mia mamma un sms dal telefono del gentilissimo dott., cosa che mi richiede due ore perché la tastiera è in farsi; mi spiega pure che Irancell, la più nota e diffusa compagnia telefonica, nel deserto non va perché le antenne sono tutte in appalto ad un’altra compagnia, specializzata in telecomunicazioni beduine.




Sentiamo lontana una voce, ed è la strda che ci chiama. Ultimo rifornimento d’acqua fresca e si riparte con calma: la città è a più di 80km, non possiamo arrivarci oggi, crediamo.








Sabbia ancora, e roccia, in un caldo un po’ meno terribile. Stiamo finalmente riprendendo il passo quando, prima di una salitella, due corpulenti camionisti fanno segno di fermarci accanto ai loro mezzi. Non parlano inglese, solo gesti e qualche parola che intuiscono; spesso uno dei due indica il cielo e guarda in alto con le mani davanti al viso, come a dire ad Aura Mazda che siamo proprio matti. Poi ci offre un’anguria buonissima, freschissima, figlia del suo orticello a Tabas. Ce la tagliano lì sui due piedi, mentre sostiamo nella poca ombra dei camion (accesi e puzzissimi) e noi ci grufoliamo nei liquidi del frutto sugoso come dei porci. Insegno a Raymond il detto milanese: “Sa magna, sa bev e sa lava la facia”. 







La conversazione procede a gesti e risate, ci danno acqua che sa di fiatella kebab e ghiaccio, a blocchi, tagliato con un coltellaccio al momento. Ce ne ficcano pezzettoni nelle borracce e nella sacca idrica, e per fortuna non altrove.



Poi viene il momento dei saluti e delle foto. Deve esser gente un po’ tradizionalista e semplice, per quanto buona: a me, che chiamano miss (come quasi tutti qui), non han stretto la mano. E la foto voglion farla con il Puill, a cui uno dei due schiocca un sonore bacione sulla guancia. Smuak!




Saluti e via ancora, contenti per le persone belle che stiamo incontrando sul nostro cammino. A volt è faticoso dar retta alla gente, perché si è stanchi e di fretta, ma quanto ripagano un sorriso e un minuto del proprio tempo! Viaggiare lenti è soprattutto questo. Stare a passo d’uomo, e guardare negli occhi altri occhi.

Ci aspettano delle montagne russe non troppo faticose, in un su e giù che dalla sabbia rossa e ocra porta alla sabbia verde. Ebbene sì. Sembravano prati e cespugli e gran tappeto di sottobosco, invece è roccia verde sbriciolata. L’effetto è straniante. Se guardi di fretta, Dolomiti. Se guardi bene, Kavir.














Intanto corre il tempo e frullano i pedali. Dopo l’ultima collina ci si para davanti un’immensa distesa pianeggiante, desertica s’intende, ed è la piana di Tabas. Un cartello di conforta: dista meno di 40km, e son solole 17.30! Il Puill, forse, vorrebbe comunque fermarsi e capeggiare wild fuori città, e poi prendere l’albergo solo il giorno successivo. Io sogno la doccia e l’acqua fredda, e inizio a fremere. Lui si ferma. Deve mangiare. Ancora! Sotto ad un cartello cammellato, accanto alla ferrovia, dopo il popò che s’è mangiato oggi, si fa il tè coi biscotti. Poi, piano piano, ripartiamo. Mi metto io in testa alla carovana, e inizio a tirare come una piccola locomotiva a vapore. Mo si arriva in città, non esiste campeggiare con l’hotel a 20km! Intorno solo sabbia e sale, in distese bianchissime che sembrano glassa.


















