5/7/18
Scrivo da qui,
una casa
tradizionale in fango, seduta a terra sui tappeti annodati da mani sapienti e
incallite dal duro lavoro, mentre bevo tè forte aspettando la cena. Sono a
Pasargadae, antica città achemenide, scelta da Ciro il Grande come sua capitale.
Oggi qui ancora, nella piana battuta dal vento e chiusa dagli aridi monti allo
sfondo, riposa il suo corpo, o almeno il suo ricordo. La sua tomba, restaurata,
si dice, da Alessandro Magno quando conquistò la Persia e ne fu conquistato a
sua volta, sarà meta di una breve visita domattina, prima di raggiungere
Persepoli; questa città, meglio conservata e ben più maestosa, ha presto
oscurato la fama di Pasargadae, ma per me che seguo la storia passo a passo,
con calma, al ritmo del cuore e del respiro quando pedalo, è giusto così. Prima
ciò che resta di Ciro, poi l’immensa meraviglia e i trionfi di Dario I.
Per arrivare qui abbiamo pedalato
146km su e giù per monti e valli, seguendo sempre la strada che conduce a
Shiraz; è stata un po’ una tappa da gran premio della montagna, ma il caldo è
meno feroce per l’altitudine ed il vento non ha infierito.
La notte non è stata delle più
serene: ho dormito a terra, su un tappeto ruvido, senza nemmeno materassino e
sacco a pelo: non avevo voglia di chiedere al nostro ospite, Sassanid, di
riaprire il garage per recuperare l’unica borsa lasciata sulla bici. E così
come un monaco penitente ho riposato più o meno. La colazione, tre kili di
frittata, pane e formaggio, tutto annacquato dal tè, è stata rapida. Con Sassanid
avevamo infatti appuntamento poco dopo, a 25km di distanza, dove ci ha
invitati, nella sua tenuta, nella quale potremo trovare alloggio, se necessario,
sulla strada per Yazd.
Dopo i saluti alla famiglia e gli
ennesimi mille video, le dirette e le foto per Instagram, siamo partiti. Anzi
no. La ruota posteriore della mia bici era uscita di sede, lo sgancio rapido
(che tiene anche il portapacchi) era stato aperto e il disco del freno impediva
alla ruota di girare. Sassanid continuava a ciarlare e a fare le sue cose,
distraendo anche Raymond, mentre io smadonnavo a bassa voce perché non avevo
ancora capito dove stesse il problema; il tentativo di salutare il rumoroso
ospite e nella strada, con calma, sistemare i danni, è stato vanificato dal
fatto che ci ha seguiti per farci ulteriori foto alla partenza. Sicchè ho
dovuto metter le mani sulla bici alla sua presenza, mentre continuava a dire:
“Sei sicura che ieri quando sei arrivata fosse a posto? Dici che ci ha giocato
qualcuno, magari un bambino?”. Magari un bambinone di 55 anni qui presente,
penso. Ma come dice il Puill non possiamo saperlo, lui è stato gentile con noi
e non è bello nutrire sospetti nei suoi confronti.
Comunque. Sistemata la
claudicante Signora e fatta scorta d’acqua, ci siamo diretti verso il podere di
Sassanid, che ci aveva pure offerto un passaggio in jeep ed era rimasto
sorpreso dal nostro rifiuto. Ci ha superati strombazzando ma lo abbiamo
raggiunto di lì a poco. La sua azienda consiste in un ampio terreno coltivato a
frutta (pesche, albicocche, viti), con qualche animale, un giardino, una casa e
varie rimesse per gli attrezzi e i trattori.
Lui ed il figlio diciottenne,
cowboy iraniani, ci hanno accolti di nuovo con saluti, baci e abbracci, foto,
video urlati e altre diavolerie social. Poi il brav’uomo ci ha regalato una
sacchettata di circa 5kg di pesche dei suoi alberi; maturissime, buonissime, ma
troppe! Sono due giorni che non mangiamo altro che pesche spiaccicate e calde,
fermentate al sole. Ci ha anche regalato della crema solare, una a testa,
dicendo: “Look at you! Your body is destroied” –e non ha tutti i torti: il mio
naso ha la consistenza della pelle degli elefanti e probabilmente a breve mi
cadrà. Unico dettaglio negativo: la crema che ha dato a me non è né bianca né
trasparente ma marroncina, color pelle di persiano, e quando la metto oscillo
tra il costume di carnevale del negus Menelicche e un vaso di Nutella finito
male. Ma vabe’, già sono lercia di mio, un tocco in più di maròn che vuoi che
sia?
