sabato 21 luglio 2018

24. Notte in moschea, dove Khamenei e i martiri ci osservano. Il vento e il buon cuore dei pastori di GOL BIN



21/7/18



Eolo, Aura Mazda, Giove, Maometto, qualche demone burlone o semplicemente la legge che governa la fisica delle masse d’aria. Io non so chi sia l’artefice. A chi dar la colpa insomma, con chi prendermela. La giornata in sella si può riassumere in una frase sola: ma che vento del caz*o!
Abbiamo percorso poco più di 90km e siamo derelitti, diruti, sfasciati come vecchie navi lasciate sulla riva a marcire. Noi ci siamo spiaggiati in un paesino microscopico fatto di fango e occhi curiosi, ma buoni. E stanotte dormiamo in moschea.

Ora, andiamo con ordine. Stamattina s’è fatta una colazione che era pure pranzo e cena e spesa per i dieci giorni successivi all’Hotel Kamelia. Abbiamo veramente esagerato anche nel riempirci borse e tasche di ogni bendiddio, pure per la piccola ripicca in risposta al fatto che non ci hanno lavato i vestiti. Vestiti urfidi, sudici di giorni di deserto e sudore e polvere. Ieri s’è chiesto il laundry service e ci han detto sì sì, ma poi oggi abbiamo scoperto che avremmo dovuto attendere le 14. Impossibile.Sicchè ci siamo dovuti rinfilare i nostri lerci panni, per di più sudizzi e ancora umidi per esser stati chiusi nel sacchetto di plastica tutta notte. Poi dicono “sporchi occidentali”. Vedrai, se non mi lavi le cose!
Fatto è che, sotto agli sguardi stupiti ormai soliti, siamo ripartiti, lasciandoci alle spalle il Kamelia, con il suo salone per conferenze che ha ingresso separato per uomini e donne, il suo muro enorme con i volti dei martiri e la sua moschea accanto.

il doogh, bevanda yogurth e menta tipica iraniana





Uscire da Sabzevar non è stato semplicissimo. La città non è grande ma è incasinata, tra moto e camioncini, umanità velata, gente che strombazza e gente che urla, che saluta, che si affianca e chiede cose mentre sei in rotonda e rischi la vita. Per di più nel delirio abbiamo pure sbagliato leggermente strada, e ci siamo ciucciati tutto tutto il centro-formicaio e tutta tutta la periferia che è un immenso cantiere, o un’immensa cava di sabbia, una nube di polvere che fa ocra il cielo e l’aria opaca, mentre alle spalle sfilano le ultime case, ocra e di sabbia, opache e polverose anch’esse.
Subito i primi paesini fuori dalla città mi han fatto capire che qui c’è ampio transito di camion da e per la Turchia. I negozietti presentano tutti doppia scritta, in farsi e turco. Me ne accorgo per i vari lastiki (pneumatici) e banya che vedo intorno e che mi ricordano i molti viaggi fatti nella terra dei sultani e delle persone gentili e soprattutto dei lukoum (i dolcetti per cui val la pena di vivere e morire anche, altro che martiri).









Dopo la periferia e la periferia della periferia, ci siamo trovati in una piana diserta con difronte un muro di roccia. Sapevamo che oggi avremmo dovuto scalare. Così è iniziata la prima salita, lunga e ripida. E’ la prima COSI’ rampeghina che troviamo, e non è che sia un piacere con il maiale morto che ci trasciniamo attaccato al culo delle bici. Una nota positiva: qui è tutto un pochino più verde, essendo ormai il deserto alle spalle. E ci sono anche gli alberi: pochi, spelacchiati e un po’ marci, ma alberi. Con il tronco e i rami e le foglie. E si sente il profumo del latte che stilla dalle piante di fico e della resina dei pini curvi dal tronco rosso. Si sente il profumo dell’erba che asciuga. Mi commuove. Tutta questa vita piccola cui non si fa mai caso qui è così rara, così preziosa. Così bella, più della più raffinata poesia persiana cantata sulle note acute di un sitar. Il turibolo dell’incenso di chi venera la terra e le radici, la linfa e i frutti, arde ancora. Per me è come una preghiera e tutto davvero torna ad essere pieno di dei.

 














Certo si fa fatica. Anche perché fin da prima di uscire dall’hotel, il vento ha iniziato a soffiare teso e perfettamente contrario. Sembra ci voglia respingere nel deserto. Sembra il soffio potente di un’immenso volto che riaccende le braci del Kavir. Ma noi lì non torniamo. Andiamo avanti, piano, pianissimo, che quasi siamo fermi. Ma in realtà stiamo procedendo. Trovo a terra una moneta, rarissime qui in Iran, e porta fortuna. Si scollina. Il vento rende difficile anche scendere, ma è tutt’altra vita.











