29/6/18
E questo è Raymond, mentre si
prepara il caffè come un beduino occidentale, e mentre si pappa un ovosodo. E
ci mancherebbe.
Sotto a questo cartellone
pubblicitario, tra le pendici degli Zagros e il deserto sterile Dasht-e Kevir,
nella sabbia e tra i sassi che separato l’autostrada del Golfo persico (la 7,
fatta tra Teheran e Qom) e la vecchia strada parallela, la 71, che abbiamo
percorso oggi.
Oggi è stata veramente tosta; e
io sono tosta, non nel senso di dura, proprio letteralmente, tostata, gremata,
bruleè. Solo la parte non coperta da hijab e parafernalia ovviamente. 105km a
una media di 40 gradi, sotto ad un sole allucinante e implacabile, si fan
sentire. Anche se il meglio lo ha dato Raymond, quando, scalzo, si è messo ad
inseguire un sacchetto volato via per il vento sulla piana ardente, alle 2 del
pomeriggio. Dopo qualche secondo ha saltellato di nuovo verso l’ombra (dicendo,
ad ogni balzello, “scotta scotta scotta scotta”).
Stamattina siamo partiti più o
meno presto, essendo la colazione dalle 8 in poi (qui tendenzialmente non si fa
nulla prima di quell’ora). Abbiamo salutato il centro della sacra Qom.
Per attraversare l’estesa e
polverosa periferia, dove sono venute a vivere decime di migliaia di persone
dopo la Rivoluzione, per avvicinarsi al suo cuore verde (come l’islam, non
perché ci sia vegetazione).
Da lì, procedendo verso sud,
siamo giunti alla volta di Jamkaran, sede di una importantissima, enorme e
antica (984 d.C.) moschea, dove ogni anno fiumi di pellegrini si recano a
pregare. Perché se la montagna non va da Maometto… Anche oggi c’erano
pullmanate di umanità varia, e altrettanta se ne poteva vedere nei parchi, in
tende e campeggi improvvisati o semplicemente stravaccata su sontuosi tappeti,
ad aspettare che bollisse il tè. Si dice che qui il dodicesimo imam, quello
nascosto, che gli sciiti duodecimani credono tornerà alla fine dei tempi dopo
esser sparito (e non morto), sia ricomparso qui per un folgorante istante di
luce e comunione con D*o e gli uomini. Una scintilla. Un afflato. Una sacra
flatulenza luminosa. Pruf! E via. Poi è scomparso di nuovo. Oltretutto qui c’è
una cucina per indigenti, sicchè si spiega l’umanità raccolta intorno.
Dopodichè s’è finalmente
imboccata la vecchia strada carovaniera che congiunge nord e sud del paese,
infilando come perle tutte le città-oasi che davano ristoro a bestie e mercanti
nei caravanserragli e nei bazaar. Inutile dire che in questi paesini facciamo
lo stesso effetto del Circo Barnum, o di un freak show: la gente ci chiama, ci
chiede, ci dice e ci fotografa o filma. Dal motorino, di solito in tre e
nessuno con il casco (bambini davanti, marito in mezzo a guidare, moglie
dietro).
Il deserto poi è diventato sempre
più desolato e vasto, come l’anima di Catilina e la mia a volte. Pareva a
tratti la Cappadocia, con le sue montagne a colonne rotonde e colorate per i
minerali scavati dal vento.
Un problema di questa caldazza
indescrivibile, tra gli altri (labbra spaccate come le zolle ad esempio), è la
facilità con la quale i capillari del naso esplodono in fiotti di sangue. Oggi,
per esempio, ho insozzato tutta la bici, le scarpe e me misma, prima di
decidere che la soluzione migliore fosse appallottolare un pezzo di fazzoletto
di carta, bagnarlo e infilarmelo nel naso. Vi risparmio la descrizione di cosa
è successo quando l’ho tolto, secco e incrostato alle croste di sangue.
Splatter puro.
Il Puill ha tirato fuori una
perla linguistica che resterà nei secoli. Dopo il “cane al sacco”, per indicare
i cani piccoli portati sempre in braccio dai padroni, ha sfoderato la “capra
urbana”, che non è quella educata, ma quella che pascola in città.
