28/7/17
“Non è necessario pensare che il
mondo finisca nel fuoco o nel ghiaccio; ci sono due altre possibilità: la
burocrazia e la nostalgia”.
Oggi è stata una giornata tutta
storta, tutta sbagliata fin da subito. Una giornata proprio di merda in ogni senso.
Per fortuna con il lieto fine.
Questa mattina ero anche
contenta, nonostante le fitte di mal di pancia e il malessere diffuso,
nonostante i du’ ovi fritti che ho dovuto mangiare a colazione perché quello o
nulla, nonostante la debolezza immensa di un’infezione già galoppante nelle mie
budella.
Ero contenta perché di lì a poche
ore, credevo, me ingenua, me lassa, melassa, di poter lasciarmi alle spalle il
popo’ di lezzo del Turkmenistàn e le sue leggi sbagliate e gli stronzi dei
grandi alberghi.
All’inizio, condizioni fisiche a
parte, è anche andato tutto bene. Da Turkmenabat, dove eravamo, al confine ci
sarebbero dovuti essere circa 20 km, che poi si son rivelati 35.
Appena fuori dall’albergone
abbiamo percorso il vialone con i palazzoni e la faccia sorridente di mr
president, il più grande di tutti gli –oni. E non è un accrescitivo.
Come sempre le vie semideserte e
troppo ampie, la ancanza assoluta di case e negozi e l’eccessivo ordine mi
hanno dimostrato come questo non sia un paese per esseri umani.
Tanto più che in un baleno,
girato l’angolo e sbagliando strada, ci siamo infognati in alcune vie chiuse
della periferia, che si sviluppa praticamente sotto alla ferrovia. Inutile dire
che qui ci sono case e negozi, e tutto è distrutto e fatiscente come nei più
poveri villaggi rurali della fredda Siberia. Le strade non sono asfaltate e le
case crollano, ci sono lamiere e macerie e tanta polvere. E qui sta la gente,
di là dalle belle facciate, oltre i muri bianchi altissimi decorati d’oro e
ceramiche.
Qui vive la gente normale e vive
tra il poco e il nulla. Non fa la fame, perché altrimenti ci sarebbe una
rivoluzione, ma sta sull’orlo minimo dell’accettabile. Così mr president dorme
sonni tranquilli e può continuare a pigliar per il culo una nazione intera.
Tra l’altro, come dicevo, abbiamo
sbagliato strada; si sono accostati due ragazzini biondi e lentigginosi, in
bicicletta, che hanno cominciato a dirci che per Farab, città sul confine, la
strada era un’altra, di seguirli che ci avrebbero portati al posto giusto. Io
ero ancora sul chi vive per le brutte esperienze dei giorni precedenti e quindi
ho pensato che volessero condurci in un vicoletto buio e rubarci anche le
cornee. Invece, per l’ennesima volta, le persone comuni si sono dimostrate
gentili e buone, a differenza degli impiegatucci che hanno una posizione o
degli arricchiti; da questi bisogna guardarsi, da questi che pure non hanno la
necessità impellente di comprare il pane. La povera gente dei villaggi è ben
più onesta e disponibile, sempre pronta ad aiutare. Così è stato in Iran, così
è in Turkmenistan, così è in tutto il mondo. Come ha insegnato Primo Levi, è
dai Kapò che bisogna guardarsi. Fatto sta che i due ragazzini ci hanno indicato
la strada giusta, ci hanno aiutati a spingere le bici su lungo la salita della
ferrovia e giù dall’altra parte. E poi se ne sono andati, mentre altri curiosi,
per via, ci han chiesto se stessimo andando in Uzbekistan (beati noi,
sottinteso).
Dopo aver passato il nuovo ponte
sul fiume Amu Darya, grande e ricco d’acqua come non ne vedo da che son
partita,
e dopo i grandi campi verdissimi del cotone, con i contadini già chini
al sole o in pausa all'ombra,
è ricominciato il deserto. E il vento, anche. E la sabbia terribile
che graffia e frusta e acceca.
Sono stati pochi kilometri, ma
difficili; quando il caldo arroventa il respiro e l’aria si riempie di sabbia
finissima stare in sella diventa una pena, e a questo si aggiunga la febbre e
il malessere, di quelle fitte che salgono dal bassoventre e bloccano il cuore e
i polmoni.
