martedì 3 luglio 2018

6. SHAHREZA. A cena con le pie donne che vivono sui tappeti davanti alla moschea

la volpe -ormai fennec- è la seconda da sinistra!



E’ giunto anche il momento di lasciare Esfahan, nonostante la bellezza dei suoi monumenti e la gentilezza dei suoi abitanti. Ultima colazione a casa dei nostri ospiti, ancora più ricca e buona di ieri. Ultimi ringraziamenti e scambi di saluti, accompagnati dal dono di frutta, pane, formaggio e acqua.



Una foto al giardino dove la Signora e la bici di Raymond hanno riposato per un giorno, moderno caravanserraglio.



Ultimo sguardo alla mappa e via. Di nuovo sulle strade d’Iran, a districarci nel groviglio di clacson e motorini, gas di scarico e pedoni. Uscire dalla città non è stato facilissimo: la via da seguire era sempre dritta, lanciata a sud come una freccia scoccata dall’arco dell’orizzonte alle nostre spalle. Peccato fossero più di 4km di salita ripida, da fare con il rampichino, in una strada delirante di traffico e incroci. Nonostante fosse ancora mattina, s’è sudata pure la cresima e un po’ di bestemmie son partite. Ma questo qui è un dio diverso, non capisce, parla un’altra lingua e non c’è gusto.
Al di là di questa salita e poche altre, spesso sorvegliate da cartelloni e gigantografie di miliziani o martiri per la fede e la patria (parole che grondano sangue, ovunque, sempre),



la strada è stata clemente, piana e ben asfaltata. Purtroppo per arrivare a Persepoli e Shiraz non c’è l’autostada, forse la stanno costruendo ora ampliando, con una terza corsia, la statale 65, quella che seguiremo noi. Il fondo è comunque ottimo, però è più stretta e gli strombazzamenti di clacson e bitonali di TUTTI i veicoli che Maometto ha messo su questa terra mi fanno venire un infarto ogni volta. Loro salutano e fanno ciao ciao con la manina; tu li senti arrivare alle spalle e ti immagini schiacciato sotto a tonnellate di lamiera in corsa.






Abbiamo superato la periferia polverosa ed una vasta area ad uso militare, con tanto di aeroporto e continuo andirivieni di elicotteri, incastrata tra la sabbia e i monti e chiusa dal filo spinato. Poi di nuovo terre aride e speroni di roccia affilati dal vento come lame di coltello. A proposito di vento, oggi si è levato forte e rabbioso, laterale, ed ho potuto fare esperienza di cosa significhi qui quando la sabbia si solleva veramente. L’aria diventa come torbida e gialla e gli occhi e le labbra vengono passati al filo di una carta vetrata invisibile.
I monti, ora invisibili ora d’improvviso vicini e cupi, hanno la forma dei copricapi degli achemenidi o dei turbanti dei sultani, e paiono enormi cappelli di teste sepolte dal tempo.






Una cosa oggi mi ha colpita: questi omini che a bordo strada sventolano cartelli e fette d’anguria, meloni gialli o bastoni su cui sono infilzate cipolle. A volte in mezzo al nulla, protetti solo dalla tesa dei loro cappelli spantegati. I primi che abbiamo incrociato si buttavano proprio in mezzo alla strada ed erano armati solo di cartelli e non di merce: non mi era chiaro dunque se fossero come dei sandwich-men o folli di dio che predicavano la vicina fine del mondo. Poi invece ne sono comparsi altri con frutta e roba varia e ho compreso finalmente che stavano diffondendo il verbo dell’angurianesimo e del cipollismo. Ballando a volte, ispirati dal divino frutto e dai colpi di calore che avran loro già bruciato il più dei neuroni. Comunque, per chi si lamenta del proprio impiego, pensi che costoro stanno per ore in piedi sotto a questo sole che ti apre il cranio come un mazzuolo, a respirare smog e sabbia, con un melone in mano che dopo dieci minuti è già marcio.