Nella polvere e tra le sterpaglie
abbiamo in effetti visto un paio di greggi.
Intanto, al caldo abbacinante,
s’è aggiunto il vento, da sud, contrario e rovente. Soprattutto nelle (poco
ripide) salitelle è stato un massacro, per le temperature e la secchezza. E’
come avere un phon puntato dritto sul muso in un ambientino già caldo il
giusto. Tipo inferno, per dir.
L’occhio esperto di Raymond ha
poi riconosciuto, nel mezzo del nulla, una casetta con delle auto parcheggiate
fuori, segno che fosse abitata. Ci siamo avvicinati e, superati due cani da
guardia, abbiamo bussato per chiedere acqua. Una ragazza, senza velo, non solo
ci ha riempito le borracce, ma ci ha anche regalato quattro peschenoci, mentre
dalla porta aperta usciva musica pop persiana a tutto volume.
Di lì a poco abbiamo deciso di
fermarci per mettere insieme un pranzo e riposare un momento all’ombra. Sotto
al già citato cartellone il Puill si è fatto il caffè, si è pappato gli ovisodi
e il pane fregati in hotel (insieme ad un tot di stoviglie), la marmellata e il
miele altrettanto imboscati al buffet del mattino e un kilone di datteri (ho
contribuito anch’io perché sono TROPPO buoni, dolcissimi, morbidi, si sciolgono
in bocca). Notare la marmellata di carote, che qui sono usatissime per tutto,
dai succhi di frutta ai dolci.
Il tempo di ripartire e subito un
camionista ha accostato davanti a noi, ci ha aspettati sulla strada e ci ha
regalato 4 bottiglie d’acqua. Ci ha anche offerto il tè ma eravamo reduci dal
pranzo a 42 gradi, quindi abbiamo declinato.
Gli ultimi kilometri sono stati
davvero pesanti per le temperature e l’assenza di qualsivoglia struttura.
L’unico baracchino trovato a bordo strada, all’altezza di un villaggio dal nome
carino (San San) è stato una manna dal cielo. Con queste belle ottomane e un
fiumicello (dal vago odore di fogna, ma fresco) ci siamo rinfrescati (io ho
praticamente fatto il bagno) ed abbiamo bevuto cose fredde, tutte offerte dal
proprietario del negozio, che si è fermato a parlare un po’. L’inglese, il
francese e l’italiano sono piuttosto diffusi. Poche parole gentili, saluti e
“how are you”, “where are you from”, ma tanto basta per comunicare.
Via di nuovo, attraverso il
deserto e la città di Mashkat, ultimo centro abitato prima della meta di oggi,
Kashan. Per strada, nessuno. Non c’è traffico. Oggi poi era pure venerdì.
I paesi sembrano quasi
abbandonati, molte case paiono no finite e c’è un silenzio quasi irreale; forse
è il caldo. L’impressione di attraversare un sogno allucinato aumenta quando
delle sottili e altissime colonne di sabbia, come questa sotto in foto, corrono
a bordo strada e addirittura attraversano la striscia d’asfalto. Sembrano
spiriti, fate morgane, presenze sovrannaturali e impalpabili che compaiono e
scompaiono come un soffio di vento, in una danza leggera d’arsura.
Ultima sosta, ormai cotti e
stravaccati a terra senza ritegno, nel profumo di eucalipti di un parco dove
abbiamo trovato un’amica, un cane “gentile” (come ha detto Raymond); inutile
dire che mentre noi davamo fondo ai datteri, lei si è pappata tutto il lavash
avanzato da oggi e ormai croccante per il caldo. I cani qui non hanno vita
facile, per l’islam sono animali impuri.
Finalmente siamo riusciti ad
imboccare il lungo viale moderno che mena a Kashan; qui c’era un po’ più di
traffico. Inutile dire che siamo stati oggetto di richiami e attenzioni da
parte di molti, che volevano salutare o scambiare due parole. Dal motorino
magari,. Con una bombola del gas in mano, magari.