Così, carichi e maroni, ci siamo
rimessi in strada, sempre diretti a sud, con i monti dalle forme curiose ai
lati, a chiudere la stretta valle più o meno pianeggiante. Come sempre
sclacsonate e foto e urla d’incitamento non si contano.
Un dettaglio: parallela a questa
strada che va a Shiraz corre la ferrovia, ed ogni tanto si vede un treno
passare lento, sbuffando nuvoloni di fumo. Talora si trovano, sulla strada,
cartelli come questo, che indicano fantomatiche stazioni; a seguirli, si va sì
verso i binari, ma su sentieri sterrati e nascosti dalla sabbia, qui. Dove
cavolo può essere mai la stazione in questo nulla?!
dov'è la stazione?! |
Alle spalle ormai i primi 50km,
abbiamo deciso di fermarci sotto al solito cartellone (ormai a occhio sappiamo
scegliere quali facciamo più ombra, anche da lontano), per iniziare a mangiare
un po’ di pesche, mentre intorno iniziava ad alzarsi il vento che modella la
roccia come uno scalpello. A propos, vero o no che il 5 scritto in farsi pare
un cuore rovesciato o un culetto?
Con la pressione bassa (io) e
pieni di frutta (entrambi) siamo montati in sella di nuovo, ma è durata poco;
un’allegra famigliola ha accostato l’auto per farsi un po’ di foto e selfie con
noi, adducendo la scusa che pure il capoclan fosse un ciclista. Domande,
saluti, abbracci, a me più che al povero Puill, sempre messo da parte nelle
foto.
E via, ancora, verso la prima salita lunga, oltre 10km, sotto un caldo
allucinante, tra valloni in cui il vento non si avventura, accanto ai camion
che salgono lenti ed emanano calore d’inferno e fumi neri e oleosi. Dura,
durissima. Ho sudato anche la cresima.
In cima però si è spalancato lo
spettacolo di una nuova valle, più ampia e verde (verde davvero! Non ocra o
color legno, verde!), cui siamo giunti con una lunghissima discesa che ha fatto
dimenticare in un attimo la fatica. Chi non ha mai pedalato, soprattutto con
una bicicletta dal culo pesante, non può immaginare l’ebbrezza infinita che dà
la discesa in picchiata dopo una salita. Si diventa aria che scivola nella
brezza e il paesaggio scorre intorno come non fosse vero, come una pellicola
proiettata ai bordi del campo visivo, mentre i colori si mescolano e azzurro e
ocra si fondono in un mulinello.
Girata la boa degli 80km abbiamo
approfittato dell’ombra di un albero, un
albero vero con le foglie vere e verdi, che fanno vera ombra, per pranzare. In
lontananza, capre e pastori; due bambini si sono avvicinati incuriositi, ma
solo per salutare. Con la pancia piena di pane e formaggio e caffè mi sono
concessa un momento di grazia ad osservare il sole tra i rami, e il mosaico
azzurro del cielo tra le fronde. Mi è persino parso di vedere un nido. Allora
non è solo deserto, qui!
Di villaggi microscopici ne
abbiamo incontrati diversi, ma di città vera e propria una sola, Safashahr,
dove, nel baracchino di un poliomelitico arroccato dietro alla cassa, abbiamo
fatto shopping: caffè, acqua, biscotti, halva… L’intenzione era infatti quella
di campeggiare wild, tra dune e valli, non essendoci alcuna altra grande città
per molte decine di kilometri. Intorno e da queste parti ci sono tante cave di
pietra; le montagne sono scavate da cunicoli come formicai e spesso si vedono i
resti di lavori d’estrazione recenti.
Passata l’ennesima salita, ho
potuto apprezzare una cosa di cui prima mai mi sarei accorta: i diversi colori
che sabbia e roccia possono assumere; a volte sono ocra, a volte, rosse, a
volte bianche da accecare, a volte scure, quasi nere, come la pietra lavica. A
volte del tutto brulle, a volte punteggiate di sterpi e cespugli con lunghe
spine e fiori seccati al sole.
Dalle foto sembrerà sempre deserto, sempre
sabbia, sempre roccia. Ma ad esserci in mezzo davvero si percepisce la diversa
tonalità dei colori, la gamma cromatica che oscilla e incanta l’occhio da una
valle all’altra. Da ieri poi il paesaggio ha iniziato ad essere persino più
verde e ricco di vegetazione. Ci sono addirittura dei prati dove pascolano
greggi sotto l’occhio socchiuso al sole dei pastori.
