E anche oggi siamo nei premi!
Ospiti a casa di Sassanid Izyah (penso si scriva così), che ci ha raggiunti in
sella alla sua bicicletta proprio nel centro di Abianeh, città meta di oggi
dove stavamo cercando un albergo, dopo aver pedalato più di 140km.
Parto dall’inizio perché sono
troppe le cose da raccontare, soprattutto per la serata, che ha preso una piega
persiana inattesa.
Questa mattina ci siamo alzati
presto per andare a fotografare la piazza della moschea dove ieri le pie donne
che vivono sui tappeti ci hanno offerto la cena e tanti sorrisi. Poi colazione
nel caravanserraglio e via di nuovo sulla strada, con l’idea di fare una
tappona per avvicinarci il più possibile a Persepoli, dove arriveremo
dopodomani (e non mi pare vero!). La tappa è stata piana e tranquilla, ed anche
il clima piacevole (a parte la mia pelle che ormai si scolla in brandelli per
il sole feroce). Poi ho capito perché non fa più così caldo e la sera
addirittura la brezza fresca accende brevi brividi sulla schiena: siamo a oltre
2000 metri di altezza! Qui ci dicono che la media estiva è di 35 gradi, quella
invernale -10, con tanta neve. Un vero clima di merda! Troppo caldo o troppo
freddo, sia durante l’anno sia durante il giorno.
Fatto sta che, lasciata Shahreza,
abbiamo imboccato la nostra bella statalona 65-55 che conduce a Shiraz; sempre
larga e ben asfaltata, con meno camioni di ieri ma tutti comunque
strombazzanti; oggi è stata una tappa di castelli, disseminati in questa valle
a manciate abbondanti. Sono quasi tutti resti d’epoca Sasanide, ma rimaneggiati
poi fino ai Qajar; insomma, queste mura di sabbia e vento hanno ascoltato il
canto dei secoli e ancora resistono al sole e al passaggio delle stagioni, in
questa giostra di cieli in corsa. Manzaryeh, Aminabad e Izad Khvast, poi ancora
Shurjestan e altri luoghi di cui il tempo ha cancellato il nome: queste sono le
città che da millenni proteggono la valle e che vengono usate come stazioni di
posta e controllo per uomini e merci che transitano da sud a nord e viceversa.
I muri, le case, i monti e la terra han tutti lo stesso colore e il paesaggio
si tinge d’un ocra su sfondo azzurro che amalgama e porta miraggi.
Di soste ne abbiamo fatte poche,
per riposare dal vento laterale che, sommato alle bordate d’aria dei camion,
risultava piuttosto pesante. Ad Aminabad siamo stati oggetto d’attenzione dei
camionisti in sosta; poi, passato un cartello che porta, per la prima volta,
l’indicazione per Persepoli, abbiamo iniziato a cercare un luogo per riposare e
pranzare; ahimè la valle è un rettilineo chiuso tra i monti, deserto ovunque,
senza alberi né cartelli né un filo d’ombra sotto cui ristorarsi.
Dunque, siccome la temperatura
era accettabile e le raffiche di vento troppo forti, abbiamo deciso di fermarci
comunque, pur senza ripari freschi. Ha attratto la nostra attenzione un cumulo
di pietre e, sorpresa! Nel bel mezzo delle zolle spaccate e della terra così
secca che crocchia sotto ai copertoni, acqua! Una sorta di oasi, con orme di
animali tutt’intorno e un andirivieni di tantissimi uccellini a bere. Che pace
qui, lontani da tutto, nel mezzo del nulla, con questi colori così diversi dai
nostri, e questo cielo così enorme e steso di luce spalancata. Pane, miele,
marmellata, frutta secca e tè: che altro si può volere?
Per di più, tornati sulla strada
principale dopo il meritato riposo, siamo stati fermati da un padre con prole
al seguito che ha voluto il solito set di foto e selfie (con me, non con
Raymond!).
Ultime decine di kilometri,
ancora deserto e una sosta prima di entrare in città alla ricerca di un
albergo; da notare che io ho bevuto un succo al mango che è poesia, la
bretoniera ha cercato, trovato e spazzato un bidone da mezzo kilo di yogurt
bianco acido. Così alla brutta, per terra, a bordo strada, con il cucchiaino
zanzato in hotel a Qom, annacquando tutto con una birra analcolica alla mela
verde.
Siamo finalmente giunti ad
Abadeh, cittadona di 50.000 anime, famosa per l’artigianato d’intaglio del
legno, i tappetti e la produzione di frutta. E Sassanid Izadi (su Instagram con
3 i sul cognome per i più curiosi). Di quest’uomo, che di lì a poco avremmo
conosciuto di persona, ci ha parlato un tizio che si è fermato lungo la strada
ed è sceso dall’auto, facendoci segno di avvicinarsi.
Dopo presentazioni e
domande di rito e stupore e salamelecchi vari, costui ci ha detto che per
dormire potevamo andare a 25km da lì, presso il parco di questo Sassanid;
l’uomo dell’auto, presentatosi come suo nipote, mi ha anche lasciato il numero
dello “zio” ed ha insistito alla morte perché noi andassimo là. Io e Raymond
abbiamo fatto sì sì con la testa, nell’idea di fare ancora massimo massimo 500
metri fino all’hotel. Ma Sassanid tutto può e tutto sa, da buon discendente
degli achemenidi ha una scorta d’elite come gli Immortali, 10.000 soldati scelti
della guardia reale, che erano gli occhi e le orecchie del re che da tutto
l’impero portavano notizie. E così il misterioso Sassanid ci ha raggiunti in
bicicletta, una bella bici, grosso nel suo esser grosso e sudizzo, e dopo
averci salutati, ci ha subito invitati a casa sua.