Entrati in città ci siamo diretti
verso un hotel indicato sulla guida, dove ci ha condotti fisicamente un uomo cui
abbiamo chiesto indicazioni. Grazie a costui, altro Alì, che studia italiano,
siamo persino riusciti ad avere uno sconto (“perché siete ciclisti”). Un
misterioso benefattore ha anche bussato alla porta di Raymond regalandogli
mezzo melone.
Di Kashan, la città delle rose,
così chiamata per i numerosi giardini e per il prodotto tipico locale, l’acqua
di rose, abbiamo visito il minimo: troppo stanchi e bruciati. Innanzitutto il
bazaar immenso e labirintico, che cela al suo interno diverse moschee. Poi alcune
case storiche tradizionali del ‘700 e dell’800, esempi di architettura
residenziale persiana e dell’estetica qajar. Era infatti una città-oasi al
limine del deserto, lungo le rotte carovaniere. Poco distante ci sono i resti
di una delle più antiche città, risalente al 5000 a.C. La città vera e propria
è del periodo elamita (III millennio-III secolo a.C. ), tanto che nei dintorni
si erge una ziggurat più antica di quella di Ur. La città si è arricchita sotto
i safavidi ma poco resta di precedente al 1778, quando un terremoto l’ha rasa al
suolo, causando 8000 morti.
La cena è stata all’insegna delle
zuppe. Io di erbe e noci, kalosh, Raymond di cipolle, eshkene (non esghere come
quei minus habentes della DPG). E acqua di rose ovviamente. Un balsamo dopo l’arsura
del giorno.
E la sera è giunta con un po’ di
fresco, prima di rientrare in hotel. I prossimi due giorni ci serviranno per
raggiungere Esfahan, che dista poco più di 210km. Domani potremmo fermarci a poco
meno di metà, a Natanz, unica città degna di tale nome sul percorso.
30/6/18
Scrivo da una valle deserta,
incastonata tra la distesa piana e arida
che attraversa l’Iran e gli alti Zagros, roccia nuda e bruciata dal sole. Ora
riposano, cupi e zitti nel vicino orizzonte. Abbiamo deciso di campeggiare
wild, dopo una giornata lunghissima, caldissima e per lo più in salita. Scrivo
con la schiena appoggiata ad una pietra ancora tiepida, mentre compaiono le
stelle, tante quante mai ne ho viste, e la luna piena rischiara la valle di
pallide ombre.
Abbiamo lasciato Kashan dopo
colazione, percorrendo un viale alberato che porta di nuovo all’autostrada. Gli
alberi e i fiori sono pochi, troppo arido, ma quei pochi, tra cui pini e
oleandri, profumano come un braciere d’incenso, esalano essenze dolci e corpose,
come un balsamo che addensa l’aria. Nel sole già caldo di prima mattina
bruciano la resina e il polline, bruciano la terra e la corteccia. E pare di
muoversi in un olio impalpabile di giardini da fiaba resi liquidi e vaporizzati
nel vento.
Siamo poi giunti alla solita
autostrada, dopo aver passato, senza pagare, l’ennesimo casello.
Di lì è stato ancora deserto,
sabbia e pietra e pochi cespugli di rovi, come quello ardente che parlò un
giorno ad un uomo, nel nome d’un altro dio.
Tanto saliva la strada, ad arrampicarsi
sulle prime pendici degli Zagros, tanto la temperatura aumentava, fino ai 46
gradi raggiunti alle 11 del mattino. Poi ho smesso di controllare, per non
farmi da sola terrorismo psicologico (ci pensano già i tg iraniani, che
trattano per lo più di guerre, carestie, terrorismo e cataclismi).
La prima stazione di servizio è
stata utile per rinfrescarsi e bere un po’ di succo d’aloe (qui va molto,
freddo diaccio marmato) e far conoscenza con un po’ di camionisti e passanti,
assai incuriositi dalle bici e da noi. Tutti vogliono sapere da dove veniamo e
dove andiamo (a saperlo! Gauguin!), se ci piace l’Iran e se siamo matti. Le
ultime due, sì.