Sono stati costruiti qui dei
traliccetti di bambù che dovrebbero impedire alla sabbia malefica di invadere
la carreggiata, ma non funzionano, come tre quarti delle cose in Turkmenistan.
Infatti a volte sulla strada ci sono delle vere e proprie dune pettinate dalle
dita del vento e bisogna stare molto attenti a non finirci in mezzo con le
ruote.
Finalmente, in lontananza,
vediamo prima Farab, poi, dopo altro deserto, alcuni edifici isolati. Sarà la
frontiera! C’è, poco prima che inizi la lunga fila di camion fermi a motore spento,
una sorta di area di servizio che pare nuovissima: ristorante, bagni, un
negozio e un ufficio. Decidiamo di fermarci per cambiare la valanga di manat
che ci restano, chè in Turkmenistan, esclusi i due grandi alberghi pagati in
dollari (50 e 30 a testa, rispettivamente), per le prime due notti e i pasti e
tutto il resto abbiamo speso in due meno di 50 euro. Ci avviciniamo agli
edifici, dove si vede per altro un gran viavai di gente, e subito un militare
si avvicina e ci intima di andarcene. “Ni rabotet!”, non funziona, fuori
servizio! Era la frase must in Russia, dove c’è tutto ma non funziona nulla. Ni
rabotet, ottimo. E per cambiare i soldi e pisciare e bere che si fa? L’uomo in
divisa ci indica il primo cancello della frontiera. Insomma, per un cesso e
dell’acqua si deve andare in un’altra nazione. Be’, allora ciaone, noi si va.
E percorriamo la strada che porta
al checkpoint, dove donne con gli abiti colorati che svolazzano al vento si
accalcano al cancello. Tra i camion si nasconde il classico brulicare dei
confini, con gente che cambia valuta, genteche vende frutta o pane o
ammennicoli per spendere gli ultimi spicci. Noi tiriamo dritti: a sto punto
facciamo tutto in Uzbekistan e amen.
Un soldatino con gli occhi a
mandorla di apre il cancello e ci prende i passaporti. Li controlla e poi li dà
un altro, che li controlla e li passa a un terzo. Intanto il capoccia sbraita
contro alcune signore e strappa lo zainetto dalle spalle di un bambino che non
ha rispettato l’ordine di mostrare immediatamente cosa traffica: un succo di
frutta, un asciugamano, un orsetto, una brioches. I passaporti finiscono nelle
mani del kapò che ci chiama e ci fa segno di no con la testa. Mi indica il
visto uzbeko e dice che c’è un problema. Guardo. Orrore. The horror, the
horror. La data di inizio è il 29 luglio. Domani. Panico.
Il mio visto turkmeno scade oggi
(28) e quello uzbeko inizia domani. E basterebbe aspettare mezzanotte e fare
tutto a cavallo del giorno, ma questi minus habentes chiudono baracca in un
orario imprecisato tra le 17 e le 20. E per altro senza visto valido per
l’Uzbekistan non mi fanno uscire dal Turkmenistan, perché non vogliono la rogna
di un respinto che torna indietro e deve rifare tutto da capo.
Dopo un momento di dolore acuto,
e non erano solo le fitte in pancia, chiedo cosa si possa fare. In un mezzo
inglese che lascia molti dubbi, il capoccia mi dice di tornare alle 17, quando
chiudono, così noi si passa e loro sono a posto perché non mi hanno fatto
scadere il visto e non possono riaccettarmi chè alle mie spalle tirano giù la
saracinesca. Poi cazzi miei con gli uzbeki, vedran loro che fare.
Faccio un rapido calcolo. Sono le
11 del mattino. Dobbiamo tornare alle 17. Queste belle 6 ore dove le passiamo?
Qui! Propone il soldatino che ha assistito alla scena. E indica un blococ di
cemento esposto al sole dove le donne che transitano aprono le loro borse in un
totale caos di urla e ordini. Non se ne parla. Decidiamo di tornare all’unica
ombra che abbiamo visto, quella dell’area di sosta che ni rabotet. Lungo il
percorso troviamo una losca tipa dal volto coperto che ci cambia i manat in
dollari. Non è molto conveniente ma almeno riusciamo a liberarci di quella
valuta buona solo per pulirsi il culo, chè nemmeno nel paese dove è ufficiale
la accettano. Poi acquistiamo frutta e pane, sempre al nero tra i camion
parcheggiati.