Il sole scende e penso che oggi davvero s’è pedalato dall’alba al tramonto. Ma ormai ci siamo, e son contenta. L’aria ancora è calda e brucia gli occhi, ma si vedono le prime luci delle finestre ammiccanti in lontananza. Mentre pedaliamo nel crepuscolo, d’improvviso, ci ferma la polizia.
Sono in due, fermi con l’auto a bordo strada. Tutti seriosi. Passaporti! E controllano visto e documenti; l’agente continua ad alzare gli occhi su di me, comparandomi con la foto del visto. E non si capacita, perché in quella sono a capo scoperto e con i capelli cortissimi; ora ho: hijab, casco, occhiali da sole e armatura da bici + repubblica islamica. Dopo questo siparietto con il bad cop, interviene l’altro, il good cop, che tra sorrisoni e pacche sulle spalle al Puill ci dice che lui ha un hotel a Tabas e ci lascia l’indirizzo. Inoltre chiama per prenotarci una stanza. E aggiunge: almeno vedete la finale dei mondiali Francia-Croazia! Il bretone si illumina e a quel punto, un po’ per la partita, un po’ perché ormai la polizia ci ha visti e non si può campeggiare, un po’ perché abbiamo la sicurezza di un albergo, ci lanciamo verso il centro città (che è comunque piccola, per quanto abbia l’aeroporto).
L’indirizzo che ci hanno scritto, per altro sulla carta intestata dei verbali, pare più quello di un bordello: l’hotel non ha nome né recapito, ma solo un numero di telefono. Dobbiamo chiedere di Miss Ghorbany. Sarà la pappa? Mah.






Tabas ci accoglie che ormai è quasi buio ed appare davvero come un’oasi al nomade: palme da dattero, frutteti e orti sono la cintura verde della città. C’è un profumo di frutta dolcissima che corre con la brezza fresca del crepuscolo, mentre, proprio alle 20, inizia il canto del muezzin che ci accompagna fino al centro.




Qui ci fermiamo a bere qualcosa di fresco (merviglia!) e chiediamo al negoziante dove sia un albergo; lui fa un complessodisegno per dirci che è lì, su quella grande rotonda che circonda la moschea, posta al centro di Tabas, a 50 metri. L’Hotel Amir, con le sue luci rosse che riconfermano l’ipotesi del bordello, ci accoglie e ci coccola con la sua aria condizionata, l’acqua, il frigo… fin troppe cose dopo tanto deserto! Mi sento quasi stordita ma all’agio ci si adatta presto. Siccome non ci danno stanze ma una sorta di appartamento, abbiamo pure la cucina. Il Puill, ancora zozzo crotto di giorni, con una Cocacola gelata in mano e la camicia sbottonata, si parcheggia davanti alla tv per vedere la finale. Ha pure il coraggio di dire: “Vuoi andare al ristorante o ci facciamo i macaroni con atun qui al cucinino?”. Teme che la mia gola 8la mia gola?!) gli impedisca di vedere la Francia vincere. Così io mi faccio la doccia e mi godo l’arrivo imprevisto mentre lui tifa la sua squadra. Poi i francesi sollevano la coppa e noi andiamo a festeggiare al ristorante, inshallah.

16/7/18






Oggi è una giornata di riposo, qui a Tabas, nel cuore del deserto. 380km in tre giorni abbiam percorso nella sabbia e nel vento. 380km ci attendono, ancora, così. Mettiamo in conto di impiegar 4 giorni, anche se potremmo farcela di nuovo in 3, dipende dai fattori geo-climatici e fisici. Ma meglio stare larghi e non fare i conti senza l’oste, chè un oste severo e si chiama Kavir.
La giornata è dedicata soprattutto a rimetterci in forze, a bere molto, a mangiare come si deve, a lavare i vestiti urfidi che odorano di cammello e a far spese per il giorno successivo. Tabas non ha molto da offrire ai turisti: è nota per l’operazione statunitense fallita, di cui ieri abbiam visto i resti, e per il terremoto di grado 8 sulla scala Richter che, nel 1978, ha fatto 15.000 morti, falciando metà della popolazione, che oggi è tornata a 30.000 anime. Siamo scesi parecchio, e qui ci troviamo a 666 metri sul livello del mare. Me lo fa notare chi ben mi conosce e sa quanto spesso questo numero della Bestia torni lungo il mio cammino. Sorrido. C’è chi mi pensa da lontanissimo ed è come fosse qui. Siamo nella regione del Khorasan, che significa terra del sole nascente. Qui si capisce, in effetti, benchè il sole non si limiti a nascere, ma pure a trasformare questo angolo di mondo in una griglia rovente. La gente qui parla un dialetto abbastanza diverso dal persiano standard e il Puill commenta questa mia notizia con un ironico: “Ecco perché quando parlano non capiamo nulla!”. Da vedere ci sarebbe il parco Golshan, che ha più di 300 anni, ma già alle 9, dopo colazione, fa un caldo che si schiatta e decidiamo semmai di andarci alla sera. Ci lasciamo attirare invece dall’enorme complesso della moschea, proprio difronte all’hotel; custodisce la tomba del santo Imam Hosein Ibn Mosa Alkazem, dove migliaia di pellegrini si recano ogni anno sulla via per Mashad.