Anguriani a parte, abbiamo imboccato una valle che, su una metà, è parco naturale montano, sull’altra un formicaio di cave di pietra, come quelle leggendarie delle punizioni divine, o quelle ben meno favolistiche della damnatio ad metalla.








Si susseguono paesini piccoli ma ben vivaci, con qualche negozietto e i minareti che si confondono con le ciminiere. E’ anche zona di grandi impianti industriali (siderurgico, chimico), raffinerie e alimentari. Tutto insieme. Così da produrre il gelato gusto catrame e benzina che quando brucia sa di polo, il riso cucinato con carne e verdure.









Due chicche per chi non è stato mai in un paese a maggioranza islamica: non c’è la croce rossa, ma la mezzaluna rossa; e lo skyline sui cartelli che indicano l’inizio di un centro abitato sono così, con la moschea.




Abbiamo fatto soltanto due soste negli 80km di oggi. La prima in un baracchino che vendeva bibite fresche, dove, come al solito, abbiamo attirato l’attenzione dei presenti che si sono riuniti per chiedere, valutare e discutere di quanto potessero pesare le nostre bici. Io per altro ho bevuto questo succo di frutta buffo, che sembra velenoso mortifero, ma è buonissimo e croccante di semi di basilico.
Per altro mi hanno dato, come costume qui, il resto piccolo in wafer; 3000 Ryal, 3 biscottini (80.000 Ryal sono un euro). Quindi i wafer costano poco, ma sono una valuta comunque più forte e usata di quella corrente iraniana.






L’altra sosta s’è fatta all’ombra di alcuni piccoli pini striminziti ma profumatissimi, la cui resina esalava un aroma come da bracieri d’incenso. Qui abbiamo spazzolato il pane regalatoci al mattino dalla nostra ospite e parte della frutta secca acquistata ieri al bazaar dai venditori afghani.



Io ne ho anche approfittato per iniziare a studiare un po’ di zoroastrismo. E’ una religione che mi affascina. In più sotto a questo cielo d’azzurro spalancato è più facile comprendere l’Avesta. Tra me e me pensavo oggi che il giudizio universale che verrà alla fine dei tempi, in cui anche gli zoroastriani credono, non verrà annunciato da nuvoloni neri o tempeste di fulmini e turbini. Sarà un cielo steso come quello della Persia, aperto sul mondo come un occhio che non riposa mai e vede tutto, nella luce che non concede riparo ed annulla ogni ombra.





Mentre pensavo al giudizio delle anime secondo Zaratustra, le cui azioni vengono pesate da Mitra e dagli altri due giudici divini e devono poi attraversare un ponte, che li porta alla luce d Aura Mazhda se prevalgono quelle buone, o si assottiglia come un capello e li fa precipitare tra i dannati se sono di più quelle cattive, siamo giunti finalmente alla meta di oggi, la cittadina di Shahreza, con molti monumenti al melograno.





Probabilmente è una meta di turismo interno perché, stando a Google, avrebbe dovuto avere due alberghi: uno in centro, uno in periferia; abbiamo optato per quello centrale, salvo poi scoprire che non solo non è un hotel, ma è un dormitorio per i miliziani della polizia religiosa. Per fortuna i taxisti cui abbiamo chiesto indicazioni ci hanno detto che l’altro albergo, quello che ci eravamo già lasciati alle spalle, era davvero tale, aperto e funzionante. Dunque siamo tornati sui nostri passi ed ora siamo qui, a dormire in un antico caravanserraglio ristrutturato. D’altronde, sulla via della seta (e della sete), è giusto così. Se si vogliono davvero calcare le orme di Marco Polo e degli antichi mercanti…














La cosa ancora più bella è la piazza adiacente, abbracciata dai monti aguzzi e vicini e sovrastata da una moschea finemente decorata; fuori, sulla terrazza che domina la città, ci sono, non per forza in quest’ordine: un pirlino a rotelle in cui si noleggiano chador; gente sdraiata su tappeti che mangia, ride, prega, vive; un lunapark; molte fontane; un cimitero con i martiri delle guerre, in primis quella con l’Iraq; altra gente che fa cose; un baracchino che vende oggetti sacri, corani e magliette con su la faccia di Khomeini o quella del supreme leader, il grande ayatollah Khamenei (che più lo guardi più sembra Babbo Natale). Dunque c’è chi acquista la t-shirt con Che Guevara, chi con Putin e chi con l’imam. Giusto così.




