Ci si para davanti una valle, non larga ma lunga e perdita d’occhio, rossa come una terra che ha bevuto sangue, e percorsa da turbini immensi di sabbia, colonne che arrivano al cielo e si mangiano tutto.
Imbocchiamo la valle e corriamo verso altri monti, che ci attendono dopo. No, non corriamo. Arranchiamo, a fatica, controvento, dandoci il cambio ogni pochi metri. Finalmente compare in vista la cittadina di Soltanabad, esattamente a 50km, metà tappa. L’intenzione è fermarsi qui per il pranzo, che già son le 13 e fa caldo da cuocere. Prima di entrare incappiamo in un turbinone di sabbia, e ahimè ci travolge in pieno. E’ come finire in una lavatrice piena di schegge di vetro. E non si può pedalare: bisogna fermarsi subito a bordo strada e tirarsi l’hijab sul volto, per ripararsi. Almeno sto straccio da pavimenti ogni tanto a qualcosa serve!









Una volta in centro compriamo acqua e frutta, destanto la consueta curiosità generale, e ci portiamo in un parco che è proprio espressamente dedicato ai Tir turchi. Si chiama così, “Parco dei Tir turchi”. Chiaro. Infatti è pieno di camionisti. Turchi. Qui veniamo importunati a lungo dai proprietari del ristorantino lì presente, che vogliono a tutti costi invitarci a pranzo. Ma mannaggia ai mortacci vostri, vogliamo sbracarci nell’erba, che qui c’è, verde, morbida, profumata e bella, all’ombra, e mangiare il frutto del misfatto in hotel e dormire come si usa qui. Dopo foto e donativi vari (oro incenso e birra analcolica) se ne vanno. Una nota importante: qui i bagni pubblici sono molto diffusi e mediamente puliti; per soste medio lunghe mosche e parchi sono ottimi, tanto più che per me svestirmi e rivestermi, tra divisa da bici con bretella e parafernalia islamici, non è affar semplice.








Nella pausa, tra le altre cose, posso apprezzare le cingomme al gusto resina Frankincense. No, non ho idea di cosa sia. Il sapore è strano, direi pigna acerba. Ma dentro al pachetto Avicenna ti guarda e ti seduce. Poi c’è scritto che sta resina fa resuscitare pure i morti tanto fa bene! Sicchè, aggiudicate. Ne ho comprata una confezione al gusto mojito analcolico, stay tuned per l’assaggio.




Prima di ripartire noto il monumento all’anguria e al mettete dei fiori nei vostri cannoni ma solo se non sono diretti verso l’America o Israele se no mettetece pure i proiettili.



Da lì la strada corre dritta e in piano in un vallone che s’è fattopiù verde e gentile, addomesticato di campi e frutteti. Ci sono le casupole dei contadini e all’orizzonte, ancora, montagne.
C’è pure il vento, che Maometto se lo porti, che ci rende molto difficile raggiungere il paesino di Meshkan. Qui ci strombazzano allegri contadini che si spostano tra un campo e l’altro in moto, in due, tre o quattro, armati di vanghe e rastrelli. Periccccolo quando si accostano!
Ci ferma pure la polizia, ma non controllano i passaporti. Fanno domande e poi ci propongono di dormire un pochino alla loro stazione, perché fa troppo caldo, a loro avviso, per pedalare.
No. Grazie. No.



















Entrimo in paese per bere acqua fresca e ci accoglie gran curiosità generale, ma non schiamazzante, di bambini e pastori, muli e caprette. La gente sta uscendo di casa perché il caldo ormai molla la presa, e c’è chi porta le bestie al pascolo, chi impila mattoni, chi passa il grano al setaccio e chi guarda gli altri lavorare. Nulla di nuovo sotto il sole.
Nemmeno le sedie dei ristoranti lasciate all’aperto, esposte ai raggi terribili, che se ti ci siedi la pelle del culo si frigge e s’incolla al metallo e ti alzi con le chiappe spolpate. Attenzione.










Si riparte e ci attendono 14km di saliscendi controvento, un’agonia. Siamo costretti a fermarci ad un benzinaio, per bere ancora e mangiare un gelato e riposare le gambe e la schiena e le braccia. Si fa troppa fatica. Qui discutiamo un pochino con tre camionisti turchi che sono molto interessati alle bici e al viaggio. Ci offrono da fumare, decliniamo. Si riparte.









