venerdì 6 luglio 2018

8-9. PASARGADAE e PERSEPOLI. Sulle tracce degli Achemenidi con troppa frutta



5/7/18



Scrivo da qui, 






una casa tradizionale in fango, seduta a terra sui tappeti annodati da mani sapienti e incallite dal duro lavoro, mentre bevo tè forte aspettando la cena. Sono a Pasargadae, antica città achemenide, scelta da Ciro il Grande come sua capitale. Oggi qui ancora, nella piana battuta dal vento e chiusa dagli aridi monti allo sfondo, riposa il suo corpo, o almeno il suo ricordo. La sua tomba, restaurata, si dice, da Alessandro Magno quando conquistò la Persia e ne fu conquistato a sua volta, sarà meta di una breve visita domattina, prima di raggiungere Persepoli; questa città, meglio conservata e ben più maestosa, ha presto oscurato la fama di Pasargadae, ma per me che seguo la storia passo a passo, con calma, al ritmo del cuore e del respiro quando pedalo, è giusto così. Prima ciò che resta di Ciro, poi l’immensa meraviglia e i trionfi di Dario I.

Per arrivare qui abbiamo pedalato 146km su e giù per monti e valli, seguendo sempre la strada che conduce a Shiraz; è stata un po’ una tappa da gran premio della montagna, ma il caldo è meno feroce per l’altitudine ed il vento non ha infierito.
La notte non è stata delle più serene: ho dormito a terra, su un tappeto ruvido, senza nemmeno materassino e sacco a pelo: non avevo voglia di chiedere al nostro ospite, Sassanid, di riaprire il garage per recuperare l’unica borsa lasciata sulla bici. E così come un monaco penitente ho riposato più o meno. La colazione, tre kili di frittata, pane e formaggio, tutto annacquato dal tè, è stata rapida. Con Sassanid avevamo infatti appuntamento poco dopo, a 25km di distanza, dove ci ha invitati, nella sua tenuta, nella quale potremo trovare alloggio, se necessario, sulla strada per Yazd.

Dopo i saluti alla famiglia e gli ennesimi mille video, le dirette e le foto per Instagram, siamo partiti. Anzi no. La ruota posteriore della mia bici era uscita di sede, lo sgancio rapido (che tiene anche il portapacchi) era stato aperto e il disco del freno impediva alla ruota di girare. Sassanid continuava a ciarlare e a fare le sue cose, distraendo anche Raymond, mentre io smadonnavo a bassa voce perché non avevo ancora capito dove stesse il problema; il tentativo di salutare il rumoroso ospite e nella strada, con calma, sistemare i danni, è stato vanificato dal fatto che ci ha seguiti per farci ulteriori foto alla partenza. Sicchè ho dovuto metter le mani sulla bici alla sua presenza, mentre continuava a dire: “Sei sicura che ieri quando sei arrivata fosse a posto? Dici che ci ha giocato qualcuno, magari un bambino?”. Magari un bambinone di 55 anni qui presente, penso. Ma come dice il Puill non possiamo saperlo, lui è stato gentile con noi e non è bello nutrire sospetti nei suoi confronti.

Comunque. Sistemata la claudicante Signora e fatta scorta d’acqua, ci siamo diretti verso il podere di Sassanid, che ci aveva pure offerto un passaggio in jeep ed era rimasto sorpreso dal nostro rifiuto. Ci ha superati strombazzando ma lo abbiamo raggiunto di lì a poco. La sua azienda consiste in un ampio terreno coltivato a frutta (pesche, albicocche, viti), con qualche animale, un giardino, una casa e varie rimesse per gli attrezzi e i trattori. 






Lui ed il figlio diciottenne, cowboy iraniani, ci hanno accolti di nuovo con saluti, baci e abbracci, foto, video urlati e altre diavolerie social. Poi il brav’uomo ci ha regalato una sacchettata di circa 5kg di pesche dei suoi alberi; maturissime, buonissime, ma troppe! Sono due giorni che non mangiamo altro che pesche spiaccicate e calde, fermentate al sole. Ci ha anche regalato della crema solare, una a testa, dicendo: “Look at you! Your body is destroied” –e non ha tutti i torti: il mio naso ha la consistenza della pelle degli elefanti e probabilmente a breve mi cadrà. Unico dettaglio negativo: la crema che ha dato a me non è né bianca né trasparente ma marroncina, color pelle di persiano, e quando la metto oscillo tra il costume di carnevale del negus Menelicche e un vaso di Nutella finito male. Ma vabe’, già sono lercia di mio, un tocco in più di maròn che vuoi che sia?