Mentre passeggiavamo per la piazza in attesa dell’ora di cena, una ragazza, seduta sui tappeti nel parco con la sua famiglia, ci ha avvicinati e ci ha offerto dei dolcetti buonissimi con sesamo e marmellata di zafferano.



Poco dopo, siamo stati cooptati da un gineceo di giovani e meno giovani sante donne che vivono sui tappeti intorno alla moschea; alcune con figli, altre no. L’unico uomo giunto poi s’è scoperto essere il fratello di una delle signore. Resta il fatto che, in un misto farsi-inglese-gesti-sorrisi, ci hanno offerto: un piattone di zuppa di legumi molto buona; frutta e cetrioli (qui considerati al pari di pesche, prugne e albicocche); riso; tè con dolcetti provenienti dalla città santa di Mashad; semini vari. Quando hanno saputo che ero un’insegnante, hanno tutte voluto farsi una foto con me. Selfie e mica selfie. Perché vivono sui tappeti nella piazza della moschea, ma hanno tutte lo smartphone, Instagram, Telegram e Whatsapp (che qui non sono bloccati). Si rivolgevano soltanto a me (forse perché per una donna non è cosa, da queste parti, parlare con un uomo sconosciuto; o forse perché s’intendevano meglio) e Raymond è stato assai escluso sia dalla conversazione sia dalle foto, anzi, è stato sfruttato da tutte per farsi fotografare con me, caricato di telefoni e non considerato minimamente (non hanno fatto nemmeno mezza foto con lui, solo un selfone di gruppo fatto da un bimbo cicciuto, Mohamed).













Insomma, che dire? Pare che questa leggendaria ospitalità persiana sia proprio autentica e concreta. Anche chi ha poco, fa a metà. A ciò si aggiunge la curiosità di parlare con persone che vengono dall’altro mondo, e la volontà di dimostrare a noi occidentali quanto false siano le dicerie sulla gente del Medioriente. E parlo in generale perché ben so, ahimè, che l’europeo medio a fatica distingue l’Iran dall’Iraq, la cultura araba da quella persiana (qui invece gli arabi sono considerati rozzi, bigotti, campagnoli arricchiti col petrolio, inferiori per cultura agli iraniani che vantano una storia millenaria fatta d’arte e conquiste).

Dopo esserci congedati (e aver fatto altre mille foto), la bretoniera ha voluto cenare di nuovo, in hotel. Trota al sesamo e pollo in salsa di zafferano, pane al papavero e insalata. Si è pappato quasi tutto lui perché io ero sazia nel corpo e nello spirito. Che bello viaggiare così, e conoscere le persone (e che bello se domani non ho la salmonella!).



Ci siamo dati, a questo punto, 3 giorni per raggiungere Persepoli. Domani tentiamo una tappona da 130km, per giungere ad un’altra città piuttosto grande, Abadeh. Chissà di chi incroceremo lo sguardo e la voce, domani, in queste terre così poco ospitali per il clima, ma così accoglienti per la gentilezza di chi ci vive.

2 commenti:

  1. La storia e la geografia ci aiuti a conoscere, ma anche la sociologia e la politica, la tradizione e il costume di popoli antichi e nobilissimi. Meglio, molto meglio che attraverso noiosissimi testi scritti da paludati cattedratici. Soprattutto però è il cuore degli uomini e delle donne che incontri sulla tua strada a diventare davvero comprensibile in tutti i suoi meccanismi più sottili. Perchè, in fondo, è il saperci tutti ugualmente piccoli su questa Terra la conquista più grande. Grazie

    RispondiElimina
  2. Conoscere e relazionarsi con gli altri: l'essenza del viaggiare

    RispondiElimina