Per fortuna di lì a poco le colline si aprono in un altro vallone, percorso perfino da un microscopico canale con l’acqua. Ci sono campi e prati. I paesini agricoli si susseguono uno dopo l’altro, appoggiati alle colline di pan di zucchero, color verde e rosso. Incredibili anche le cave di sabbia e i forni per cuocer mattoni, ormai tutti abbandonati, che si susseguono a bordo strada.














Non fosse per il vento, sarebbe davvero un piacere pedalare con questi colori e questo sfondo vicino. Altro problemino son i cani che fanno la guardia alle greggi e alle fattorie. Sono aggressivi, fanno il loro dovere. Raymond ha una tecnica, quando li vede correrci incontro rabbiosi: si ferma all’improvviso, o addirittura va loro incontro, sbraitando cose in un francese da scaricatore di porto di Marsiglia. Nei casi peggiori raccoglie ua pietra da terra r fa il gesto di lanciarla. Ma non la usa mai davvero. Poi di solito segue breve sgridata, sempre in francese da svaricatore di porto di Marsiglia, con i propritari poco solerti.
Così si va avanti e il sole cala, intanto, mentre noi portamo a casa gli ultimi kilometri. Non è possibile trovare qui un luogo adatto al campeggio libero: troppi paesi, troppi campi coltivati. Non siamo più nel deserto! Lo dimostrano anche i cartelli di pericolo: non più cammelli ma mucche.















Ormai è il crepuscolo e la luna ci sorride da un pezzo, alta nel cielo. Bisogna trovare una sistemazione per la notte.
Optiamo per il microscopico villaggio che precede il piccolo agglomerato di Gol Bin. Vediamo case e campi e alberi, e pensiamo sia una buona idea chiedere di metter la tenda lì da qualche parte. In paese ci accolgono due pastori con le capre e tre bambine tutte inchadorate. Chiediamo, nel nostro tremolante farsi letto nella traslitterazione del libro dell Puill, se possiamo campeggiare. Le bimbe ci indicano la strada per la moschea. Chiediamo anche a tre uomini poco distanti. Anche loro ci indicano la moschea, e ci aprono la porta. Si crea in breve un capannello incredibile di gente, bambini agitati e bambine che si nascondono quando faccio le foto. Gente che chiede, che osserva, che sbircia dal velo. 











Poi arriva il mullah e ci chiede molte cose, passaporti compresi, ma con gentilezza. E poi ci dà il benestare per passare la notte qui. E’ una manna. La moschea è piccola da non avere locali separati per uomini e donne, ma grande non soffocare. Ci accendono i ventilatori, mentre la stufa resta a monito di come d’inverno qui il clima sia rigido. Ci mostrano la cucina, che possiamo usare, e i bagni, la cui porta è chiusa a chiave e la chiave è in mano nostra: qui lasceremo anche le bici. E dopo aver lasciato fare la preghiera nel salone principale, ci prepariamo la cena (pasta al tonno of course) e halva con il tè. Poi prendiamo possesso del salone. Il Puill armeggia con i molti interruttori e accende e spegne le luci di mezza città, mentre temo faccia partire gli altoparlanti con il canto che chiama alla preghiera. 






rosari e un dispenser di pietre da mettere a terra, sul tappeto da preghiera, in direzione de La Mecca, e da baciare quando ci si china





Il viavai di curiosi presto si arresta, ed è totale il silenzio. Si sentono solo il fruscio delle foglie al vento e il ragliare di un asino. Un cane, ogni tanto, abbaia in lontananza. Dopo alcuni giorni di incontri non sempre piacevoli, siamo finalmente stati accolti di nuovo com’è degno degli iraniani. E salutiamo così questo paese, con la casa di dio che diventa la casa degli uomini, e gli occhi gentili della gente che ci vede stranieri ma non ha paura.

38 commenti:

  1. CIAO IRAN!
    “Vi saluto sabbia e vento,
    ciao deserto dell’Iran!
    E’ venuto ormai il momento
    de passà in Turkmenistan”.
    Chissà cosa ti riserva
    sto paese misterioso?
    Di sorprese una caterva
    chi sta a casa è assai curioso!
    “Internèt lì ce l’avranno,
    o soltanto cartoline?
    Già mi prende un po’ l’affanno,
    e si ammoscian l’endorfine!”
    Stai tranquilla volpe cara
    questo è un mondo ormai virtuale
    siamo dentro a una tonnara,
    è un casino generale...

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