Così, carichi e maroni, ci siamo rimessi in strada, sempre diretti a sud, con i monti dalle forme curiose ai lati, a chiudere la stretta valle più o meno pianeggiante. Come sempre sclacsonate e foto e urla d’incitamento non si contano.












Un dettaglio: parallela a questa strada che va a Shiraz corre la ferrovia, ed ogni tanto si vede un treno passare lento, sbuffando nuvoloni di fumo. Talora si trovano, sulla strada, cartelli come questo, che indicano fantomatiche stazioni; a seguirli, si va sì verso i binari, ma su sentieri sterrati e nascosti dalla sabbia, qui. Dove cavolo può essere mai la stazione in questo nulla?!


dov'è la stazione?!


Alle spalle ormai i primi 50km, abbiamo deciso di fermarci sotto al solito cartellone (ormai a occhio sappiamo scegliere quali facciamo più ombra, anche da lontano), per iniziare a mangiare un po’ di pesche, mentre intorno iniziava ad alzarsi il vento che modella la roccia come uno scalpello. A propos, vero o no che il 5 scritto in farsi pare un cuore rovesciato o un culetto?






Con la pressione bassa (io) e pieni di frutta (entrambi) siamo montati in sella di nuovo, ma è durata poco; un’allegra famigliola ha accostato l’auto per farsi un po’ di foto e selfie con noi, adducendo la scusa che pure il capoclan fosse un ciclista. Domande, saluti, abbracci, a me più che al povero Puill, sempre messo da parte nelle foto. 



E via, ancora, verso la prima salita lunga, oltre 10km, sotto un caldo allucinante, tra valloni in cui il vento non si avventura, accanto ai camion che salgono lenti ed emanano calore d’inferno e fumi neri e oleosi. Dura, durissima. Ho sudato anche la cresima.

In cima però si è spalancato lo spettacolo di una nuova valle, più ampia e verde (verde davvero! Non ocra o color legno, verde!), cui siamo giunti con una lunghissima discesa che ha fatto dimenticare in un attimo la fatica. Chi non ha mai pedalato, soprattutto con una bicicletta dal culo pesante, non può immaginare l’ebbrezza infinita che dà la discesa in picchiata dopo una salita. Si diventa aria che scivola nella brezza e il paesaggio scorre intorno come non fosse vero, come una pellicola proiettata ai bordi del campo visivo, mentre i colori si mescolano e azzurro e ocra si fondono in un mulinello.









Girata la boa degli 80km abbiamo approfittato  dell’ombra di un albero, un albero vero con le foglie vere e verdi, che fanno vera ombra, per pranzare. In lontananza, capre e pastori; due bambini si sono avvicinati incuriositi, ma solo per salutare. Con la pancia piena di pane e formaggio e caffè mi sono concessa un momento di grazia ad osservare il sole tra i rami, e il mosaico azzurro del cielo tra le fronde. Mi è persino parso di vedere un nido. Allora non è solo deserto, qui!







Di villaggi microscopici ne abbiamo incontrati diversi, ma di città vera e propria una sola, Safashahr, dove, nel baracchino di un poliomelitico arroccato dietro alla cassa, abbiamo fatto shopping: caffè, acqua, biscotti, halva… L’intenzione era infatti quella di campeggiare wild, tra dune e valli, non essendoci alcuna altra grande città per molte decine di kilometri. Intorno e da queste parti ci sono tante cave di pietra; le montagne sono scavate da cunicoli come formicai e spesso si vedono i resti di lavori d’estrazione recenti.




Passata l’ennesima salita, ho potuto apprezzare una cosa di cui prima mai mi sarei accorta: i diversi colori che sabbia e roccia possono assumere; a volte sono ocra, a volte, rosse, a volte bianche da accecare, a volte scure, quasi nere, come la pietra lavica. A volte del tutto brulle, a volte punteggiate di sterpi e cespugli con lunghe spine e fiori seccati al sole.