Ultimo muro da superare, ultima
salita del giorno. Caldo, ancora, caldissimo sulle rampe tra le alti pareti di
roccia che chiudono al vento il passaggio. Ho pensato alle cave di pietra, alle
prigioni leggendarie, alle Latomie. Sopra vedevo l’azzurro del cielo farsi
dorato color di miele nella luce sempre più bassa; silenzio intorno.
Sono
arrivata in cima già stordita di mio, cotta e stanca; mai immaginavo di tener
banco con un camionista assai loquace, che parlava soltanto in farsi, rapido e
meccanico, e mi ha fatto bere ventordici tazze di tè BOLLENTE, da una tazza
lercia, lavata con acqua di dubbia provenienza ficcandoci dentro le sue manone
annerite dal sole e dall’olio del motore. Il Puill era rimasto indietro sulla
salita quindi le public relations sono toccate anzitutto a me, accanto al
camion acceso sbuffante calore e smog, con il tè caldo in mano. Poi è giunto
anche Raymond, si è ciucciato pure lui la sua dose di conversazione, di tè e di
acqua ignota, di foto (con e senza caschetto, che il camionista ha voluto
provare); abbiamo rimediato anche ospitalità per cena e notte a Shiraz, ma non
sappiamo bene dove, visto che il brav’uomo ha scritto tutto in farsi, con una
grafia tra l’altro abbastanza incerta; poi non parla inglese, e intendersi è
troppo difficile: probabilmente declineremo l’invito.
Finito il salottino siamo
finalmente ripartiti giù a volo d’aquila per la discesissima,
fino a
raggiungere una piccola area di sosta dotata di moschea, fedeli, senzatetto e
fiumicello pieno di alghe e immondizia. Mentre Raymond prendeva dell’acqua, si
è creato attorno a me un capannello di iraniani curiosi, e via con le solite
domande e i soliti commenti. Il Puill ha anche tentato di sbolognare loro le
pesche spetasciate rimaste (ancora issime) ma loro ci hanno guardati con una
faccia schifata dicendo “Ma che davero ve magnate sta zozzeria?”. Proprio così,
in farsi, ma parole testuali.
A quel punto eravamo pronti per cercare un luogo
adatto a trascorrere la notte. Ma a me è venuta l’idea di controllare cosa ci
fosse in quella vicina città dal nome ancora ignoto, Pasargadae. E,
incredibile! E’ la città fondata da Ciro il grande dopo aver sconfitto, proprio
in questo luogo, Astiage, ultime re dei Medi, diventato così signore di un
impero grandioso. Ed è dove resta la sua tomba maestosa, candida e alta in
mezzo alla valle, capace ancora di trasmettere una sensazione di dovuto
rispetto. Ma allora bisogna fermarsi a vederla! Pasargadae poi è la parola da
cui si dice derivi il termine paradiso, in riferimento ai giardini persiani
lussureggianti, ai giardini di Babilonia che i sovrani amavano far fiorire in
mezzo al deserto, dominio totale dell’uomo sulla natura.
Era già tardi ed il sito
archeologico ormai chiuso. Quindi, visto che ormai i kilometri percorsi erano
già tanti, abbiamo optato per fermarci lì; troppe case. Quindi perché non
approfittare di uno (il più lezzo, il più tipico) dei molti alloggi offerti ai
turisti di passaggio?
E così ci siamo buttati dentro a
questo villaggio con le case fatte di fango e paglia, baracchette e tappeti,
tende e porte socchiuse, in un andirivieni di bimbi curiosi. Dopo qualche
trattativa, abbiamo preso alloggio nelle nostre casette, dotate tutte di luce e
presa elettrica, di tappeto e cuscinetti per sedersi o per dormire, nonché di
piccolo camino.
Del bagno è meglio che non parli:
si ostinano a voler mettere il wc e non la turca, ma poi due volte su tre non
funziona lo sciacquone. Mannaggia a loro.
Ci hanno portato il tè e pure la
cena: un quintalone di riso giallo con pomodori, da condire con delle specie di
lenticchiette o similia sotto aceto, dal sapore non dissimile da quello dei
capperi. Hanno anche avuto il buon cuore di portarci, più tardi, un piattino
con le croste del riso croccanti incollate al fondo della pentola. Buonissime!