Una volta giunti all’area di
sosta si presenta un altro omone in divisa e con il volto coperto per
proteggersi dalla sabbia; che mannaggia a lui lo sa che siamo in mezzo al
deserto e si sta da cani, anzi da sciacalli. E cerca di allontanarci in tutti i
modi. Dice che lì è vietato, che dobbiamo andare via, che stanno lavorando (in
effetti il ristorante è in costruzione, all’interno) e soprattutto che è un
luogo poi riservato ai militari. Perché ci mancherebbe che i bagni e il bar
fossero per i comuni mortali. Io sto male e non ho voglia di discutere, e sono
quasi pronta a levar le tende. Raymond invece usa una tattica geniale; dopo
aver tentato di spiegare -senza successo- la situazione, mentre il militare
continua ad alzare la voce e a fare gesti minacciosi, inizia a mangiare l’uva.
La tira fuori dalle borse e, acino ad acino, con gran calma, mastica e
deglutisce. Il siparietto va avanti qualche minuto e il bretone non si smuove
di un millimetro: è il bacchetto con il grappolo d’uva, una statua di gesso,
l’imperturbabile bretoniera del nirvana fruttivoro. La tecnica funziona: il
coglione in divisa se ne va e nessuno torna più, nelle ore successive, a dirci
alcunchè. Il Puill sbotta allora in una cascata di “stupid man, stupid stupid
man”, chè in effetti se non capisci che due persone in bici stanche e una pure
malata non possono stare 6 ore in piedi sotto al sole nella sabbia del deserto
sei ben più che solo stupid. Che quando la demenza incontra il potere è la
fine.
Inizia la prima lunga attesa.
Io
mi sdraio a terra sul telo di plastica e dormo almeno tre ore, mentre sento la
sabbia ricoprirmi di uno strato sempre meno leggero. La sabbia sulle labbra e
tra i capelli. La sabbia nelle orecchie e sulla pelle sudata. Sabbia fina fina
e salata che cricchia fra i denti e riempie le scarpe e i calzini e va tra le
dita dei piedi. Mi sveglio dopo strani sogni e bevo. Mica sto bene. Ci
spostiamo perché il sole ha già percorso un bel tratto e l’ombra gira come le
lancette dell’orologio. Raymond mangia le pesche. Poi l’uva. Poi un uovo sodo
(ma da dove arriva?). Chiacchieriamo. Dormiamo ancora e lasciamo che la sabbia
ci veli d’ocra e vento. Si fanno finalmente le 15.30, presto, ma ci proviamo.
Io approfitto di una duna e sarà l’ultima tyalet fino a sera inoltrata. Raymond
va a chiedere dell’acqua alla gente che va e viene dal ristorante in
costruzione. Gliela danno, ma facendosi pagare bene. Stronzi.
Torniamo al checkpoint e
ricomincia il teatrino perché nessun soldato (e son gli stessi di prima!) si
ricorda della faccenda. E dire che non credo si vedan tutti giorni due
cicloturisti passar di lì. E il visto uzbeko parte domani. E non va bene. E c’è
un errore. E però quello turkmeno scade oggi. Eh problem problem.
Per fortuna il kapò si ricorda e
dopo aver di nuovo sfogliato all’infinito il mio passaporto ci lascia passare.
Dopo un tratto di strada in mezzo alla sabbia, senza alcuna indicazione,
raggiungiamo un grande edificio dove si svolgono i controlli effettivi. C’è un
montone di gente che compila fogli, che attende, che sbuffa, che suda, che ci
guarda. A propos, in questo edificio, che dista –a esagerare- 500 metri dal
primo cancello, ci sono sedie, bagni, aria condizionata. Ma ci voleva molto a
farci giungere qui per la lunga attesa? Ma era complicato capire che per una
persona, un essere umano, un pezzo di carne con il cervello dentro e i 21
grammi d’anima, è un poco più confortevole, e per la burokratia non cambia
nulla tanto siamo comunque ancora dentro a sto paese?