Il complesso pare risalga all’era Qajar, ma è stato rimaneggiato più volte; fuori ha un piacevole giardino con palme e datteri, mentre dentro pare un incubo di specchi e luci, una bomboniera satanica. Devo indossare il chador e ci sono ingressi separati per uomini e donne. Al centro, la tomba dell’Imam, stracolma di denaro come si usa qui.


















Molti, poveri o in viaggio, vivono nei pressi del tempio e dormono all’interno, al fresco, sui tappeti, dove ci sono ache donne che leggono e bimbi che giocano. All’esterno, acqua e prese per ricaricare cellulari. Non è male che qui i luoghi sacri siano ancora davvero un rifugio per chi ha bisogno, di acqua, di un tetto non importa. Ma le porte delle moschee sono sempre aperte. Certo, se indossi il chador!



Fuori di lì, ci raggiungono due giardinieri intenti a mantenere le belle piante. Uno dei due mi stringe vigorosamente la mano, per farmi capire che non è tradizionalista, e inizia a chiederci chi siamo e da dove veniamo. Poi parla male del governo, dei mullah, della situazione economica in cui la chiusura politica e mentale della classe dirigente iraniana ha trascinato la gente. Indica la moschea: a me non piace questa roba, mi fa schifo. I mollah son tutti arabi e vengono qui a dettare legge. Ci fanno sembrare mostri. Questi arabi estremisti sono venuti qui e hanno portato il fondamentalismo e le rogne. Per il popolo è un disastro, noi non vogliamo questo, e indica ancora la moschea e il mio hijab. Poi ci invita a chiedergli qualunque cosa, se abbiamo bisogno, e torna a potare.


si ramazza con foglie di palma

Interessante. Non è il primo che parli male del governo, ma è il primo che così espressamente se la prende con la religione. Penso che dire che una moschea ti fa schifo qui possa esser punito col carcere o peggio, con la pena capitale. Si viene condannati a morte per blasfemia, da queste parti dove vige la teocrazia che detta legge in nome della Sharia. Si vede che quest’uomo, così arrabbiato, così rivoluzionario, così coraggioso, non vedeva l’ora di trovare qualcuno a cui parlare liberamente, senza timore di denuncie. Credo comunque sia un sentimento assai diffuso: la rivoluzione con le sue bndiere verdi e i suoi tabù e veli non è certo sentita oggi come un fatto positivo. Anzi. E gli iraniani dalla lunga storia e dalla fina cultura, che avevano raggiunto un livello di libertà e giustizia pari a quello occidentale, nel bene e nel male, mal tollerano questo ormai decennale cambio di tendenza, che porta cupe ombre, fatica a campare e catene.

parco giochi al sole, per cuocere i bambini al punto giusto





hotel Amir

il tappeto 4x4


Dopo tale fugace incontro, ci dirigiamo verso i negozi alla ricerca del necessario per i prossimi giorni di deserto. Prima, però, inattesa, ci sfila davanti una parata di ciclisti in giallo, accompagnati da furgoni con musica a palla e canti sacri. Sono i pellegrini a pedali!
Dunque non siamo gli unici a calcare in sella queste lande… Ma forse siamo tra i pochi a farlo in autonomia senza ammiraglie.







Così arriviamo a far compere, ed acquistiamo mezzo negozietto; il gas purtroppo, non si trova, se non in formati diversi da quello che serve per il fornello di Raymond. Intanto c'è chi fa spesa direttamente all'ulivo e chi attende all'ombra che faccia meno caldo.





Domani, subito prima di ripartire, prendere pane fresco, frutta e acqua ghiacciata. Poi avremo la seconda metà di Kavir, e saranno di nuovo stelle e silenzio, vento e ricordi di un doppio sorriso dagli occhi chiari come il cielo di maggio, ricordi e promesse e speranze per la strada che si apre all’orizzonte e porta a casa, dopo molto viaggiare.

2 commenti:

  1. La sabbia del deserto morde le corone e smeriglia la catena. Il vento leviga i profili e li rende tutti uguali, mentre il caldo brucia i polmoni. Ma poi, quando si fa buio, come delle lucciole lontane ci sono le stelle della notte ad alleggerire l’anima.

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  2. Grazie! Grandissimi Rita e Raymond e ogni tanto un goccio d'olio alle catene, anche i mezzi vanno nutriti 🤠

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