“Fallawh mi”. Per
convincerci ha pure detto di essere un ex ciclista professionista, e di esser
amico del campionissimo Bernard Hinault. Il Puill, sentito il nome del suo
compatriota bretone pedalante, non ha avuto dubbi. E via in bici a seguire
Sassanid.
Ci ha fatto lasciare le bici nel
garage e poi siamo saliti a casa sua, un bell’appartamento moderno con vista
sulla città e sui monti intorno. Nel frattempo ha fatto almeno duemila foto e
tre video, una diretta e vari post.
Una volta in casa ci ha fatti accomodare
sul divano; a me ha cacciato in mano una banana e mentre Raymond era in bagno,
ne ha presa una pure lui e le ha dato un bel morsico. Quando Raymond è tornato,
gli ha cacciato in mano il frutto già smozzicato. Nel mentre ci ha mostrato
millemila foto della moglie, truccatissima e rifattissima, che, dice lui, fa la
bodybuilder. Di me constata che, a suo dire, sono troppo magra, ho troppi pochi
muscoli e soprattutto con i capelli corti sembro un ragazzino. Più tardi il
Puill gli ha mostrato da Facebook una mia foto con i capelli ancora lunghi
biondoni e da lì la cosa che Sassanid ha più spesso raccontato in giro è stata
proprio questa, con tanto di mimica e gesti. E delle cicatrici che ho sulle
braccia pure. Lui ha una grande tenuta fuori città e produce frutta, e pure
vino, ma non si deve dire perché in Iran tutti gli alcolici sono vietati
(chiamano iranian vodka un biberone di yogurt acqua ed erbe che bevono a
litri). Ha il trattore e una jeep, due figli, tanti soldi e le mani sporche di
terra. Ama vantarsi di tutto. A 13 anni ha vinto un’importanta gara ciclistica,
200km nella neve, ed è anche stato campione nazionale prima dei 20 anni. Ora ne
ha 55 ed è presidente del locale (rarità delle rarità) club ciclistico, sia
maschile sia, inaudito, femminile. La sua più grande passione, dopo il far
mostra di sé e delle sue medaglie e della sua roba, è chiedere dei viaggi,
soprattutto al Puill. Vuole sapere come sia la Russia e come l’Australia, se la
gente in Finlandia è ospitale e se il Sahara è pieno di cani selvatici; se gli
elefanti attaccano l’uomo (in India no, in Africa sì), se le strade in Bolivia
sono pericolose e se gli statunitensi sono brave persone. Ha chiesto tutto di
tutto. Lui pare sia stato solo a Parigi, ma chissà se è vero. Ci offre intato
il tè e i datteri, e una doccia calda. Rientrata la moglie e la figlia
dodicenne, si va a far merenda (ore 20.13) in gelateria. Mano a mano il buon
Sassanid saluta tutti, passanti, negozianti, taxisti, gente che va e viene
sulla strada e nei locali; saluta e dice di noi, che siamo in bici, e di me,
che avevo i capelli lunghi e adesso ahahahah! In gelateria fa una tale scena
che presto si riempie di gente che viene a salutarci e a presentarsi, come
fossimo star internazionali. Lui ci presenta così. Almeno ha qualcos’altro di
cui potersi vantare. Prendiamo il gelato, che sa di cingomma masticata ma si
presenta bene. Poi lui vuole farci assaggiare il frappè di frutta secca (un
milione di calorie al grammo) che sta bevendo e, direttamente dal suo
bicchiere, ce lo versa sopra al gelato, così alla magnaporco. Altre foto, altri
video.
Rientriamo a casa, ma prima lui ci invita ad entrare in un negozio di
scarpe e borse di lusso, simil-italiane, che sta sotto il suo appartamento; in
realtà perché la figlia o la moglie (che si chiama Zari, che significa oro, ma
lui ha fatto la gaffona e ha detto che significa argento) volevano comprare
qualcosa. Inutile dire che pure qui il buon Sassanid ha fatto gran scena,
attirando su di noi l’attenzione di tutto il negozio, proprietario, commesse e
clienti.
Finalmente siamo rientrati in casa. Altre domande, altri datteri.
Altro invito ad andare fuori di nuovo, dopocena, a bere tè nella sua tenuta (in
cui passeremo domani e forse resteremo a dormire di ritorno da Shiraz, verso
Yazd). Di nuovo dita nel naso (lui, sempre).
Infine la cena, cucinata da
Sassanid in persona: patate, carne, spezie piccantine e yogurt: s’è pure fatto
il bis!
Meno male pedaliamo, altrimenti avremmo già preso ventordici kili.
Avevo in effetti letto che l’unico pericolo reale in Iran è quello di
ingrassare. Finalmente è stata ora di congedarci e darci appuntamento alle 7,
domattina. Ultima domanda del nostro curioso ospite, a Puill: “Come fai ad
avere quasi 70 anni ed essere così in forma? E bevi pure vino!”.
L’ospitalità, elemento un tempo sacro anche nella nostra cultura di occidentali. Forse non dovrebbe obbedire ad un precetto che arriva da un’entità superiore, altrimenti si tratterebbe di imposizione e perderebbe in questo modo gran parte della sua componente d’amore. Dovrebbe piuttosto partire dalla solidarietà piú vera, quella che ci fa comprendere che siamo tutti ospiti su questa Terra. Ospiti e per questo solo fratelli, come recita il credo di ogni religione quando non diventa follia.
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