Sì, era troppo difficile. Troppo.
Inizia la trafila della carta
stampata e timbrata, la trafila dell’apri la borsa chiudi la borsa, la trafila
del hai armi hai droga hai sigarette hai materiale radioattivo hai tappeti
d’epoca?
Na valanga. Nascosti nel telaio
della bici. Allora porta dentro le bici negli uffici e controlla pure quelle.
Fitte alla pancia, intanto.
Finita? No!
Ora ricontrolliamo le impronte
digitali e la cornea che magari in 5 schifi giorni hai fatto la plastica per
cambiare identità.
E poi finalmente il timbro. E
sticazzi.
Primo sospiro di sollievo. Dal
Turkmenistan siamo fuori.
Ah no, tutta la strada da lì ad
un cancello aperto su un rigagnolo marcio è ancora Turkmenista. Ultimo
controllo passpart. Fuori davvero.
Per 4 metri.
Poi c’è il cancello uzbeko.
Ci fermano i soldatini che han
cambiato divisa e hanno gli occhi meno a mandorla e la pelle più chiara.
Parlano inglese un po’ meglio. Raymond ok. Io… Eh no. Vale da domani. Devi
tornare indietro in Turkmenistan.
Momento di panico. Sorrido.
Guardo il mitra e il coltello, gli anfibi e i rayban a specchio dell’uomo che
ho di fronte. Mi scusi assai, ma indietro NON torno. Mi è scaduto il visto e mi
è scaduta la voglia di dittatura.
“Non puoi passare, il tuo visto
vale da domani”.
E allora aspetto.
Ok, state qui.
E ci indica la piattaforma di
cemento su cui sorge un gabbiotto vuoto che serve a proteggere i militari dal
sole. Passate a mezzanotte.
Ci sediamo. Sono le 17. Di bagni
nemmeno l’ombra. Il resto lo abbiamo: acqua, un po’ di cibo, qualcosa per
stenderci. Fino alle 20 il viavai di gente è tale che è impossibile riposare.
Tutti sorridono, qualcuno ci offre da mangiare e si interessa al nostro caso.
Un soldatino mi mostra le foto della sua fidanzata seminuda e poi la chiama,
chè lei parla inglese. E fa chiedere a lei tutte le curiosità. Poi qualcuno ci
dice che dobbiamo aspettare le 7 del mattino dopo perché la frontiera chiude di
notte. Altri dicono solo mezzanotte. Un marshrutki, i pullmini vecchi e
scassati, fa inans e indrè e deposita gente. Chi arriva dal Turkmenistan canta,
e ce credo che son felici di rimpatriare. I militari ascoltano musica russa e
occidentale. Io e Raymond studiamo le prossime tappe, poi lui prova ad
allontanarsi di qualche metro per fare pipì e subito viene richiamato. “Ma non
lo sanno che i vecchi hanno problemi di prostatite?” fa la battuta il bretone.
Anch’io avrei gran bisogno, in realtà.
Con il crepuscolo diminuisce il
traffico. Arriva un furgone con le nuove guardie, le altre se ne vanno. Questi
sono più sospettosi e ci stanno appiccicati tutto il tempo. Quando cala il buio
accendono i fari e ci piazzano pure una torcia addosso. Ma ci danno
l’autorizzazione ad andare in bagno, che è il classico buco in terra con
lamiera intorno (e nido di vespe dentro) a duecento metri di distanza.
Il silenzio aumenta, si sentono
solo i camionisti, che passeranno lì la notte, parlottare mentre giocano con le
loro scacchiere.
Sale la luna, ed è rossa ed
enorme, e si staglia prima contro le canne palustri del rivo e poi contro il
filo spinato. “Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati/ a cielo e
denaro/ a cielo ed amore/ protetta da un filo spinato…”.