Quando le temperature si sono
fatte insostenibili, abbiamo deciso di fermarci per pranzo presso un rivoletto
pieno di fango e di pesci, attratti dagli unici due alberi nel raggio di 50km e
dalla presenza di alcuni automobilisti in sosta (che spesso vediamo fermi
all’ombra, intenti a gettare acqua fredda sul motore delle macchine, a cofano
aperto, perché del caldo si vede risentono anche le auto).
Dopo aver attrezzato un minimo
accampamento, beninteso a piedi nell’acqua, siamo stati avvicinati dal
proprietario anonimo di un’auto, che si stava riposando. Per più di un’ora ci
ha detto cose in farsi, senza che noi capissimo gran che; ma lui, imperterrito,
è andato avanti a parlare senza farsi problemi. Ci ha regalato delle pesche e
delle prugne, poi ci ha fatto vedere alcune foto sul suo smartphone che lo
ritraggono intento a raccogliere riso, con le zampe nell’acqua. Vedendo che
apprezzavamo il suo mestiere di schiena curva, ha deciso di regalarci una
sacchettata di preziosi chicchi bianchi. Riso iraniano doc ci ha detto,
raccolto a mano da lui. Preziosissimi chicchi bianchi, base dell’alimentazione
qui, insieme alla carne. “Ne basta un pugno e siete sazi” ha aggiunto, facendo
il gesto con la mano chiusa e poi aperta sullo stomaco.
Invero ha tirato fuori
dall’auto anche un pulcino, un anatroccolo penso, imbalsamato. Brutto, ma
brutto. Credo di aver capito che lo ha fatto lui (e si vede), che ne ha trovati
un po’ mentre dalla città dove lavora stava tornando a casa, dalla sua
famiglia. Sosteneva fossero morti per problemi agli occhi (lui pure aveva un
occhio ben rosso e mal messo) e che lo voleva regalare a suo figlio piccolo.
Queste cose le ho comprese dai gesti, e dalla carica emotiva che ha messo il
brav’uomo nel parlare. Ha pure cercato le cartine di Italia e Francia per
capire esattamente da dove venissimo. Quando dico “Milano”, qui, in generale,
tutti sanno dove sia e commentano “Inter! Milan!” (gli iraniano vanno matti per
il calcio). Raymond ha vita più difficile: oltre Paris e Marsiglia i persiano
faticano ad andare.
Sotto un sole allucinante siamo
ripartirti alla volta di Natanz, città delle pere. Ebbene sì, qui si produce
frutta rinomata, e apprezzatissime pere, per il clima gentile. Gentilissimo!
Meno di 50 gradi, certo. Qui c’è anche una centrale nucleare di arricchimento
dell’uranio, ben grande e ben protetta da militari e carri armati. Chissà se le
pere sono fluorescenti e brillano al buio. Notevoli restano pure le tombe
trecentesche di un filosofo sufi, monasteri e alcune strutture architettoniche
antiche. C’è anche un tempio del fuoco che arde giorno e notte, sacro agli
zoroastriani che lo venerano.
In definitiva, va detto, non è
facile distinguere ciò che è antico davvero da case ed edifici ben più recenti
ma abbandonati in mezzo al deserto e in rovina. Mea culpa!
La catena montuosa del Karkas
(montagne degli avvoltoi letteralmente) fa da sfondo, con le sue vette di quasi
4000 metri. Da queste parti, si narra, è stato ucciso Dario III, ultimo re
achemenide sul trono di Persia, che vide Alessandro Magno conquistare quasi
tutto il mondo.
Intorno a Natanz, nascosti tra i
monti, sorgono alcuni paesini microscopici e talmente isolati da aver conservato
l’antica lingua dei Medi (antenati dei curdi), per il resto del tutto
scomparsa. Un esempio è Abyaneh.
Abbiamo deciso di non fermarci a
Natanz perché l’idea di fare 130km il giorno dopo, ed entrare per di più in una
città grande come Esfahan, trafficata e labirintica, non ci piaceva. Sicchè
l’unica opzione è rimasta il campeggio. Prima, però, abbiamo affrontato diverse
salite, di cui alcune ben lunghe (20km) sotto ad un cielo rovente. Questo ci ha
costretti a fare numerose soste sotto all’unica ombra, quella dei ponti,
attirando l’attenzione dei passanti. Che ci hanno offerto anche acqua fresca,
beninteso.