Dalle foto sembrerà sempre deserto, sempre sabbia, sempre roccia. Ma ad esserci in mezzo davvero si percepisce la diversa tonalità dei colori, la gamma cromatica che oscilla e incanta l’occhio da una valle all’altra. Da ieri poi il paesaggio ha iniziato ad essere persino più verde e ricco di vegetazione. Ci sono addirittura dei prati dove pascolano greggi sotto l’occhio socchiuso al sole dei pastori.

Ultimo muro da superare, ultima salita del giorno. Caldo, ancora, caldissimo sulle rampe tra le alti pareti di roccia che chiudono al vento il passaggio. Ho pensato alle cave di pietra, alle prigioni leggendarie, alle Latomie. Sopra vedevo l’azzurro del cielo farsi dorato color di miele nella luce sempre più bassa; silenzio intorno. 






Sono arrivata in cima già stordita di mio, cotta e stanca; mai immaginavo di tener banco con un camionista assai loquace, che parlava soltanto in farsi, rapido e meccanico, e mi ha fatto bere ventordici tazze di tè BOLLENTE, da una tazza lercia, lavata con acqua di dubbia provenienza ficcandoci dentro le sue manone annerite dal sole e dall’olio del motore. Il Puill era rimasto indietro sulla salita quindi le public relations sono toccate anzitutto a me, accanto al camion acceso sbuffante calore e smog, con il tè caldo in mano. Poi è giunto anche Raymond, si è ciucciato pure lui la sua dose di conversazione, di tè e di acqua ignota, di foto (con e senza caschetto, che il camionista ha voluto provare); abbiamo rimediato anche ospitalità per cena e notte a Shiraz, ma non sappiamo bene dove, visto che il brav’uomo ha scritto tutto in farsi, con una grafia tra l’altro abbastanza incerta; poi non parla inglese, e intendersi è troppo difficile: probabilmente declineremo l’invito.






Finito il salottino siamo finalmente ripartiti giù a volo d’aquila per la discesissima, 





fino a raggiungere una piccola area di sosta dotata di moschea, fedeli, senzatetto e fiumicello pieno di alghe e immondizia. Mentre Raymond prendeva dell’acqua, si è creato attorno a me un capannello di iraniani curiosi, e via con le solite domande e i soliti commenti. Il Puill ha anche tentato di sbolognare loro le pesche spetasciate rimaste (ancora issime) ma loro ci hanno guardati con una faccia schifata dicendo “Ma che davero ve magnate sta zozzeria?”. Proprio così, in farsi, ma parole testuali. 







A quel punto eravamo pronti per cercare un luogo adatto a trascorrere la notte. Ma a me è venuta l’idea di controllare cosa ci fosse in quella vicina città dal nome ancora ignoto, Pasargadae. E, incredibile! E’ la città fondata da Ciro il grande dopo aver sconfitto, proprio in questo luogo, Astiage, ultime re dei Medi, diventato così signore di un impero grandioso. Ed è dove resta la sua tomba maestosa, candida e alta in mezzo alla valle, capace ancora di trasmettere una sensazione di dovuto rispetto. Ma allora bisogna fermarsi a vederla! Pasargadae poi è la parola da cui si dice derivi il termine paradiso, in riferimento ai giardini persiani lussureggianti, ai giardini di Babilonia che i sovrani amavano far fiorire in mezzo al deserto, dominio totale dell’uomo sulla natura.






Era già tardi ed il sito archeologico ormai chiuso. Quindi, visto che ormai i kilometri percorsi erano già tanti, abbiamo optato per fermarci lì; troppe case. Quindi perché non approfittare di uno (il più lezzo, il più tipico) dei molti alloggi offerti ai turisti di passaggio?

E così ci siamo buttati dentro a questo villaggio con le case fatte di fango e paglia, baracchette e tappeti, tende e porte socchiuse, in un andirivieni di bimbi curiosi. Dopo qualche trattativa, abbiamo preso alloggio nelle nostre casette, dotate tutte di luce e presa elettrica, di tappeto e cuscinetti per sedersi o per dormire, nonché di piccolo camino.
Del bagno è meglio che non parli: si ostinano a voler mettere il wc e non la turca, ma poi due volte su tre non funziona lo sciacquone. Mannaggia a loro.














Ci hanno portato il tè e pure la cena: un quintalone di riso giallo con pomodori, da condire con delle specie di lenticchiette o similia sotto aceto, dal sapore non dissimile da quello dei capperi. Hanno anche avuto il buon cuore di portarci, più tardi, un piattino con le croste del riso croccanti incollate al fondo della pentola. Buonissime!