Si sentono i grilli anche. E le
zanzare maledette iniziano a divorarci lì come siamo seduti sul cemento. Ci
laviamo alla buona e ci ungiamo di Autan, prima di tentare un sonnellino fino a
mezzanotte, per vedere che succede. Mi stendo e sento il rumore del motore dei
tir che pare il mare. E il venticello sempre più freddo, che porta anche un
sapore salato che pare il mare. E la luce che taglia l’ombra come agli scogli
della chiesetta di Sant’Ampelio, a Bordighera, che è al mare davvero,così
lontana da qui. Il suolo caldo sulla schiena mi dà l’impressione di un
abbraccio da dietro e nel dormiveglia penso davvero di essere là, nel luogo
delle mie vacanze di bambina, con le onde nere davanti e le palme e la pietra e
il campanile illuminato alle spalle. Si apre una bolla nello spazio tempo e
rivivo il ricordo di un abbraccio seduti sugli scogli con le gambe a penzoloni
nella sera fresca. E sono felice.
Mister! Mister!
Una torcia puntata in faccia.
Go, midnight, go.
Ci svegliano così i soldati e la
notizia è buona. Go. Non dobbiamo passare la notte qui. Raymond sembra
indispettito: lui stava dormendo bene e sarebbe rimasto volentieri. Di là e
oltre non sappiamo cosa ci attenda.
Pedaliamo pianissimo, siamo cotti
e io sto pure peggio di prima. Fa anche freddo, o ho la febbre. Indosso
l’antivento catarifrangente.
Le formalità dalla parte uzbeka,
ora che il maledetto visto è valido, sono veloci. Gli impiegati sono gentili e
sorridono molto, uno ha il volto da gatto e ci aiuta a sbrigare tutto
rapidamente, compilandoci i moduli. Ci lascia un foglio che non dobbiamo
perdere, poiché andrà consegnato all’uscita dal paese. C’è scritto quanti soldi
abbiamo. Dovremo dichiarare la stessa cifra o meno, ci dice, altrimenti son
guai.
Nemmeno controllano borse e
bagagli, e ci dicono pure, in mezzo francese e mezzo italiano, benvenuti in
Uzbekistan. Eh veh.
Da lì inizia una parte del
viaggio da delirio allucinato. Io pensavo che fuori dalla frontiera ci fossero
i classici servizi minimi tra cui un alloggio. Niet. Iniziamo a pedalare su una
strada scassatissima di buche sabbia e sassi. Non è illuminata ma il plenilunio
enorme risolve molta parte del problema. Io però devo fermarmi ogni dieci metri
per la sguaro galoppante. Mettiamo le luci sulle bici e io persino addosso,
così se finisco nel fiume che corre accanto alla strada Raymond può
recuperarmi.
Ogni tanto qualcuno dal nulla con
una torcia fa segni: gente che vuole cambiare o spacciare o trafficare. Non
abbiamo sum, la valuta uzbeka, ma non ci fidiamo a fermarci così: sono quasi le
due di notte. Continuiamo a pedalare. A 10km, che poi diventano 25, c’è un
paese, il primo, Olot, o Alat. Ci fermano due che si spacciano per poliziotti
ma chissà. Dopo alcune domande ci dicono che in effetti lì c’è un hotel. Bene.
Raymond è stanco e vorrebbe fermarsi a campeggiare, ma io sto troppo male per
passare la notte all’aperto e insisto per raggiungere il paese. Lui dice che al
buio e i piena notte sarà impossibile trovare l’albergo, e lo temo anch’io. Ma
provare non costa nulla. Proseguiamo così sulla strada e non troviamo nulla e
nulla se non luci e qualche ubriaco ce canta fuori da una Lada scassata. I
grilli e i campi umidi intorno esalano profumo d’estate. Vediamo luci in
lontananza e giungiamo a un bivio ma non c’è alcuna indicazione. Con la mappa
offline capisco quale sia la strada principale e decido di seguire quella, ma
pare si allontani dal paese. Dei cani abbaiano e nelle cascine i galli cantano
già, benchè sia piena notte. Raymond è scettico e mi chiede di controllare la
mappa mille volte; dice: “Abbiamo perso tempo a pedalare al buio che è
pericoloso quando potevamo riposare!”... Bel riposo. Le luci si fanno lontane.
Mi rassegno a dargli ragione e iniziamo a guardarci intorno per trovare un
posto adatto al campeggio ma ci sono molte abitazioni sparse. A un certo punto
compareil cartello con il nome di Olot e, pochi metri oltre, un edificio con le
luci accese e un’insegna rossa: HOTEL!