E così, dopo l’ultima preghiera
dalla vicina moschea, si alza la luna e la luce scivola in valle lontane, goccia
a goccia. I bambini ridono, fuori, poi si fa silenzio. Abbaia un cane. Sto
imparando a dormire a terra sui tappeti.
6/7/2018
Ci si sveglia presto nelle case
di fango, e già i galli cantano negli aridi giardini. La colazione è servita
nella tenda centrale, pane stirato a mano, tè, cetrioli, pomodori e un
formaggino di capra homemade che se non è condito con la paura di batteri
terribili dello sguarone non è buono.
E poi in sella rapidi verso il sito
archeologico, che dista meno di 1km ed è stato appena aperto. Già prima di
entrare, al fondo della strada, svetta la tomba di Ciro (almeno creduta tale
dopo Alessandro Magno, che la venerò dopo aver distrutto la vicina Persepoli).
Arriano (II secolo d.C.) racconta che il macedone ordinò al suo luogotenente
Aristobulo di entrare nell’edificio, che conteneva un letto e una bara d’oro,
una tavola imbandita , paramenti, pietre preziose e un’iscrizione. Durante la
conquista islamica, i soldati decisero di distruggere il monumento perché in
contrasto con i loro principi religiosi, ma i guardiani del luogo riuscirono a
convincerli del fatto che non fosse la tomba di Ciro il Grande, ma della madre
di re Salomone; la pietra fu risparmiata e l’iscrizione fu sostituita con un
versetto del Corano.
E’ stata la prima capitale
dell’impero achemenide, Pasargadae, fondata proprio da Ciro nel 546 a.C.; oltre
al cenotafio, si conservano i resti di due palazzi reali con i loro giardini,
“paradisi” in mezzo alla roccia per chi giungeva da lontano, e un bazaar
trecentesco costruito con le pietre rimediate dagli antichi edifici. Purtroppo
la diga ed il lago artificiale costruiti nel 2007 preoccupano gli archeologi
perché temono che l’umidità e le mutate condizioni climatiche possano rovinare
i resti.
La breve visita mi ha dato la carica
per esplorare ulteriormente questo paese dalla storia immensa, sconfinata nello
spazio e nel tempo; tanto più che Persepoli era la meta. Le salite che temevo
oggi si sono rivelate un piacevole su e giù di morbide rampe, tutte all’interno
di un vallone verdissimo, ma davvero, profumato di alberi da frutta e splendido
per le risaie allagate che riflettono il sole. “Il mare a quadretti” ho sentito
dire un giorno in cui ero felice.
I roccioni intorno hanno una
forma incredibile, paiono muri e scalinate di giganti antichi, sembrano cascate
solidificate per sempre in un silenzio di pietra. Fanno da recinto allo
sguardo, perché non si perda e l’occhio non cerchi altrove: è qui la bellezza,
è qui la vita che rinasce verdissima. Ci sono persino prati e fieno, capre al
pascolo e tantissimi contadini con la schiena curva. La terra è bassa in tutto
il mondo. Dopo una volata in questo eden ritrovato, che mi dà ragione del
perché le capitali dell’impero persiano siano sorte da queste parti, ci
fermiamo a dar fondo alle (pen)ultime pesche. Con soddisfazione constatiamo che
ne restano meno di una decina. Ma è una vittoria di Pirro.
Di lì a qualche kilometro veniamo
fermati da alcuni venditori di frutta, che in tutta questa zona mostrano la
propria merce in cassette ordinate a bordo strada, sotto ombrelloni colorati.
Solite domande, solito stupore, solite foto. E due sacchetti ENORMI di frutta
troppo matura per essere trasportata. Di nuovo! Pesche, prugne, albicocche. Un
se n’esce.
Ultima sosta della mattina per
fare rifornimento d’acqua e schifezze fredde da bere, ultime foto ai contadini
piegati nell’acqua delle risaie, che, da sotto ai cappelli enormi, salutano e
sorridono.
Viene il momento del pranzo:
manca una manciata di kilometri alla prima grande meta di questo viaggio:
Persepoli. Troviamo alcuni alberi sotto cui riposare e, nemmeno il tempo di
sederci, subito ci raggiunge il proprietario di una casa vicina. E’ venerdì,
come la domenica da noi, e si griglia in giardino con la famiglia. L’uomo ci
invita a pranzo ma temiamo vada troppo per le lunghe; allora ci invita a fare
la doccia e a dormire. Ottimo, ha proprio capito. Intanto gli rifiliamo un po’
di frutta da sbolognare.