E così, dopo l’ultima preghiera dalla vicina moschea, si alza la luna e la luce scivola in valle lontane, goccia a goccia. I bambini ridono, fuori, poi si fa silenzio. Abbaia un cane. Sto imparando a dormire a terra sui tappeti.


6/7/2018
Ci si sveglia presto nelle case di fango, e già i galli cantano negli aridi giardini. La colazione è servita nella tenda centrale, pane stirato a mano, tè, cetrioli, pomodori e un formaggino di capra homemade che se non è condito con la paura di batteri terribili dello sguarone non è buono.  

E poi in sella rapidi verso il sito archeologico, che dista meno di 1km ed è stato appena aperto. Già prima di entrare, al fondo della strada, svetta la tomba di Ciro (almeno creduta tale dopo Alessandro Magno, che la venerò dopo aver distrutto la vicina Persepoli). Arriano (II secolo d.C.) racconta che il macedone ordinò al suo luogotenente Aristobulo di entrare nell’edificio, che conteneva un letto e una bara d’oro, una tavola imbandita , paramenti, pietre preziose e un’iscrizione. Durante la conquista islamica, i soldati decisero di distruggere il monumento perché in contrasto con i loro principi religiosi, ma i guardiani del luogo riuscirono a convincerli del fatto che non fosse la tomba di Ciro il Grande, ma della madre di re Salomone; la pietra fu risparmiata e l’iscrizione fu sostituita con un versetto del Corano.






E’ stata la prima capitale dell’impero achemenide, Pasargadae, fondata proprio da Ciro nel 546 a.C.; oltre al cenotafio, si conservano i resti di due palazzi reali con i loro giardini, “paradisi” in mezzo alla roccia per chi giungeva da lontano, e un bazaar trecentesco costruito con le pietre rimediate dagli antichi edifici. Purtroppo la diga ed il lago artificiale costruiti nel 2007 preoccupano gli archeologi perché temono che l’umidità e le mutate condizioni climatiche possano rovinare i resti.




La breve visita mi ha dato la carica per esplorare ulteriormente questo paese dalla storia immensa, sconfinata nello spazio e nel tempo; tanto più che Persepoli era la meta. Le salite che temevo oggi si sono rivelate un piacevole su e giù di morbide rampe, tutte all’interno di un vallone verdissimo, ma davvero, profumato di alberi da frutta e splendido per le risaie allagate che riflettono il sole. “Il mare a quadretti” ho sentito dire un giorno in cui ero felice.













I roccioni intorno hanno una forma incredibile, paiono muri e scalinate di giganti antichi, sembrano cascate solidificate per sempre in un silenzio di pietra. Fanno da recinto allo sguardo, perché non si perda e l’occhio non cerchi altrove: è qui la bellezza, è qui la vita che rinasce verdissima. Ci sono persino prati e fieno, capre al pascolo e tantissimi contadini con la schiena curva. La terra è bassa in tutto il mondo. Dopo una volata in questo eden ritrovato, che mi dà ragione del perché le capitali dell’impero persiano siano sorte da queste parti, ci fermiamo a dar fondo alle (pen)ultime pesche. Con soddisfazione constatiamo che ne restano meno di una decina. Ma è una vittoria di Pirro.





















Di lì a qualche kilometro veniamo fermati da alcuni venditori di frutta, che in tutta questa zona mostrano la propria merce in cassette ordinate a bordo strada, sotto ombrelloni colorati. Solite domande, solito stupore, solite foto. E due sacchetti ENORMI di frutta troppo matura per essere trasportata. Di nuovo! Pesche, prugne, albicocche. Un se n’esce.







Ultima sosta della mattina per fare rifornimento d’acqua e schifezze fredde da bere, ultime foto ai contadini piegati nell’acqua delle risaie, che, da sotto ai cappelli enormi, salutano e sorridono.




Viene il momento del pranzo: manca una manciata di kilometri alla prima grande meta di questo viaggio: Persepoli. Troviamo alcuni alberi sotto cui riposare e, nemmeno il tempo di sederci, subito ci raggiunge il proprietario di una casa vicina. E’ venerdì, come la domenica da noi, e si griglia in giardino con la famiglia. L’uomo ci invita a pranzo ma temiamo vada troppo per le lunghe; allora ci invita a fare la doccia e a dormire. Ottimo, ha proprio capito. Intanto gli rifiliamo un po’ di frutta da sbolognare.