Non ci posso credere! Hotel! Ma
sul serio! Hotel!
Stop improvviso, entriamo con le
bici nel cortile senza manco chiedere ed io entro di forza nella hall; da una
stanza esce un uomo assonnato, gli chiedo se ha due camere e mi dice sì, 20
dollari a testa (bravo, dollari, che sum non ne abbiamo ancora); ci chiede i
passaporti e poi ci dà le camere. Ci porta asciugamani e sapone e ci dà la
password della wifi. Incredibile. Il paradiso. L’Uzbekistan è il paradiso.
Siamo tornati ad essere esseri umani.
E la wifi funziona e vanno
Facebook e Whatsapp, senza bisogno di vpn che aggirino gli stupidi blocchi
delle teocrazie e delle dittature! Uzbekistan, ti amo già.
Con 60km sulle gambe, molto
dolòr, alle 4.30 di notte finisce la giornata lunga del passaggio del confine.
E dormiamo nel letto pulito, dopo la doccia, e con il bagno in camera.
Inshallah.
29/7/18
La sveglia suona alle 8.30 e si
va a far colazione. Tè, le solite uova e i soliti wursteloni, ma stavolta anche
biscotti di vario tipo, che per me sono una benedizione, chè mica sto ancora
bene.
Poi si torna in camera. Io
pubblico e faccio gran uso dell’internet, finalmente, finalmente! E Raymond
invece va a cambiare i soldi nel negozietto di fronte e a far shopping. Torna
due ore dopo, con una borsa PIENA di banconote. Gli è stato complicato cambiare
e gli han dato tutti tagli piccoli, da 1000 sum. Quando 1 euro sono 8000 sum. E
noi abbiam cambiato 400. Te pòi ‘mmaginà.
Con calma e rincoglioniti per il
poco sonno ci rimettiamo in sella. Prima, il buon proprietario dell’hotel ci
REGALA una bottiglia d’acqua fresca. Mi commuove quasi questo gesto di gratuita
umanità. Dopo tanta sete e “tante le grinte, le ghigne, i musi/ vagli a
spiegare che è primavera/ e poi lo sanno ma preferiscono/ vederla togliere a
chi va in galera./ Tante le grinte, le ghigne, i musi/ poche le facce e, fra
loro, lei…”.
Si parte. Le prima impressioni
sono quelle di un paese finalmente normale. Olot e Qoraqol, i primi due centri
abitati che incrociamo, sono abbastanza scassati e polverosi, ma hanno le case
e i negozi, i bazar, il centro, il parco, la stazione di polizia e altri
negozi. Ci sono i wc pubblici a ogni stazione di servizio e i ristoranti con
appesi fuori dei pescioloni per indicare che lì si cucina il ryba, il pesce. E
i minimarket abbondano, così come i venditori di frutta a bordo strada. Sembra
tutto così facile! I cartelli sono quasi tutti scritti in russo e con alfabeto
cirillico, mentre i nomi dei paesi sono ben strani perché in quest’area si
parla un dialetto tajiko. Di russo ci sono anche i cartonati della polizia e
dei posti di blocco, ma qui sono sbiaditi al sole e non ci casca nessuno.
Sovietici oltremodo pure i tubazzi che portano il gas nelle case e speri sempre
non esplodano.
La gente ricomincia a salutarci
in modo rumoroso e a sclacsonate, con le braccia alzate e i sorrisi aperti.
Tutti quelli che si muovono in bici, e sono tanti perché i paesi son tutti
vicini uno all’altro, finalmente, si aggregano e pedalano con noi per un
tratto, presentandosi.