Ma commettiamo un grave errore.
Questo ingenera in lui un sentimento di debito, e poi dopo ci manda un ragazzino
con un piano pieno di uva del tutto acerba. Acidissima, immangiabile. Ci
chiediamo se sia effettivamente da mangiare e iniziamo a disfarcene con
nonchalanche.
Ma arriva altra gente. Un camionista, che mette giù il suo
tappeto e prima di pranzo prega e prega. Lo fa inginocchiandosi e inchinandosi
davanti alla Signora, e pare stia venerando lei. Straniante. Poi si aggiungono
al lieto convivio altri due camionisti, armati di pentoloni di riso, pane e
Pepsi. Ruttano come il Cracatoa, ma tant’è. Noi tentiamo di disfesciar loro
l’uva, ma il nostro piano non va a buon fine: proprio in quel momento
sopraggiungono dalla casa vicina due ragazzi per riprendersi il piatto. Noi
proviamo a ridarglielo con dentro i malefici grappoli acerbi ma no, no! E’ per
voi quella! Lo dicono in coro i ragazzi e i camionisti. Allora pensiamo di
metterla in un sacchetto e liberarcene più avanti; peccato che di sacchetti non
ne abbiamo più tranne COLPO DI GENIO quello della monnezza, in cui abbiamo
raccolto cartacce e bottiglie vuote del pranzo. Dall’esterno sembra una borsina
normale. Ed è un attimo: il Puill mi allunga il sacchetto e risponde alla mia
domanda: dove possiamo metterla? Qui! E via, l’uva finisce per mia mano
nell’immondizia, finta borsa da trasporto sorretta dal bretone, sotto gli
sguardi soddisfatti di tutti i presenti. Che colpo da maestri! Così salviamo
l’onore e le papille gustative. Sto ancora ridendo alle lacrime.
Dopo tale gioco di prestigio,
l’uva c’è e puf! Sparita, riprendiamo per gli ultimi kilometri. Ci lasciamo
valle, risaie e frutteti alle spalle per deviare verso Persepoli. Qui, accanto
al sito archeologico, c’è l’albergo in cui vogliamo pernottare, così da
visitare il sito domattina presto e pedalare fino alle vicina Shiraz nel
pomeriggio.
La strada secondaria, polverosa e caldissima svolto e, dopo una
curva, meraviglia delle meraviglie: si intravedono le rovine. Colonne, muri,
una parte di alzato. Pedaliamo verso questo spettacolo e il cuore intanto si
gonfia di gioia. Siamo arrivati davvero a Persepoli, la grande capitale di
Dario, la voce muta di pietra di ciò che è stato un tempo un degli imperi più
potenti, rispettati e temibili. E ci siamo arrivati in bicicletta, come fosse
una passeggiata dietro casa. Dopo le foto di rito di Rita muoviamo verso
l’hotel, abbagliati dal sole e dalla gioia pura di esser giunti fin qui a
questi blocchi di pietra maestosi che tanto sfarzo e tanta fatica e tanti cieli
hanno visto. Prendiamo posto in hotel e riposiamo. Domani sarà giorno di
visita, e già non vedo l’ora!
la nottola di Minerva che schiaccia il persiano? |
Barbie zoroastriana |
Due dettagli: la cena nel parco
dell’hotel, vista sito archeologico, è stata molto folk, con la megabrace per
il kebab e il pane fatto al momento dalla signora.
Poi sono stata raggiunta da un
gruppone di balde giovani tra i 16 e i 30 anno che mi hanno fatto un terzo
grado con domande di ogni tipo e genere, nonché duemila foto, soprattutto ai
tatuaggi (qui sono vietati ma garbano assai). Ora il clima è tiepido e tutto è
dolce, in questa sera di musica e rumore d’acqua delle fontane, dove s’è fatta
la storia.
Le notti nel deserto raccontano delle fiabe curiose. Ascolta il vento che soffia leggero e lui ti porterà lontano, verso un mondo incantato, dentro un sogno che è fatto di arazzi e di infiniti acquarelli. All’alba, ricorderai soltanto di un volo sopra un mare di sabbia colorata d’oro. A chi un giorno ti chiederà cosa hai visto nel tuo viaggio, tu risponderai, con un sorriso ineffabile: “Ho sognato, ho sognato…”
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