Di nuovo autostrada (come si
evince dai cartelli, non è vietata alle bici!) e salite e soste.
Qui il Puill ha avuto un
cedimento psicofisico e ha siglato: “Raimondo. Morto”.
Ma poi è giunta l’attesa,
sperata, ultima stazione di servizio, dove lui si è ripreso con ciò che aveva
chiesto come ultima volontà, mezzo kilo di yogurt, io con un gelato. Musica
persiana tradizionale a palla e intorno il deserto e i monti nel crepuscolo,
finalmente fresco e ventilato. Nell’area di sosta abbiamo fatto provviste
d’acqua (Raymond ha una sacca da 10 litri, dove abbiamo messo acqua per lavarci
e cucinare, ma da bollire prima per sicurezza) e un po’ di bottiglie per bere.
Caffè. Tè. Pane. Marmellata. La pasta già c’era.
E così ci siamo rimessi in strada
per cercare un luogo riparato dove campeggiare. Mentre faceva buio, un Suv ha
accostato e ne è scesa una coppia di giovani iraniani. Lui ciclista, lei bella
e sorridente. Non solo ci hanno chiesto di tutto, ma ci hanno pure regalato
frutta, acqua ed invitati nella loro casa ad Esfahan. Ci hanno lasciato
l’indirizzo e siamo più che intenzionati ad approfittarne. Sembrano aperti di mente
e moderni, oltrechè benestanti.
Poi è stato un attimo: trovato un
luogo riparato, ormai al crepuscolo, ci siamo imboscati tra rocce e dune per
preparare il campo. La sera è arrivata ed io mi sono potuta togliere tutti i
parafernalia, ci siamo preparati i noodles, poi thè, biscotti e frutta, come
veri nomadi del deserto. La sera è scesa ed un silenzio assoluto, solo
increspato dal ronzio degli strani insetti (a metà tra libellule e cavallette,
che amano suicidarsi in qualunque piatto o bicchiere tu stia usando) è calato su
di noi.
I 110km sotto il sole hanno
sciolto ogni cosa, deodorante, cibo, chewing gum e cervella, ed hanno reso
rovente la bici, da non riuscire a frenare; ma il fresco della notte è giunto
in fretta ed ho pure dovuto indossare una maglia più pesante per i leggeri
brividi che iniziavano a corrermi lungo la schiena. Poi sono giunte le stelle,
la luna e presto verranno anche i sogni, con l’odore forte delle spezie e dello
zafferano, l’eco delle voci che salutano in una lingua che non comprendo e i
volti velati che invece capisco benissimo.
Già ci sono pochi mezzi
sull’autostrada, e passano radi e larghi; ora tutto tace. Si percepisce la
quiete di questa terra aspra e riarsa dal sole in estate, scottata dal gelo
delle vette innevate d’inverno. Si sentono il canto millenario del pastore e lo
scalpiccio di milioni di zoccoli, il fuoco dolce negli occhi dei sufi e il
sudore gocciolare dalla fronte dei mercanti che arrancano obliqui nella sabbia.
È come un frutto acerbo il viaggio, matura al sole del nostro Oriente. Ognuno segue la propria stella. Passo dopo passo, così si arriva lontano. Secondo la propria inclinazione, secondo il proprio coraggio. A volte, quando le costellazioni si incrociano in un gioco ineffabile, accade che anche i sentieri si incrocino tra di loro e si cammini per qualche tratto sugli stessi passi. Ed è bello quando avviene.
RispondiEliminaIncredibili paesaggi.. una prova faticosissima.. tosta Rita
RispondiEliminaBonjour les voyageurs, bravo pour votre route les Iraniens sont vraiment des gens accueillants, frits, eaux ....la confiture de carotte c'est bon non? si vous trouvez des glaces au Safran n'hésitez pas c'est super bon.C'est un pays certes très chaud mais magnifique et généreux, bonne visite a Ispahan Marie de Nanterre
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