I ragazzini ci mostrano la loro casa e vogliono
invitarci a pranzo ma noi dobbiamo andare: siam partiti tardi e abbiamo
comunque 75km davanti. Fa caldo, ma non troppo, e c’è vento, ma il Puill mi fa
da traino perché sto poco bene. Vogliamo raggiungere la grande città di
Bukhara, dove potremo riposare ed io potràò curarmi. Si susseguono campi e orti
e frutteti e tutto è verde. Ci sono i fossi a portare l’acqua sacra. I
contadini si muovono a dorso d’asino o sui carretti, che qui sono il mezzo di
trasporto più diffuso dopo le Lada scassate e i marshrutki. In media si vedono
paesini più miseri e più poveri, non ci sono i palazzoni e le grandi facciate,
ma è tutto vero, le cose sono come appaiono, non c’è la forma verniciata d’oro
e la sostanza marcia. La gente è più rumorosa e allegra e sorride ben di più. E
si gode la vita sui divani sotto alle frasche, fumando incenso e vaniglia tra
un bicchiere e l’altro di tè.
Ci fermiamo a metà strada e, se
dio vuole, in un kafè vero. Cioè, è un edificio curioso popolato da curiosi
personaggi, ma hanno un frigo con bevande fresche e fanno il caffè. Tutti i
presenti, a turno, vengono a farci domande, una curosità a testa, poi tornano
dentro e mettono insieme i pezzi del puzzle: chi siamo, quanti anni abbiamo, da
dove veniamo, dove andiamo, se siamo sposati. E via così. L’energica
proprietaria del locale si siede poi con noi e vuole vedere le mappe sul
telefono e ci dice che lei ha 50 anni. Veh! Poi si fa fotografare ma vuole
controllare di esser venuta bene. torna infine a fare i conti sulla sua grande
calcolatrice, in un angolo della cucina che è casa sua.
Anche il bagno, che pure è na
ulitsa, è decisamente più pulito. Ah, l’Uzbekistan, che meravigliosi buchi in
terra che ha!
Mangiucchiamo e la nostra tavola
è il simbolo del multiculturalismo: ci sono l’acqua turkmena, i datteri
iraniani, il latte condensato russo, il pane e i bicchieri uzbeki e la Pepsi. Bene così,
come i mercanti che portavano le spezie e la seta e le pellicce e i gioielli
dauna parte all’altra del mondo.
Si riparte sulla strada scassata
e sono ancora campi di pomodori e asini, carretti, ristoranti e gente che
sorride e saluta. Fieno, vento, piccole moschee con il tetto verde e città con
il nome tolkeniano tipo Jondor. Le bianche torri di Jondor. E i suoi lunghi tubi
di scappamento da cui escono gas non meglio identificati.
Procediamo di paesino in paesino,
di orto in orto, di cimitero in collina (la Spoon River centrasiatica) e io ho
una febbre che galoppa. Lo sento perché i tendini del collo son bacchettine
roventi che mi si conficcano nel cervelletto ad ogni buca. E son tante le buche
e troppi i sassi.
Finalmente un arco ci indica che
siamo arrivati alla storica Bukhara, Buxoro per gli uzbeki. Salvezza. La città
non è grande, ed è un gioiello d’arte e storia che visiteremo domani. Ora
l’obiettivo è raggiungere l’albergo, Helene Oasis, gestito da una pensionata
francese, in pieno centro, e spiaggiarci lì e non muoverci per almeno 36 ore.
Senza troppe difficoltà, perché
qui gli automobilisti rispettano le normali regole del codice della strada, ci
portamo al cuore ocra e azzurro di cupole della città. E finalmente ecco pure
il portone di legno della casa storica in cui ci fermeremo. Prendiamo le
stanze, ci laviamo, e ceniamo. Io inizio una cura di antibiotici, e sento casa.
Bevo un tè nella sera fresca, sotto alle foglie antiche di alberi saggi. Tutto
è bello. Uzbekistàn, karashò!
UZBEKISTAN
RispondiEliminaDove stan tutti sti Stan?
Son davvero assai lontan!
ma se prendo la corriera
ti raggiungo per stasera?
“In corriera fino a qui?
Forse arrivi martedì…”
Porca vacca, tròp luntan,
te saludi Uzbekistan!
Meno male c’è il pc
come e facile oggidì!
Un messaggio da quaggiù?
Presto arriva a Malibù.
La distanza è poca cosa,
In sta società curiosa.
Nostalgia, che roba l’è?
Sentimento demodè...
On s'y croit, on vit l'instant grâce à la plume de rita.dommage que je ne comprenne pas l'Italien et que Je dois imaginer avec le traducteur .a+ bisous
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