Ma commettiamo un grave errore. Questo ingenera in lui un sentimento di debito, e poi dopo ci manda un ragazzino con un piano pieno di uva del tutto acerba. Acidissima, immangiabile. Ci chiediamo se sia effettivamente da mangiare e iniziamo a disfarcene con nonchalanche. 




Ma arriva altra gente. Un camionista, che mette giù il suo tappeto e prima di pranzo prega e prega. Lo fa inginocchiandosi e inchinandosi davanti alla Signora, e pare stia venerando lei. Straniante. Poi si aggiungono al lieto convivio altri due camionisti, armati di pentoloni di riso, pane e Pepsi. Ruttano come il Cracatoa, ma tant’è. Noi tentiamo di disfesciar loro l’uva, ma il nostro piano non va a buon fine: proprio in quel momento sopraggiungono dalla casa vicina due ragazzi per riprendersi il piatto. Noi proviamo a ridarglielo con dentro i malefici grappoli acerbi ma no, no! E’ per voi quella! Lo dicono in coro i ragazzi e i camionisti. Allora pensiamo di metterla in un sacchetto e liberarcene più avanti; peccato che di sacchetti non ne abbiamo più tranne COLPO DI GENIO quello della monnezza, in cui abbiamo raccolto cartacce e bottiglie vuote del pranzo. Dall’esterno sembra una borsina normale. Ed è un attimo: il Puill mi allunga il sacchetto e risponde alla mia domanda: dove possiamo metterla? Qui! E via, l’uva finisce per mia mano nell’immondizia, finta borsa da trasporto sorretta dal bretone, sotto gli sguardi soddisfatti di tutti i presenti. Che colpo da maestri! Così salviamo l’onore e le papille gustative. Sto ancora ridendo alle lacrime.








Dopo tale gioco di prestigio, l’uva c’è e puf! Sparita, riprendiamo per gli ultimi kilometri. Ci lasciamo valle, risaie e frutteti alle spalle per deviare verso Persepoli. Qui, accanto al sito archeologico, c’è l’albergo in cui vogliamo pernottare, così da visitare il sito domattina presto e pedalare fino alle vicina Shiraz nel pomeriggio.





La strada secondaria, polverosa e caldissima svolto e, dopo una curva, meraviglia delle meraviglie: si intravedono le rovine. Colonne, muri, una parte di alzato. Pedaliamo verso questo spettacolo e il cuore intanto si gonfia di gioia. Siamo arrivati davvero a Persepoli, la grande capitale di Dario, la voce muta di pietra di ciò che è stato un tempo un degli imperi più potenti, rispettati e temibili. E ci siamo arrivati in bicicletta, come fosse una passeggiata dietro casa. Dopo le foto di rito di Rita muoviamo verso l’hotel, abbagliati dal sole e dalla gioia pura di esser giunti fin qui a questi blocchi di pietra maestosi che tanto sfarzo e tanta fatica e tanti cieli hanno visto. Prendiamo posto in hotel e riposiamo. Domani sarà giorno di visita, e già non vedo l’ora!









la nottola di Minerva che schiaccia il persiano?






Barbie zoroastriana



Due dettagli: la cena nel parco dell’hotel, vista sito archeologico, è stata molto folk, con la megabrace per il kebab e il pane fatto al momento dalla signora.





Poi sono stata raggiunta da un gruppone di balde giovani tra i 16 e i 30 anno che mi hanno fatto un terzo grado con domande di ogni tipo e genere, nonché duemila foto, soprattutto ai tatuaggi (qui sono vietati ma garbano assai). Ora il clima è tiepido e tutto è dolce, in questa sera di musica e rumore d’acqua delle fontane, dove s’è fatta la storia.



1 commento:

  1. Le notti nel deserto raccontano delle fiabe curiose. Ascolta il vento che soffia leggero e lui ti porterà lontano, verso un mondo incantato, dentro un sogno che è fatto di arazzi e di infiniti acquarelli. All’alba, ricorderai soltanto di un volo sopra un mare di sabbia colorata d’oro. A chi un giorno ti chiederà cosa hai visto nel tuo viaggio, tu risponderai, con un sorriso ineffabile: “Ho sognato, ho sognato…”

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